Vittorio Sereni è nato a Luino nel 1913. È vissuto a Milano, dove si è laureato in Estetica con Banfi nel 1936. Richiamato alle armi nel 1941, fatto prigioniero nel 1943 in Sicilia, venne internato in Nord Africa (Algeria e Marocco) come prigioniero fino al luglio 1945. Ripreso l'insegnamento (1948-52) a Milano, venne poi assunto alla Pirelli, all'Ufficio stampa e propaganda, fino al 1958, passando successivamente alla direzione editoriale della casa editrice Mondadori. Le sue raccolte di versi: Frontiera (1941; ed. accr., 1942; ed. defin., 1966), Diario d'Algeria (1947, ed. accr. 1966), Gli strumenti umani (1965), Stella variabile (1979, ed. defin. 1981), Tutte le poesie (1986), Poesie (ed. critica a cura di D. Isella, 1995). Critico (Letture preliminari, 1973) e traduttore (Il musicante di Saint-Merry, 1981), ha scritto anche prose: Gli immediati dintorni (1962, ed. accr., post., 1983), L'opzione e allegati (1964, poi in Il sabato tedesco, 1980), Senza l'onore delle armi (1987); e volumi di lettere, tra cui il carteggio con Attilio Bertolucci (Una lunga amicizia. Lettere 1938-1982, 1994). È scomparso a Milano nel 1983.
Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Vittorio_Sereni
Web http://www.treccani.it/enciclopedia/vittorio-sereni/
POESIE
da "Frontiera"
Le mani
Queste
tue mani a difesa di te:
mi fanno sera sul viso.
Quando lente
le schiudi, là davanti
la città è quell'arco di fuoco.
Sul
sonno futuro
saranno persiane rigate di sole
e avrò perso per
sempre
quel sapore di terra e di vento
quando le riprenderai.
Terrazza
Improvvisa
ci coglie la sera.
Più non sai
dove il lago finisca;
un
murmure soltanto
sfiora la nostra vita
sotto una pensile
terrazza.
Siamo tutti sospesi
a un tacito evento questa
sera
entro quel raggio di torpediniera
che ci scruta poi gira
se ne va.
Anni dopo
La
splendida la delirante pioggia s'è quietata,
con le rade ci bacia
ultime stille.
Ritornati all'aperto
amore m'è accanto e
amicizia.
E quello, che fino a poco fa quasi
implorava,
dall'abbuiato portico brusìo
romba alle spalle ora,
rompe dal mio passato:
volti non mutati saranno, risaputi,
di
vecchia aria in essi oggi rappresa.
Anche i nostri, fra quelli, di
una volta?
Dunque ti prego non voltarti amore
e tu resta e
difendici amicizia.
In me il tuo ricordo
In
me il tuo ricordo è un fruscio
solo di velocipedi che
vanno
quietamente là dove l'altezza
del meriggio discende
al
più fiammante vespero
tra cancelli e case
e sospirosi
declivi
di finestre riaperte sull'estate.
Solo, di me,
distante
dura un lamento di treni,
d'anime che se ne vanno.
E
là leggera te ne vai sul vento,
ti perdi nella sera.
Dimitrios
Alla
tenda s'accosta
il piccolo nemico
Dimitrios e mi
sorprende,
d'uccello tenue strido
sul vetro del meriggio.
Non
torce la bocca pura
la grazia che chiede pane,
non si vela di
pianto
lo sguardo che fame e paura
stempera nel cielo
d'infanzia.
È già lontano,
arguto mulinello
che
s'annulla nell'afa,
Dimitrios, su lande avare
appena credibile,
appena
vivo sussulto
di me, della mia vita
esitante sul
mare.
Fissità
Da
me a quell'ombra in bilico tra fiume e mare
solo una striscia di
esistenza
in controluce dalla foce.
Quell'uomo.
Rammenda
reti, ritinteggia uno scafo.
Cose che io non so fare. Nominarle
appena.
Da me a lui nient'altro: una fissità.
Ogni eccedenza
andata altrove. O spenta.
Viaggio di andata e ritorno
Andrò
a ritroso della nostra corsa
di poco fa
che tanto bella mai ti
sorprese la luna.
Mi resta una città prossima al sonno
di
prima primavera.
O fuoco che ora tu sei
dileguante, o ceneri
confuse
di campagna che annotta e si sfa,
o strido che sgretola
l'aria
e insieme divide il mio cuore.
Appuntamento a ora insolita
La
città -mi dico- dove l'ombra
quasi più deliziosa è della
luce
come sfavilla tutta nuova al mattino...
"... asciuga
il temporale di stanotte"... ride
la mia gioia tornata
accanto a me
dopo un breve distacco.
"Asciuga al sole le
sue contraddizioni"
-torvo, già sul punto di cedere,
ribatto.
Ma la forma l'immagine il sembiante
-d'angelo avrei
detto in altri tempi-
risorto accanto a me nella vetrina:
"caro
-mi dileggia apertamente- caro,
con quella faccia di vacanza. E
pensi
alla città socialista?"
Ha vinto. E già mi
sciolgo: "Non
arriverò a vederla" le rispondo.
(Non
saremo più insieme dovrei dire).
"Ma è giusto,
fai bene
a non badarmi se dico queste cose,
se le dico per odio di
qualcuno
o rabbia per qualcosa. Ma credi all'altra
cosa che si
fa strada in me di tanto in tanto
che in sé le altre include e le
fa splendide,
rara come questa mattina di settembre...
giusto
di te fra me e me parlavo:
della gioia."
Mi prende
sottobraccio.
"Non è vero che è rara, -mi correggo- c'è,
la
si porta come una ferita
per le strade abbaglianti. È
quest'ora
di settembre in me repressa
per tutto un anno, è la volpe rubata
che il ragazzo
celava sotto i panni e il fianco gli
straziava,
un'arma che si reca con abuso, fuori
dal breve sogno
di una vacanza.
Potrei
con questa uccidere, con la sola
gioia..."
Ma dove sei, dove ti sei mai persa?
"È a
questo che penso se qualcuno
mi parla di rivoluzione"
dico
alla vetrina ritornata deserta.
Ancora sulla strada di Zenna
Perché
quelle piante turbate m'inteneriscono?
Forse perché ridicono che
il verde si rinnova
a ogni primavera, ma non rifiorisce la
gioia?
Ma non è questa volta un mio lamento
e non è
primavera, è un'estate,
l'estate dei miei anni.
Sotto i miei
occhi portata dalla corsa
la costa va formandosi immutata
da
sempre e non la muta il mio rumore
né, più fondo, quel repentino
vento che la turba
e alla prossima svolta, forse finirà.
E io
potrò per ciò che muta disperarmi
portare attorno il capo
bruciante di dolore.
Ma l'opaca trafila delle cose
che là
dietro indovino: la carrucola nel pozzo,
la spola della teleferica
nei boschi,
i minimi atti, i poveri
strumenti umani avvinti
alla catena
della necessità, la lenza
buttata a vuoto nei
secoli,
le scarse vite, che all'occhio di chi torna
e trova che
nulla, nulla è veramente mutato
si ripetono identiche,
quelle
agitate braccia che presto ricadranno,
quelle inutilmente fresche
mani
che si tendono a me e il privilegio
del moto mi
rinfacciano.
Dunque pietà per le turbate piante
evocate per
poco nella spirale del vento
che presto da me arretreranno via
via
salutando salutando.
Ed ecco già mutato il mio
rumore
s'impunta un attimo e poi si sfrena
fuori da sonni
enormi
e un altro paesaggio gira e passa.
Autostrada della Cisa
Tempo
dieci anni,
nemmeno
prima che rimuoia in me mio padre
(con malagrazia fu
calato giù
e un banco di nebbia ci divise per sempre).
Oggi
a un chilometro dal passo
una capelluta scarmigliata erinni
agita
un cencio già spento, e addio.
Sappi -disse ieri lasciandomi
qualcuno-
sappilo che non finisce qui,
di momento in momento
credici a quell’altra vita,
di costa in costa aspettala e
verrà
come di là dal valico un ritorno d’estate.
Parla
così la recidiva speranza, morde
in un’anguria la polpa
dell’estate,
vede laggiù quegli alberi perpetuare
ognuno in
sé la sua ninfa
e dietro la raggera degli echi e dei
miraggi
nella piana assetata il palpito di un lago
fare di
Mantova una Tenochititlàn
Di tunnel in tunnel di
abbagliamento in cecità
tendo una mano. Mi ritorna vuota.
Allungo
un braccio. Stringo una spalla d’aria.
Ancora non lo
sai
-sibila nel frastuono delle volte
la sibilla, quella
che
sempre più ha voglia di morire-
non lo sospetti ancora
che di
tutti i colori il più forte
il più indelebile
è il colore
del vuoto?