Stefano
VITALE
Stefano Vitale è nato a Palermo nel 1958, vive e lavora a Torino. Ha pubblicato di poesia: la plaquette Double Face (Ed. Palais d’Hiver, 2003, con Bertrand Chavaroche e Andy Kraft), Viaggio in Sicilia (Libro Italiano, 2005), Semplici Esseri (Manni, 2005), Le stagioni dell’istante (Joker, 2005), La traversata della notte (Joker, 2007), Il retro delle cose (Puntoacapo, 2012), Angeli (PaolaGribaudoEditore, 2013, con illustrazioni di Albertina Bollati), La saggezza degli ubriachi (La Vita felice. 2017), Incerto confine (PaolaGribaudoEditore, 2019, con illustrazioni di Albertina Bollati). Nel 2015 ha curato con Maria Antonietta Maccioccu la raccolta di poesie Ma l’amore no (Se Non Ora Quando Edizioni). Sue poesie sono pubblicate in riviste ed antologie oltre che sul web. Nel 2015 ha partecipato con 24 sue poesie all’allestimento della mostra di Ezio Gribaudo “La figura a nudo” presso l’Accademia di Belle Arti di Torino. Pedagogista e formatore di professione. Ha collaborato con l’Accademia di Musica di Pinerolo e l’associazione Amici dell’Orchestra Sinfonica della Rai di cui cura il programma di eventi ed iniziative. Cura alcune rubriche di recensione dei libri di letteratura e poesia.
POESIE
da LA TRAVERSATA DELLA NOTTE
Il mattino non ci aspetta
e noi dietro a tentare
di guadagnare tempo
per nascondere quel che
abbiamo perduto
scoprire una radura
nel calmo ripiegare
dell’ora spesa a camminare
senza meta né memoria
a riordinare le carte
ed i libri come prima
d’una partenza
eppure siamo già in viaggio
sul klinamen del giorno
servito su di un piatto di nuvole
specchio della impercettibile
variazione di noi:
niente rinasce davvero
neppure il giorno
pura deformazione irreversibile
traversata dell’immobile divenire:
eleaticità è la regola
senza elasticità.
Intanto è chiaro che senza di noi
le nuvole non sognano.
Restiamo eterni dilettanti
dinnanzi alla vita
foresta di pini e
cupi larici
onde livide del mare
di serpente
cangianti mura
delle voci di città…
tutto ci accompagna e
ci soverchia
sguardo che sfiora
accarezza ma non colora
mano che stringe
e scalda ma non convince.
Resta a metà
persino la curiosità che
pure ci è sorella
ma noi vorremmo amante…
la nostra mente
è un profilo distante
a spasso per il mondo
non ricorda niente
e mangia polvere
su una corriera
che non si ferma neppure a sera.
Una fiaba oscura
Ripassare la lezione della vita
appesi al filo del
ragionare calmo e fermo
pur sapendo che l’oscuro sortilegio
non conosce la parola
ma solo la pietra malata
dello sguardo torvo ed ottuso
schizofrenico specchio
della fuga
d’una guerra senza nemici.
Si sta così allora crocifissi
alla trappola del tempo
cannibale gioco che ingrassa e
rovina il fegato e l’anima
silenziosa s’agita
senza una via d’uscita…
Siamo i soldati d’una fiaba oscura
e siamo saldati
a questo ferro avvinghiati
a questa carne condannati
eppure dev’esserci
da qualche parte una botola
una cantina, una tagliola dove
far cadere l’orco, dove poter
infine, riposare.
E solo musica ascoltare.
da IL RETRO DELLE COSE
Il segreto è nel finito
nell’essere imprevisto che comunque siamo
e non sappiamo
nel volto a costruire
senza scatole di montaggio
né oscure trame d ‟ingranaggio celeste
natura naturata
sine voluntate
sine causa suprema
se non la nostra
casualmente ben disposta
di tanto in tanto
speranza di assaporare ancora
il frutto della conoscenza
senza colpa
e senza astuzia
oltre il vicolo cieco
in cui siamo gettati se solo
dimentichiamo lo splendore
nascosto sotto la pelle bruciata
d’ogni vivente.
Qualcosa sfugge e si nasconde
velo opaco che ricopre i tetti
delirio di certezze
nell’eroicità apparente del punto di vista
che trasforma il carnefice in una vittima
nell’ottuso bisogno di semplificazione
abbeverarsi a pozzi avvelenati
per poter di notte uscire
bava alla bocca e mazze ferrate
ubriachi di paura, figli dell’indifferenza
spingere sui treni nuovi neri deportati
innalzare vecchi padroni su poltrone di ossa e sassi
orda primitiva annegata
nello schermo al plasma
sangue della nostra inconsistenza
cose tra le cose
inebetiti dal silenzio nell’impalpabile disfatta.
Dove l’argine
a questo lento tracimare
di cadaveri e fango?
Ascoltare il suono sordo
delle piccole crepe nei muri…
spingere l ‟occhio oltre
i cocci rotti della nostra distrazione
nel nascosto retro delle cose
riemergere.
Lavorare per sottrazione
per reggere l ‟urto malato delle cose
tranches de nature
per coglierle in bilico sul baratro
dell’esistere
nell’esitazione impetuosa dell’impressionistico
tremolio della luce
dove appaiono e scompaiono
le nostre rughe improvvise
i capelli radi e spettinati
l’aria di vetro e la memoria
ferita da cui entriamo ed usciamo
notte che genera ed uccide
liturgia instancabile del vivere
tra i cocci e gli sterpi bruciati
che pure ci sostiene
e ci allerta
con l ‟ombra materna del dubbio
che ripete sommessa:
“prend garde à la douceur des choses”.
La lunga onda del mattino
ci solleva oltre il muro dell’attesa
le sponde assenti del desiderio
riempiono l’orizzonte senz’alcuna resistenza
e non dimentico che nessuno è mai libero davvero:
nell’estrema costrizione della nostra apparizione
balenano rovine e macerie d ‟epoche felici
sfolgoranti sono i sogni
di gambe lunghe profumate e pelle liscia di seta
che ci afferrano per i capelli
trascinandomi senza sforzo
tra notti insonni e strade affollate
piazze lucide di pioggia e terrazze bianche di luce…
come sono cambiati i cieli di questa città
non più grigi ora tersi e trasparenti
regalano la perfetta prospettiva
d ‟una geometrica sorpresa
vista finalmente sgombra e consapevole
della sua memoria, brivido improvviso
ora esploso nell’istante felice.
Ogni cosa riappare
emergendo dalla distrazione
il mondo è come deve essere:
un serpente addormentato
da accarezzare, docile,
al nostro risveglio.
da LA SAGGEZZA DEGLI UBRIACHI
Ci muoviamo verso il fondo
ignari archeologi di noi stessi
rovistiamo tra i detriti
cercando i fossili della speranza
sui banchi sgangherati dei mercati
stanno in silenzio i nostri discorsi
anticaglie arrugginite
del patetico dominio dell’essere
immolati sull’altare del tempo
restano i fiori impolverati
ricordo di stelle morenti.
Vivere è trattenere rabbia e abbagli
chiudere loro il campo
che non facciano altro scempio
e andare oltre il vino versato
il bicchiere frantumato, la giacca macchiata,
la parola sbagliata, il mazzo di fiori dimenticato,
le mele lasciate marcire.
Siamo fatti della stessa materia dei nostri sbagli
distratti da una mano invisibile
che rovescia il respiro
nella torsione dell’attimo sgrammaticato
in cui precipitiamo trascinati per il collo
a una festa d’ubriachi.
Rubare i sogni delle piante?
Pensa, è solo acqua e luce quel che desiderano
senza sosta né errori fanno la spola
tra la terra e il vento.
Sembra una contorsione
ma è un volo perfetto
contro ogni disperazione.
Rubare i sogni delle piante?
È quel che mi dico la mattina
guardando nello specchio
il volto consumato
dalla notte appena abbandonata
al suo destino.
Contro l’ingarbugliarsi delle cose
vince la mente immobile
attenta a evitare trappole,
lacci, spilli e sabotaggi:
tacere è la verità della ragione
rende impermeabili allo sconnesso movimento
tiene al riparo dagli assalti del nemico
perché dentro di noi riposa
il senso dell’orientamento.
Gli occhi strizzati nel buio vedono
stelle evanescenti
perfette costellazioni di niente
nella nera calma che inonda il mondo.
Treno che sfila
lungo gli intarsi della memoria
s’infila, straccia l’aria e la sua cappa di fumo
che sfuma agita molecole colate
a folate dal cielo al niente
treno che attraversa paesaggi posati per caso
pestati nel mortaio del tempo
gettato via senza un lamento
senza neppure il dovuto scontento
rarefatta rassegnazione che tenta di trasformare
in oro per sé le ore perse per gli altri
inutilmente sedate dal pensiero
imbrigliato, impigliato, scombinato
dal perenne ritardo accumulato
eppure avevo sperato d’anticipare l’abbraccio
e mi dovrei ora disperare
perché nel paradosso delle linee destinali
persiste sotto traccia la regola
di dorsali alternative ingannatrici
e il travaglio dell’alta velocità
è pura illusione, lo dice pure il controllore
anch’egli passeggero annoiato
dal mito rinnovato del tempo guadagnato
ma il guadagno vero è in questa
chiusura stagna tra me e il mondo
gabbia di ferro e vetro d’un tempo
disteso, dilatato, rubato.
Così ritorno
sia pure in ritardo a conti fatti
ma anche un po’ più giovane
lapsus del tempo, felice vertigine
infantile fiducia in quel che mi resta
perché in fondo al viaggio
c’è l’attesa disposizione di noi
che cura la ferita
taglio da cui fiorisce, a bassa voce,
la piuma del tuo sorriso.
Ridurre il campo visivo
alla coda dell’occhio
per meglio vedere ciò che resta nascosto
allo sguardo troppo sicuro.
Non si tratta di fare miracoli
bastano vecchie scatole di latta
ritagli di giornale, piccole conchiglie
vetri di bottiglia levigati dal mare.
Non c’è fretta di ripartire
ora che il tempo è venuto qui a morire
nell’immobilità felice dello sguardo finalmente a tempo
giusto o sbagliato sono accidenti del Caso.
C’è un forte vento che sale
nella stanza a ripulire l’orizzonte
così mi giro dall’altra parte del mondo
e canto, sottovoce, canto.
In memory of Uri Grossman
Has been lost the moon
the night prior
has been lost and also the reason
of this war, one more,
on the border ever since
Phoenician cedar
on the blood never subdued
prison of Gaza
cried the infinite
the children of Israel …
and mourns his father’s death
of his son in battle
just a first step
last minute
cruel knife
buried in the folds of love
without grammar or fury
Finally lost the duel
zig zag between the bombs
the boy ran
hours thrown into the Void
of a great and wise speech
that no one would ever want to do
and mourns his father
Priam as the death of Hector
helpless and happy for Destiny
finally tamed …
but even the calm of a bright mind
can make this war
less ignominious
an unnecessary war as
futile because eternal.
There are people who survive
massacring:
wit the species
or folly of the story?
Uri, you know the real answer.
Je vous salue, Marie
Je vous salue, Marie
and hail as well to all the other ninety-eight –
soon to become one hundred –
gray silhouettes of our
daily shame
domestic slaughter of sick love
an act of possession, an abyss of horror
that senselessly crushes life.
Lost love, that never truly blossomed
along the walls of underground parking lots
of streets that are always dark
of rooms that were believed safe…
Black eyes, broken nose, loose teeth,
hair torn out, and pins, knives and sealed lips
great is the fear and also the shock
of kicks, punches and slaps, cigarettes and lighters,
chairs and tables, corners that scream and
cry, cry, cry…
The telephone rings
hands sweat and a stone
falls heavy on the heart.
Until when?
If not now, when? To say “enough,” to soar beyond
for us, too, silly futureless children,
because there is no forgiveness
for the harm that has been done, but only
the gift of oblivion and the smile of women
who have always known
that power is death and
life is elsewhere.
(Translated by G. Mc Dowell)
The wisdom of the drunk
*
To choose the position
which has the proper distance,
without showing torsion or distress
in the presence of those who serve us poisoned food
to dodge the crash and likely failure
is a refined art.
Not everyone knows how to display blindness
and become a wall, an insect, a leaf,
and turn their gaze elsewhere.
Eagerness to fight is always recurring,
the thought of crossing the threshold
under a stormy sky,
keeping up with offended dignity,
like the heroes who never give up
and spend their lives straightening
crooked pictures, constructing the time
which no one has served us yet.
*
Against the entanglement of things,
the motionless mind wins,
careful to avoid traps,
snares, pins and acts of sabotage:
silence is the truth of reason
it makes us resistant to disjointed movement
it keeps us safe from the enemy’s attacks
because the sense of direction
lies within us.
Squinting into the dark, eyes see
fading stars
perfect constellations of nothing
in the black stillness which floods the world.
*
Steal the plants’ dreams?
Just think, all they want is water and light
without pause or error they ply
between the earth and the wind.
It seems like a contortion,
but it’s a perfect flight
against all desperation.
Steal the plants’ dreams?
It’s what I tell myself every morning
as I look into the mirror
at my face which is worn out
by the night which has just been abandoned
to its fate.
*
Sometimes it is a detail
breaking free from your lips
a lopsided thought
that sets off
and forces you, doomed,
to defend your blunder.
Thus, you are in a boxing ring
eyes wide open
but inside and outside everything is dark,
pitch black.
*
We watch the others go by
from afar we imagine their lives
perhaps better, perhaps worse than ours.
In a merry-go-round of mangled glances
we assume we are units of restraint and excess,
we claim we can judge and condemn,
absolve and set free
in an imaginary theater
which consoles and does not commit us.
We are frightened at the idea of meeting our twin
who, smiling, shows us
the yellowed photograph
of what we will become.
*
We all long for a shape,
but is there a shape?
A liquid body appears and disappears,
made of colors, pitches, heights, sounds and pains,
elusive waves of the moment
break up and recompose themselves
before our astonished eyes and then slip away
between hands stretched out to no avail.
Music without sound?
without a safe seriality, just a sketch made of light
a glance of the wind which passes and caresses the plain
overturns the cards, washes over the sand castles
epigraph of timeless time.
Is this the shape?
Something we ceaselessly point at
as it goes away?
Is staying motionless in contemplation
of the constantly lost past
the right position for capturing a shape?
What shape are we, then?
The perfect wave of the sea
now and soon again dissolved?