Tommaso
DI FRANCESCO

Tommaso Di Francesco è nato nel 1948 a Roma dove vive e lavora. È condirettore del quotidiano Il Manifesto. Suoi versi sono inseriti in riviste e antologie in Italia (a partire dal 1968, quando vennero pubblicati da Pier Paolo Pasolini su Nuovi Argomenti), Francia e Stati uniti. Tra i libri di poesia ha pubblicato: Cliniche (Crocetti, 1987, con prefazione di Franco Fortini); Tuffatori (Crocetti, 1992, con una lettera in versi di Gianni D’Elia); Incorpora testo (poemi in versi e in prosa, con prefazione di Pietro Castaldi, Manni, 1994); Il buio della specie. Quaderno slavo (poema, Manni, 1999); Disparte (dieci poemetti, Empiria, 2003); Il trasloco (Round Robin, 2009, epigrammi sulla redazione de il manifesto con prefazione in versi di Roberto Roversi); Via Latina Camminamento (Manni, 2012, poema in ottantatre canti, con prefazione di Giulio Ferroni); Reificar, vicenda silente (Manni, 2017). Ha curato le antologie: Veleno, antologia della poesia satirica contemporanea italiana (Savelli, 1980); in collaborazione con il poeta Antonio Ricci, Elenca, poesie di elenchi, antologia di testi elencatori (Valore d’Uso, 1982); e con Pino Blasone e Wasim Dahmash, La terra più amata, antologia della poesia palestinese (ManifestoLibri, 1988). Tra i libri in prosa ha pubblicato due libri di racconti Doppio deserto (PellicanoLibri, 1985), con una prefazione di Paolo Volponi, e La passione della distrazione (Manni, 2007) e due romanzi, Il giovane Mitchum (Il Lavoro Editoriale, 1988) e Hotel Abisso (Mancosu, 1994). Ha scritto il dramma radiofonico Lettera da Tirana (1998).

tommaso.df@fastwebnet.it

POESIE

da VIA LATINA

Camminamento
XII
Solo mi riconosco nello specchio
se attraverso lo sciame di parole
che dai phone-center dirigono
sui sensi nostri in campo intimoriti.
La lingua ucraina bada ai filippini,
accendono cuori ombrelli bengalini
e l’attitudine zingara viene relegata.
Nel parco dei corvi a perdizione
è arrivata la colonia cocorita, già
ride di richiami e del vuoto tace.

XIV
La mia generazione non spreca le molliche,
non ha fatto la guerra, l’ha sentita raccontare.
Il dopoguerra porta in bocca il bianco
pane dei vincitori. Nel buio resta la riserva
perenne, la madia di farina della prossima
battaglia campale che ci è dato raccontare…

XVIII
Tombe latine così vive, come
per una inesistente morte
la guerra dite e l’ultima pace.
La rosa canina s’accanisce
a richiamare acqua sui cessati
spiriti che colgono euforia
dentro la terra dannazione
frammento d’aria, unica ragione.
Mostrando d’un tratto l’ombelico
la conoscenza pareva nudità.

XVI
Bella la poesia che non ho scritto,
che mi scrive e non si cattura,
che il tempo nella pagina rifiuta.
Il verso allora resta dentro, mandato
a memoria, con il mondo non si misura
così com’è e viene scordato, senza
corde rimane sparito, senza parole
rattrappisce offeso, tra gli umili piegato
e su se stesso riconosce l’impotenza.
Bello che non s’arrende e torna
trasformato nella tua maschera
del giorno che fa verso al sole…

XX
Sapessi come distruggo
la natura mia quaggiù
a inizio di millennio.
Nella dedizione mi fisso
solo di quel che sono
che vacilla e non altro,
la parte del tutto, il limite
del passo fra gli umani.
E il furtivo e nascosto
che nell’altro fronte
potrebbe accadermi
è cieco per somiglianza
del tempo che non muta.

XXIII
Accedo alle merci con dolore
nella superficie di un anfratto.
Basterà la strage al formicaio
e la sua nemesi nelle città
all’infertile vita che mi è data?

XXV
Quando Amelia Rosselli prese la sua decisione
la realtà smentì il sogno o forse solo lo dilazionò,
rifiutò, giù nel cortiletto, di venire a patti con essa
magari di stemperare la propria accesa passione
gratificata da buona stampa che non sa e non dice.
Non sa che il poeta è il punto di rottura della diga,
la prima scossa del terremoto, crepa del tempo,
non sismografo per l’allegria del silenzio affluente.
Fu allora che abbracciò d’istinto l’altra via d’uscita…

XXVIII
Com’è che i derelitti dell’Oriente
si penetrano coi derelitti d’Occidente?
La ventata del debole ha attraversato
la strada, io e lui non eravamo dissimili
più volte l’ho salvato dal linciaggio.
Inadeguato, l’aggressione al suo sorriso
gli toglieva la parola. Io lo difendevo
e l’anima mia ho reso pura.

LXXXII
Mia madre non badata da nessuno
insegnava l’abitudine di recare in dono
il ramo d’ulivo senza un dio, solo
la materialità dei processi nella foglia
che conservava memoria dei nemici,
del loro avvento nella nostra vita.
Cantava costretta “bella la spoletta”,
nella fabbrica d’armi fu tradita
dalla stessa arma che perse il fratello
sul fronte dilaniato degli umani.

LXXXIII
Qui si loca dì per dì la sconfitta
come l’ultimo luogo della terra
al valore della vittoria corrisponde,
conosco un laberinto che m’inzogno
a pie’ sospinto dentro il mio terrore.
E’ un’altra stagione, storpio vocali
per entrarci dentro. All’origine.

da CLINICHE

Wu *, Cinque quintetti
“…La paura della speranza e l’amore per la disperazione. Non si tratta
d’un medesimo sentimento, né si ritrovano nella stessa persona. Non
necessariamente. Ma parliamone, perché la Cina scatena l’una e l’altra”
Franco Fortini, “Ancora in Cina”
(Quaderni Piacentini, n. 48, 1973)

Primo quintetto
1
Aerofago il ventre piatto di Xi’an,
fogna d’imperi che allinea ancora vivi
terrecotte di pronti guerrieri.
Senza questa violenza, per uno solo
eterno, non avresti memoria di materie?

2
Cercate soluzioni, troverete esecuzioni!
Zaofàn* di sangue fresco, tre file d’uomini
e una donna, birilli rapati a zero,
animali domati, tenuti sotto il giogo,
mentre accusavano sentenze ad alta voce.

3
Non c’è pietà allo stadio stamattina,
quello che mai si vorrebbe vedere,
poligono di tiro la nostra specie,
quello che più non si vorrebbe, il colpevole
che perde nei pianti la faccia e la testa.

4
Pure i fucilanti non partecipano,
la loro qualità è l’indisponibilità.
Camicie bianche e accese di Goya, povere
giacche verdi, immobili strappate, fiere,
già stanno oltre, nella fossa comune.

5
“Ladri”, dicono, “Stupratori…assassini…”.
Comincia il carosello in sidecar, ordini,
zoccoli, divise ferrate, occhi militari,
strattonati sui camion, al disprezzo mostrati,
tra breve sigle rosse su elenchi eseguiti.
Il fidanzato offre kekou-kele* e il mattino
fatica ad alzarsi sopra il mattatoio.
(Xi’an, 1 luglio 1985)

Secondo quintetto
1
Barbe d’acqua sullo Yantze
e gorghi infinitesimi d’inferno,
gli scarichi dell’acqua fanno terre,
resiste acerbo il filare sui pendii
quanto eguale dirittura del mondo.

2
Case raccolgono il sereno intorno
e fornaci del balzo grande e piccolo
che fece, perdendola, guerra combattuta.
Martelli pneumatici a buie martellate
sono tendini ancora e le dita, cinque, prensili.

3
Funzionari bambini, quadri rinnovati,
un terzo intero del mondo conosciuto
avventura lunghe le ventiquattro ore
avendo luce oltre i cento calendari
di nebbia acida, di nebbia occidentale.

4
Chi serve a tavola non è venduto, ancora,
e ride sapendo prima la saggezza tutta,
prendendo le distanze. Un terzo del mondo
fa maschera dubbiosa d’affetto, rischia,
saliva, si schermisce, si dichiara assente.

5
Tempo che abbiamo più non avremo,
tempo che non hanno avranno?
Il rullio del battello fa comuni
le ansie e le paure al passeggero,
è mia madre la donna adesso stanca
dai capelli intrecciati di colline,
sul capo chino, verde del Sichuan.
(lungo lo Yangtze, 3 luglio 1985)

Terzo quintetto
1
Dovunque senza strade umani appesi,
nella battaglia sudata avanti china,
su su per le costole scoscese
formiche che pure accendono parole
e azzardano nei tempi la scrittura.

2
Il falconide rosso ruggine caccia
trapassando gli occhi l’acquitrinio,
afferra il barbo con l’artiglio adunco
e quello sguitta ferito in mezzo all’acqua,
gli sfugge e cade l’occasione di sfamarsi.

3
Prenderanno occasioni loro, allora,
afferreranno il pieno dentro il nostro vuoto.
Affrettano good bye per essere all’altezza,
con le voglie corrompono di filamenti deboli
le trame enigma delle sete, l’occhio ai jeans.

4
Se si passa la chiusa è l’allegria
di ragazzi malandri e di bambine
che vergogne sussurrano, malizie d’età,
e il sesso preparato, aperto o duro, quasi
senza che nu sia differente da nàn.

5
Nella sosta a Wuhan gli sguardi sequestrano
gli occhi truccati di belletto blu
d’un giovanotto di quindici anni profumati.
Femmine di trent’anni, tutt’uno coi metalli,
su imbarcaderi ritornano, traversano pontili.
Cicli dei raggi delle ruote stradali,
niente eguaglia il ritornare a casa.

Quarto quintetto
1
Così come creta diversi forma
i visi e nudi, la zoppa vita, in fondo
nelle orbite buie, isola corpi e cuori,
l’uomo qui davanti, la sua parte notturna,
preminente ha sul volto l’avviso del teschio.

2
Lo specchio appare ospite straniero,
non natura tra gli altri, rive
non separano sabbie da greto e sassi.
Canneti e pietre levigate precipitano
piantagioni di mais, cicatrici e cancrene.

3
A pelo scivola intessuta rete,
riaffonda delicata e stesa, draga
la fortuna da sinistra e da destra, sinistra…
Il battello cieco procede ad occhio nudo,
tesa corda è il cuoricino cinese.

4
Nascoste stanno cento città, illividite
nella memoria che nessuno racconta.
Pensando ad isolati attracchi ai margini
sorge, bussando alla porta di dietro *,
gente tanta quanta mai pensavi finora morta.

5
E’ il giallo pomeriggio senza amori
e malsano avviene corpo d’affogato,
di pochi giorni morto, a festa vestito.
Gonfio di ventre, occhi spenti al cielo,
pancia all’aria, steso uomo leonardiano.
Chi corvo appollaiato, chi amico nemico
sull’argine guarda, ansioso aspettando?

Quinto quintetto
1
Se un uomo fosse in fuga a non produrre,
lei che non c’è sta dappertutto,
se al tempio sterile rubano corteccia,
se nei pazzàri stanno donne abbandonate,
se il carillon delle stazioni è “Oriente rosso”…

2
Bambine a cosce nude, mangianastri
ai fianchi e cuffie, lacche sull’unghie
ciclamino, tacchi a spillo trasparenti
in attesa dei mercanti del nord.
Nuove foto porno ad Amsterdam.

3
Abaco in chiave binaria, conta il numero,
non tappeti di carne e preghiera.
Disattendere l’ordine di contarsi
il numero, contare nudi godimenti.
I figli unici colmare le vie…

4
Passano russi camion-Liberazione,
steso grano sull’asfalto asciugato,
ma sfrecciano laccate nuove Nissan,
è mio padre, ha trent’anni l’autista,
e le guida fumando senza filtro col mondo.

5
Facciamo sgombre le nostre scrivanie,
umili come lo scrittoio di Lu Xun,
il cinghialetto di pietra per fogli
volanti, portacenere per nuvole di fumo,
bianca ceramica faretra portapenne,
un lume che sia penombra sui segni, prima
che sole, luna. Affilate le nostre scrivanie.
(Shanghai/Pechino, 10 luglio 1985)

* Note al testo. Wu in cinese vuol dire cinque. Qui è nella misura dei cinque versi, per cinque strofe, per cinque canti. Nel primo quintetto c’è la sorpresa sgomenta di chi, per caso, nella città di Xi’an, quella dell’esercito di terracotta, scopre un’esecuzione capitale in uno stadio. Nell’ordine zaofan è la colazione, kekou-kele è il nome cinese della Coca-cola (letteralmente significa, felice e deliziosa). Nel secondo quintetto, il verso conclusivo “/niente eguaglia il ritornare a casa/” è tratto da Li Po (Difficile la strada per Shu). Nel terzo quintetto, nu vuol dire donna, nàn è maschio. Nel quarto quintetto, “…bussando alla porta di dietro” è un modo di dire molto diffuso in Cina, è la doppia porta, i mezzi nascosti, la realtà corrotta; il verso “/gente tanta, quanta mai pensavi finora morta/” è tratto da Dante (Inferno III, 55-57). Nel quinto quintetto appare a Shanghai, nella casa-museo a lui dedicata, la precisione testarda e paziente dello scrittoio di Lu Xun, il più grande, quanto dimenticato, scrittore cinese contemporaneo.

da TRUFFATORI

da Cretule

Nidi
Sui nidi entrando in casa
lo sbatter d’ali si scatena,
quell’ovatta di piume corre ai Lari
e rioccupa le stanze col frullare,
l’aria ha le nuvole uccellarie
dall’incavo in pagliuzze faticate,
rimangono d’ombra le codette
a tana e seme del frantume mio
la scorta d’una seconda vita.

Giovani operaie
Così nessuno mi pazienta amore
e quando crollo nella febbre, il giorno
nascosto adora, cancellato negli occhi,
voi che trafilate ott’ore di lavoro.

Change money
Oh i mercati neri! Scambiano
le fosse degli occhi, hanno
una coppa in mano, portano
doni, nell’iride sempre
anche i più dolorosi,
di contrabbando e in spavento
avvertono le uscite dal deserto.

Microattentato
A proposito di fame
io rubavo
a proposito di morte
io scrivevo.

Vorrei una tregua tra gli uomini
Si discute di una mia qualche
vecchiezza, non dell’anno
che gira e il tempo volta,
ma maturo nel pozzo e secco
in fondo spezzato, terracotta
è il cuore, in due e mille
frantumi dell’anfora latina.
Allora vorrei una tregua
fra gli uomini, vicendevole,
quando la luce avviene urlata
come sangue versato in padiglioni.

Accampamento zingaro
Roma è dei fiumi, a sud
straripa l’anima e l’Aniene
esce gonfio il Tevere giallo
d’odio cresce senza natura
in corsia d’immobilità.
Poveri i bimbi zingari
inventori di vere elemosine
per il nostro semaforo a pezzi
per il nostro teatro di sangue
storpi e laceri di carne
inghiottiti dal ventre nostro.

Campi d’urne
A tarda sera è giunto un verso
non atteso come rammarico
lasciandomi stellato.
C’è un non pianeta tondo
nel sistema solare e parla
la lingua, la nebulosa di fuoco
girandola straparla
stavolta della morte.
Finiti e fragili fringuelli
arroccati uliveti perdono
l’origano, odore dei morti,
di cui il nome dimentico
solo più forte odorando.

Totip
Così ripristinando in retrobar
l’ombra del primo ragazzino
che serve l’anima ai tavoli,
ho avuto le carte truccate
le carte dei miracoli attorno
da poco venuti a raggiungermi.
Appestati e alcooli urbani
al mio scrivere come feto
pensato bambolotto, tazzina
sporca, ceneri e malato legno
mezzo bicchiere in bianchennero…
Anche loro scrivono, vincono
rincorrono del tempo i vincitori
delle corse dei cavalli, cabalà
nel diario dei giorni giocato
e fanno 1 X 2 e hanno pietà
dei secondiarrivati, gelosia
dei forti soltantopiazzati.

A cercare con gioia e smarrimento
A cercare con gioia e smarrimento
i ragazzi son sempre di meno
e sempre più senza steli nell’acqua.
Ora adesso dobbiamo ascoltarli
prima della rottura del frenulo.

Stuntman
Stuntman
il poeta
prova per te
la caduta.

I rospi smeraldini
Nella vita che è uguale in vetrina
per tutti i criceti chiusi in sbarre,
basterà stamattina l’acquario
per l’arrabbiata bestia innamorata
e i rospi smeraldini che s’accoppiano
in fontane, basterà a dar sapore
di natura bugiardo…? Dì, basterà l’acquario?

Biancore
Biancore d’una stella tulipana
apparsa con ritardo di memoria
vorrebbe una rivolta fra le dita
invece della fame solo amore
se poeta è chi muore d’amore
niente ancora m’ha corrotto la notte.

F.F.S.S
Ero messo in un angolo
dagli occhi del bambino
che mi chiedeva le cuccette
chi l’ha messe chi l’ha fatte?
Ero messo in un angolo
a spiegare che l’arrivo era
un punto di fuga, il transito
l’unica presenza, il luogo
a partire unico sito
e in mezzo un riposo segreto
servizio a giacere, tratto
nel segno inutile, nel tempo
del passaggio a metà.
Stavo zitto nell’angolo…

Tuffatori
1
Entrando nell’acqua mota
come in occhi persi e chiari
pinnava la mia parte sirena
avanzava l’intelligenza tritone
aggirando la presenza di terra
che permette rifrazioni
al chiarore di specchio
ai liquidi vicini e approssimati
spartitori di luci, ladri
di promesse avanzando verso lo scoglio
dei sudori, ho visto le ombre
promettenti, ho rapiti i sorrisi
di chi non commenta
ed è tuffatore
ed uno dietro l’altro con splasci
in onde esplodenti e sconquassi
di grida come per una festa
lanciata a scoperta di spazi.

2
Ancora non è ucciso il puma
e la ferocia rappresa nei recinti
fuga i profili per la notte,
frammentato è il cuore dei bufali
nella piana città di cadute,
ecco dal dolce pendio del neon
tuffatori in attesa con gli archi
infilati delle braccia ai fianchi,
piegate in architetture di fiori
sbocciati alle ossa di tuffatori,
scandiva il sole tuffatori,
segnalava nell’aria, tramite alla specie,
iperbole dei corpi, cadute a strapiombo
volo fatto a fughe nell’onda
che all’acqua tiene come a un guado.

3
Distante dal vuoto mi ricordo
che un pianto affiatato insieme
lambisce davvero le corde
l’odore lambisce e fugge la naturale
forma, quella che un corpo per sudori
ad altro corpo vita dà umidori.
Ecco le mani giunte in acqua
penetrante al cuore innalzano
silente il mondo, computera la lingua
una memoria offesa che inghiotte
l’ora presente e chiude nel corpo
del mare per sempre il tuffatore.

4
Allivida la stanza forme memo
sogna i passati di placenta
bagnati e veglia penitente
sopra lo specchio del nuovo idolo.
Niente che alla fine non muoia
in forma sua propria di felce.
Numus e battevano le mani,
entrò nel blu più blu,
Elias
Celio
Spurinna
Cleves
entravano nell’acqua tuffatori
e più non uscivano a prender aria
e sole e in un sorriso entravano
bagnati
e tutti erano morti e vivi
e nello stesso orario.

5
Non sarà la presenza dell’albero
dei rami irregolari e delle foglie
d’una pianta che non si sa che sia
a dare luce al dubbio se lo specchio
d’acqua è stagno, mare fiume o lago?
Io ho visto e inteso lo spazio
tutto lo spazio come aperto oceano
e tempo che lo rende agli occhi aperti
con il moto ondoso che fissa alle pupille
stare l’andare e lo smarrirsi soli.

 

da INCORPORA TESTO

Incorpora testo*
***
Nella forma estrema io vedo
insieme trauma e godimento
il mondo e io non abbiamo
confini distinguibili. Non siamo
sazi e disperati. Odio
e pietà, ecco il traffico.

***
Il sole ch’è pianeta nella pasta
di vetro fa la tana, in letargo
fa amore riflesso eco di luce
negli occhi t’acceca e doppio
diventa il pianeta di fuoco
sparpagliato in barbaglìi tanti
quanti specchietti in mano ai bambini.

***
E dove s’appunta voce
brilla licore del silente
termina dio che presume
l’ansia finita nella chiara
acqua che più non può
voce drilli crilli trilli
grilli d’hospitali bip bip
by-pass del sentire la morte.

***
Eserciti ignoranti si scontrano
nel buio e nel deserto, sali
dentro gli occhi induriscono
eserciti ignoranti s’accecano
di notte il cristallo secreto
fa la pupilla serratura minerale
senza pietà proprietà quelli che
adorano un dio soltanto
eserciti si scontrano di notte.

***
Certo se sai che dentro la vetrina
c’è tutta la fame d’oriente
e di quant’altro mondo conosciuto
e lìddentro dove più è sottratto
l’universo ansima nell’algebra gigante
l’opera matematica del disamore
che sottrae, somma, sottrae, divide
moltiplica dentro la vetrina la fame.

***
Che pianta sei se metti radici
aeree dentro la carne mia sospesa
che mi sta in attesa arido orto
che pianta e peli e levigata
pelle tua affonda nella terra
e un limone nero io germinerei
ma tu radice sempre presente
sementi sporgi e voci soffi.
Che pianta sei, come canna
tenera non pieghi e non spezzi
ma accogli in ventre e non uccidi
ed hai un lamento di sorpresa
sempre pronto per la mano sterile.

***
Non sono più leader del mio dolore
esso non mi riguarda, non sto al sole
in fila al suo sportello di sgomento perso,
vengo preso dall’arcipelago e dall’insula
confitto nel cuore l’incorpora testo
d’una sconfitta che trema e carne non s’è fatta.

(*) Nome di un comando della tastiera del computer con cui, automaticamente, si può inserire in un testo che ci interessa, un altro brano preso anche al di fuori del contesto dato.

da ZONE UMIDE

***
Sequestro per pena ai ragazzini
i palloni finiti sul balcone
a devastare interni e li tengo
tutti nella cella-stanza catturati.
Rimbalza la casa di palloni,
cavallucci di Frisia di rivolte,
il buio rotola pieno di palloni
e offende immobilità del cemento
bolla d’aria che prepara le crepe.
Non ordiniamo il mondo, siamo
febbre a misurare febbre.

***
Chi ti parla non ti riconosce
chi ti riconosce non ti parla.
Ho visto l’upupa da vicino, è venuta
sottocasa a beccare mangime paglierino,
abbiamo preso una birra insieme,
fino a notte è stata a parlare.
Le ho detto che volano i punti
cardinali, che l’est diventa sud
del nostro nord e il nord più al centro
e il sud più a sud. Lei m’ha raccontato
che è stinto il cuore degli uomini
e nel ventre materno va riintinto
perché troppo poco vale al mercato.
Poi è volata lasciando la presenza
di tante vocali stupefatte
come fanno gli uccelli nell’iperbole.
Chi ti riconosce non ti parla
chi ti parla non ti riconosce.

***
Allarmi, unica voce che si parla
in città. Allarmi, i vostri servitori
filippini unica voce. Ci sono
polpastrelli che subito lasciano
l’impronta, altri che non danno
né occhi né sudori. L’allarme
è il vostro polpastrello del vuoto.

***
Vorrei esser sospeso, appeso
tra le piante che non danno
frutta, vorrei l’impotenza
che ho conquistato a stagioni.
Sintonia del formicaio e ritmo,
voglio parlarti delle altre vittime
ora che il salice appare di metallo
e vicino all’ombra la tana è di siringa
nei viali attorno le celle di casa.

da IL BUIO DELLA SPECIE

Lettera da Sarajevo
1
Brutta di luce la fame, i denti
cibo non azzannano, ma la carne
delle labbra è divorata, e se il pane-luce
all’improvviso arrivasse a mordere,
in perpetuo solo sazia delle labbra
a brandelli. Così se avete fame
il messaggio che arriva è solo sangue.

2
Corpi tagliati in piazza nei Balcani
nonostante la situazione di grandissima
tensione, canarini in gabbia presenziavano
la fine bruciata delle case, l’acqua
titillava i rubinetti, panni sui fili
restavano appesi alle finestre sgocciolando
dei corpi umani memoria di fantasmi.

3
Sarajevo caro mio*,
bella Italia caro mio,
Terracini caro mio,
Ventotene caro mio,
dare soldi caro mio…

4
I morti animali da cortile
beccavano mangime in tv, il canto
delle galline dalla certa fine
non prevedeva nel ritmo la vendetta.
Il volo delle tortore d’oro
finito sull’antenna in dondolìo
tentennava codette brillanti
azzerando al salto la luce dei canali.
Grigio diventava allora
lo schermo dell’insieme travestito.

5
Il mondo ogni giorno ricomincia
per teatro nudo della sua crudeltà
ricuce e scuce la bianca camicia,
ferito versa il sangue sbottonato
dei pianeti finora inascoltati.
E’ nei punti di sutura che si slabbra
il mondo e ogni giorno ricomincia…

(*) Cantilena di un anziano di Sarajevo che, durante la guerra etnica, usava la sua memoria e la sua storia di antifascista per elemosinare.

Aspettando la morte di una madre
1
Aspettando la morte di una madre
nessuno mi dà consigli vicini e lontani,
sento venire un vento solamente
che indica i dissidi della vita breve
che con lei nelle ore ho combattuto…
se il geco fosse tarantola di muro
mortale o l’azzeccato portafortuna,
se la mia spaventosa somiglianza
con il padre fosse indizio necessario
o sequenza del tempo che non muta.

2
Aspettando la morte d’una madre
ecco che il corpo suo pelle e ossa
che sta senza futuro che non siano giorni
è stato corpo mio e gli occhi poi m’ha dato
che ad ogni luce accesa vibrano.
Aspettando la morte d’una madre
è l’amore generale che vien meno
e solo l’impotenza della lacrima
appiana pianure in cui attendarsi.

3
Lì vedo accecante tutto il tempo
rubato dalla merce al mondo
passarmi accanto nel trionfo del bimbo
che per strada annusa colla
e ride e ride e succhia l’ultima ragione.
Scrivere sta nella zona di silenzio
tra la parola fiato e la scena
che muta il debole in assenza.
Ho la sapienza d’un male che non viene
d’un inutile bene… d’un inutile bene.

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