Roberto
ROSSI TESTA

Roberto Rossi Testa è nato nel 1956 a Torino, dove è scomparso nel 2016. In poesia ha pubblicato le raccolte: Stanze della mia Sposa (Hellas, 1988), Poca luce (Aragno Editore, 2002), Eunoè. Poesie 1988-1995 (Manni, 2005), Sposa del vento. Poesie 1984-2004 (Aragno Editore, 2007) e Poesie per un no (Aragno Editore, 2010). In prosa ha pubblicato il libro di racconti Storie di dèi e di animali (Petrini, 1995). È stato traduttore e curatore: da Tagore a Gibrân, da Ortega a Huysmans, da Ibn ‘Arabî a Blake. Fra le ultime uscite: R. de Gourmont, Latino mistico (Aragno, 2007), Ibn ‘Arabî, L’interprete delle passioni (Urra-Apogeo, 2007), H. Miller, Riflessioni sulla morte di Mishima, in Y. Mishima, La spada (ES, 2009), H. Corbin, La scienza della Bilancia (SE, 2009), P. Greenaway, Volare via dal mondo (Abscondita, 2011), H. Corbin, Realismo e simbolismo dei colori nella cosmologia shi‘ita (SE, 2012), K. Raine, Sequenza Northumbra (alla chiara fonte, 2012).

POESIE

da STANZE DELLA MIA SPOSA

Donna che sei la sorte, e che conosci
ciò che ancora non so:
sorridimi una volta,
non sospingermi sempre dove imparo
solamente a morire.
Ogni ramo si tende incontro al sole;
per me, fa’ che non tardi:
fu già irriconoscibile l’aprile,
nell’estate che volge alla sua fine
fammi almeno sentire il dolce alito,
la tua carezza, che doveva crescermi.
Lascia che viva un poco,
ormai che parto;
e poi, sul tuo cammino,
sia vera la promessa, e chiaro il giorno…
Tu sei la luce in forma di sorriso,
ti guardo, e col tuo sguardo vedo il dio
che dentro al petto canta;
anche se non mi ascolti e non mi parli,
anche se fuggi: e mi rimane un velo,
solo un velo di te,
nella mano protesa, mentre affondi.

da POCA LUCE

Adesso un altro nome è la mia impresa,
un altro vento gonfia la mia vela;
nuove stelle nel cielo, e una montagna
che emergendo dal blu mi viene incontro.
Io non sapevo allora; non credevo,
nella mia pace armata, che mai più
avrei cercato il turbine e lo schianto.
Ma niente nella vita ha fatto un salto,
tutto è fedele a sé, tutto è annodato;
ciò che è duplice e varia
è solo la parola che lo narra.
Così che fra di noi non ha importanza
chi attacca o si difende,
chi prende o a farsi prendere acconsente,
chi fermo attende e chi irrequieto danza.
Ardo della tua calma,
vibro della tua luce nera e calda.
Tu che hai freddo e che tremi àlzati e guarda.

da EUNOÈ

Dove non giunge il sole, in fondo al bosco,
e segna le stagioni
solo il variar dell’erbe,
presso una lenta fonte c’è una casa.
Una signora senza tempo l’abita,
scrutando cuori e manoscritti e stelle
guardata da due gatti
con volubili code di cometa.
Ella prepara semplici
per addolcire propri e altrui dolori,
uguale accetta quiete e mutamento,
senza speranza aspetta.
Se un cavaliere lega le sue redini
al lauro accanto all’uscio
tacita il vino versa, il pane spezza.
Un cavaliere ha solo il suo cavallo,
dentro di sé ripete; e nulla chiede.
E nulla al suo silenzio
risponde il cavaliere;
ma le prende di mano la fascina,
e attizza il fuoco; e smessa l’armatura
innanzi al fuoco senza fretta sogna.

*
Dall’intima distanza della pagina
una voce ammoniva: “Non voltarti:
bugiarda è la memoria,
ogni immagine ormai ti mentirà”.
Colpito mi richiusi, mi fermai.
Ma quando percepii una fragranza,
lo scorrere sommesso di un sorriso
e il cedere del letto a un altro corpo
che lieve lo premeva,
io non volli non credere alla vita:
e mi volsi, e la vidi, oltre la stanza:
scendeva in panni grezzi, in scialli grigi,
conduceva dai colli verso il mare
un gregge mormorante;
e come in una danza, nuda e chiara,
con solo il nero di capelli ed occhi,
saliva a un’acqua diaccia, usciva all’aria
tesa sull’invisibile confine,
incerta se accostarsi o rifuggire.
E subito lei fu presso di me,
stagliata contro il blu fondo del cielo:
vibrante d’ansia e pronta nell’offrirmi
l’ansa dei fianchi e delle labbra schiuse,
e la dura sostanza dei suoi grani,
e il dolce della polpa più matura.
“Siamo da sempre abissi che si chiamano”
piano mi disse. Ed io
entrando in lei intesi un lungo flutto
che si frangeva contro la mia roccia;
e un frullo d’ala, soffocato e secco;
e il tuffo di una selce, o di ossidiana,
o di un becco stillante nel mio petto.

da SPOSA DEL VENTO

È morta prima d’essere
la storia che avrei scritto.
Sbircio l’ultima pagina:
bianca, ma in controluce
ha già solchi tracciati,
e la penna mi cade.
Stesi le mani a un fuoco
che fa battere i denti;
meglio allora l’aperto,
scaldarsi nella corsa,
gridando “Ancora grazie”
correre ciecamente
all’abbraccio del vuoto.

da POESIE PER UN NO

Sulla riva del mare
due bimbi e una bambina
giocano sulla sabbia,
fabbricano castelli
insidiati dall’onda.
Pare loro d’avere
tutto il tempo che serve,
e davanti al tramonto
non dimostrano fretta:
la bambina s’incanta
sulle formine a forma
di cometa e farfalla,
mentre i suoi due compagni
s’incantano di lei.
È vero che il più grande
lascia ogni poco il gioco
se passano bambini
di cui prende il secchiello,
di cui lecca il gelato;
ma vedendo il più piccolo
che abbraccia la bambina
e le mette collane
di perline e di ghiande
ritorna verso i due,
gettandosi a dividerli.
Un ben strano spettacolo
che va avanti da tanto,
tanto che di bambini
forse han solo l’aspetto,
quello dato dai tre.
Un ben strano spettacolo,
ed ancora più strano
se si osserva che il piccolo,
ormai quasi nell’ombra,
nell’aria che raffredda,
col dito in terra traccia
segni che l’onda subito
rotolando cancella;
ma che le sue manine
non son sporche di terra,
bensì lorde d’inchiostro.

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