Veniero
SCARSELLI
Veniero Scarselli è nato a Firenze nel 1931, è vissuto appartato in mezzo ai boschi dell’Appennino toscano, dove è scomparso nel 2015. Ha pubblicato i poemi: Isole e vele (Forum, 1988), Pavana per una madre defunta (NCE, 1990), Torbidi amorosi labirinti (NCE, 1991), Priaposodomomachia (NCE, 1992), Eretiche grida (NCE,1993), Piangono ancora come bambini (Campanotto, 1994), Straordinario accaduto a un ordinario collezionista di orologi (Campanotto, 1995), Fuga da Itaca (Libero de Libero, 1997), Pianto di Ulisse (Rhegium Julii, 1998), Il Palazzo del Grande Tritacarne (Campanotto, 1998), Ballata del vecchio capitano (Ibiskos, 2002), Il lazzaretto di Dio (Bastogi, 2004), Diletta Sposa (Montedit, 2006), Genesis (Genesi, 2008), Mille millenni d’Amore (Il Croco, 2008), Trionfo delle anime artificiali (Genesi, 2009), La suprema Macchina Elettrostatica (Genesi, 2010), Ascesa all’Ombelico di Dio (Genesi, 2012), L’universo parallelo degli Acquatici (Genesi, 2013), Vera storia del vascello fantasma (Genesi, 2015). Ha pubblicato i volumi di saggistica: Conservazione dell’amore coniugale (Campanotto, 2008), Il mio pensiero poetante (Genesi, 2011), Struttura molecolare del Bello (Prometheus, 2011).
POESIE
da ERETICHE GRIDA
Mio Dio, è Te che coi fucili di legno
d’una mente che muore d’inedia
volevo villanamente stanare
con l’ottusa arroganza del cacciatore,
non con la speranza del cieco,
del Lazzaro, del paralitico, del disperato,
ma come chi vuole con la forza
carpirti la formula gelosa
che spieghi il mistero dell’universo;
ma Tu, che sei Aquila,
getti le creature devianti,
che presumono d’amarti soltanto
con l’amore fraudolento della ragione,
dalla rupe Tarpea del tuo nido;
Tu dischiudi la tua Casa solo ai figli
che sanno farsi poveri di spirito
e umilmente t’accolgono in cuore;
il peccato della ragione
è lo specchio superbo di Narciso
divorato dai vermi del dubbio
e non depone che uova d’inganni.
(…)
Abbi finalmente pietà
di chi non ha saputo trovarti
pur nella bellezza sconvolgente
di questo tuo incredibile universo,
e neppure nel grembo pieno di Grazia
di quest’isola protesa verso il cielo
con l’anelito tenace e forsennato
d’ogni pietra e d’ogni essere vivente
e allora s’è fermato ad aspettarti
con il groppo antico alla gola
d’un povero cane abbandonato
che dopo tanto ostinato frugare
fin presso alla porta della Morte
s’è sdraiato sulla tomba del padrone.
(…)
Dio, sai quante volte
sepolte nella loro cecità
di bestiali mortali creature
queste anime incapaci d’attingerti
strisciarono umilmente ai tuoi piedi
tentando ogni funzione corporea
loro data, ogni minimo pertugio
che s’aprisse luminoso ai loro sensi,
pur di vedere con un urlo
uscire abbagliante dalla notte
il faro del tuo Pene Creatore.
Ma si sarebbero anche contentate
d’un tuo minimo cenno, una prova
pietosa di carità, anche di un osso
buttato al cane affamato della ragione
che salvasse dal deserto del dubbio
il loro amore disatteso e umiliato.
(…)
Io in cambio non potevo offrirti
che il mio amore animalesco e caduco,
eppure il solo, anche se fatto di carne,
che sapessi somigliante al tuo
così grande ma così inaccessibile,
il solo che m’avevi inoculato
per compiere la tua volontà
con la compagna che m’avevi donato,
per suggere il dolce nutrimento
di conforto e saggezza dal suo seno.
Sai quante volte ansimando,
sfiniti dal bagliore di un orgasmo,
la raccolsi con gli occhi smarriti
dai cieli senza tempo dell’anima
che invano avevamo tentato
di varcare uniti per raggiungerti
come Icari senz’ali, soltanto
con la nostra minuscola estasi.
da IL PALAZZO DEL GRANDE TRITACARNE – VADEMECUM DEL PERFETTO MORITURO. ALLEGORIA DI OSPEDALI E LAZZARETTI
Chi potrà dimenticare i patimenti
che dovetti mio malgrado infliggere
a quella povera innocente di mia madre
nelle cui deboli latebre corporali
il Male sommuoveva insospettate
animalesche diaboliche forze.
Ella aveva esaurito il suo compito
di dispensare a noi figli già grandi
lumi e nutrimento, ma ancora
non voleva affatto morire
e i diavoli nascosti nel budello
forte strillavano da quella sua bocca
di volere continuare indisturbati
i loro soliti traffici bestiali;
allora i santi Inquisitori con la corda
le legavano in nome di Dio
le zampe che brandiva come fendenti,
poiché il dovere li votava a castigare
le bestie rintanate nel suo corpo;
anch’io purtroppo gridavo senza rispetto
alla sua bocca oscena che tacesse,
non volevo più sentirmi addosso
i graffi delle strida bestiali,
anch’io con le lacrime agli occhi
l’afferravo per le natiche cadenti
e con la forza del figlio ancora giovane
gli affondavo il tubo empio e scellerato
d’un potente clistere sterminatore
fino al cuore, nella tana del Maligno,
sommergendo d’olio santo e di ricino
le urla spaventose degli assediati
finché sturavo quell’ano riottoso,
la cui finestra s’apriva ad un fiotto
inarrestabile di feci, una valanga
di topi rospi aquile serpenti
neri come pece che fuggivano
per ogni dove lontano dalla fogna
infine risanata, mentre alta
si levava soverchiante sul mondo
la voce consolatrice di Dio.
Io commosso e sfinito, ma contento,
potevo finalmente riaffacciarmi
alla sua sgombra e chiara finestrella,
spiarvi ancora l’anima paziente
della Mamma e in quel pezzo di cielo,
inseguendo un volo di rondini,
parlarle seppure per poco
di me della mia vita dei miei figli.
(…)
Neppure molto lontano
c’era anche un delicato paravento
che celava agli occhi inquieti dei malati
un piccolo mondo geloso
fasciato di soffice silenzio
come una capanna nella neve.
Un uomo col capo fra le mani
piangeva sommessamente la compagna
che stava richiudendo i suoi petali
così appassiti che neanche più la notte,
che pure ritempra di rugiada
le cose inaridite dal giorno,
riusciva a rialzarli dai cuscini;
era intenta alla fatica di sciogliere
i lacci dell’anima da un corpo
forse ancora giovane e bello,
ma questo non voleva più morire
finché l’uomo continuava a carezzarlo
senza sosta come forse mai
aveva fatto nei giorni felici,
poi che ora era l’unico tramite
al suo amore, il solo filo prezioso
ancora acceso per farsi sentire
da quell’anima timida e gentile
che stanca del troppo soffrire
inarrestabilmente si ritirava,
e il pover’uomo non era più capace
neppure con continui baci
di trattenere quella cosa misteriosa
troppo tenue, evanescente, impalpabile,
che sembrava sfuggirle dalla bocca
esausta per l’impresa del morire
e che pareva già chiamarlo da lontano.
(…)
Pensai che per un caso sventurato
poteva essere la nostra compagna,
quella che scegliemmo gioiosamente
ascoltando incantati il nostro cuore
per essere con lei una sola carne,
e timorosi del Male del mondo
affidarsi per sempre alla sua guida.
Adesso l’amata che ci ha amati
è colpita da un destino infame
che nessuno dei mortali può capire,
il suo tenero dolcissimo involucro
è avvizzito fra le nostre braccia,
mortificato e abbandonato alla sua sorte
ed alle nostre sbigottite lacrime.
Ma esso è ancora tutto da baci,
si può non amare come se stessi
il grembo che ci accolse con amore
facendosi grotta e salvezza,
la bellissima carne che Dio
ora toglie ma che un giorno fu nostra,
il suo seno, la sua mano, il suo piede,
una sua unghia?
(…)
Confesso d’aver visto poco dopo
e spiato ignobilmente due vecchietti
nascosti in una cella lindissima,
quasi un’isola; una sorte gentile
aveva voluto che insieme
quelle vite fedelmente unite
si apprestassero anche alla morte;
nella cella dimentiche di tutto
quelle anime ricolme di grazia
si scambiavano l’amore più vero
che due esseri umani consapevoli
si possano donare, più vero
dello stesso amore irruento
e forse cieco che facevano da giovani;
lei col viso radioso circonfuso
di delicata saggezza femminile
aiutava il pene moscio ad infilarsi
nel posto più giusto e più bello
e lui senza vergogna, anzi grato,
si lasciava aiutare baciandola
con languore, assaporando come mai
l’abbraccio di quel corpo ancora caldo
ch’era limpida finestra dell’anima
e con sapienza forse divina
sopperiva alla vecchiezza della carne.
Il male, la materia, il dolore
in quella santa alcova era svanito;
io ritrassi commosso lo sguardo
vinto dal pudore e dal rispetto,
chiedendomi perché bisogna attendere
di essere dei vecchi ormai sfiniti
per imparare finalmente ad amare.
da TRIONFO DELLE ANIME ARTIFICIALI
Poiché il Cosmo sta subendo la disgregazione entropica, bisogna convincere l’Umanità della necessità di correggere i difetti del Creato con l’ausilio della nostra Super-tecnologia.
Orsù dunque! cominciamo a trasformare
il Pianeta nella bella incubatrice
di un Amore Superumano,
così da rallentare l’Entropia
e renderne più dolce il compimento.
Gli scienziati in formicai fortificati
inventeranno dei magici filtri
che costringano la gente del Creato
ad amarsi: vaccini da iniettare
d’ufficio ed in nome di Dio
nelle tenere cellule embrionali
appena fecondate in provetta
ed in quelle appena sbocciate
di tutti i poppanti del Regno:
un programma di difesa antivirale
molto simile a quello dei computer,
così da dissuadere con le armi
l’intrusione virulenta di pensieri
che non siano d’amore e di pietà
verso tutti i fratelli del Creato.
(…)
Con le tecniche ormai raffinate
della neurochirurgia microscopica
si potranno inserire nei cervelli
anche cellule staminali selezionate
che contengano i geni dell’Amore
estratti dalle cellule di animali
notoriamente buoni e pacifici,
ad esempio da agnelli, colombe,
bravi lupi di Gubbio discendenti
da quello una volta ammansito
da Santo Francesco…
(…)
Ma vi saranno anche delle cliniche
ad uso di singoli individui
bisognosi di interventi speciali,
quali sposi incompatibili ed adulteri
altrimenti condannati dalla Legge
all’orribile pubblica lapidazione.
Si potranno per esempio cucire
su proposta di assistenti sociali
ed ingiunzione dell’alta Autorità
i due sposi in un’unica carne
così da farne dei fratelli siamesi
con un unico cuore e un solo fegato,
costretti a sopportarsi giorno e notte
finché morte non venga a separarli.
(…)
Una nuova ingegneria metafisica
trapianterà le anime dei morti,
nostri cari, nei corpi dei vivi
affinché essi possano con agio
usare il nostro soffice corpo
per i loro bisogni affettivi
e sentirsi ancora in famiglia.
Così l’anima dolente dello sposo,
separato duramente dall’amata
per una prematura dipartita,
potrà esser trapiantata nel corpo
inconsolabile ma ancora voglioso
della vedova, in modo ch’essi possano
copulare per ancora molto tempo
anche se soltanto in ispirito,
raggiungendo perfino una sorta
di prorompenti orgasmi metafisici
sicuramente benedetti da Dio,
tali che la povera vedova
possa per l’antica virtù
dello Spirito Santo addirittura
restare incinta del frutto benedetto
insufflatole con amore e sollecitudine
dall’anima soddisfatta dello sposo.
da ASCESA ALL’OMBELICO DI DIO – TUTTO QUELLO CHE DANTE NON SAPEVA MA CHE VOI VORRESTE SAPERE
Nei versi seguenti “Beatrice” gli svela il segreto di Dio:
Fu a questo punto che la buona Sorella
– e gli occhi le lucevan come mai
perché forse tratteneva le lacrime –
decise ch’era giunto il momento
di sciogliere i lacci ad un Segreto
che fino allora a suo saggio giudizio
non m’aveva voluto svelare
a causa del bagliore intollerabile
che ha il Vero Assoluto…
(…)
<Ebbene sappi che un dì non lontano
l’embrione del tuo ego sarà chiuso
di nuovo in un Ovulo perfetto
ma ora sarà Dio a fecondarlo
e ad assorbirlo negli umidi recessi
del Suo Utero per farne con Lui
un’unica carne; saranno le cellule
del tuo embrione a volersi annidare
ricreando in quelle carni una placenta
e generando nuove vene ed arterie
che simili a radici succhieranno
come un feto vorace il nutrimento
dalla mucosa del Cordone Ombelicale,
il quale infine avvolgerà il suo feto
in un abbraccio senza fine; ciò significa
che Dio destina la tua carne di figlio
a farsi carne verace di sua carne,
che è quella d’una Madre divorante
e per divina natura insaziabile>.
(…)
Adesso infatti con mia grande ambascia
mi parve (e fu l’ultimo mio dubbio
o forse il mio ultimo incubo)
che la sordida carne del budello
avesse già cominciato davvero
lentamente ma voracemente
a divorare miei lembi di carne
seppure non sentissi alcun dolore
come infatti aveva detto l’Amata….