Giovanni Raboni è nato a Milano nel 1932 ed è morto nel 2004 a Parma in seguito ad un attacco cardiaco. Prima di dedicarsi alla letteratura, ha studiato legge ed esercitato la professione di avvocato. La sua carriera di poeta inizia nel 1961 con Il catalogo è questo, presentato da un'introduzione di Carlo Betocchi. Le successive opere di poesia sono: Le case della Vetra (1966), Cadenza d'inganno (1975), II più freddo anno di grazia (1978), Nel grave sogno (1982), Canzonette mortali (1987), A tanto caro sangue: Poesie 1953-1987 (1988), Transeuropa (1988), Versi guerrieri e amorosi (1990), Ogni terzo pensiero (1993), Devozioni perverse (1994), Quare tristis (1998), Rappresentazione della croce (2000), Tutte le poesie (1951-1998) (2000), Barlumi di storia (2002), Ultimi versi (pref. di P. Valduga, 2006). Raboni è stato anche critico teatrale per 'Il Corriere della Sera'. Per il palcoscenico ha scritto anche vari testi, l'ultimo dei quali, "Alcesti o la recita dell'esilio". Notevole anche la sua attività di traduttore di testi importanti come i "Fiori del male" di Baudelaire e di tutta la "Recherche" di Proust.
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POESIE
Da: Le case della Vetra
Contestazione
Una, improvvisamente
s'alza dal letto dicendo
"questo non si può fare", E s'agita, tira fuori
roba dai cassetti nello spazio impiccato
tra comò e attaccapanni, a momenti
fa cadere la lampada, il catino - e
fiera nelle sue scarpe davanti allo specchio
dove affiora la nebbia, ogni
tanto toccandoli col palmo della mano infone
il fissatore-insetticida sui capelli.
Solo qualche parola,
solo una notizia sul rovescio del conto
sbagliato dal padrone.
Forse è tardi, può darsi che la ruota
giri troppo in fretta perché resti qualcosa:
occhi squartati, teste di cavallo,
bei tempi di Guernica.
Qui i frantumi diventano poltiglia.
E anch'io che ti scrivo
da questo luogo non trasfigurato
non ho frasi da dirti, non ho
voce per questa fede che mi resta,
per i fiaschi simmetrici, le sedie
di paglia ortogonali,
non ho più vista o certezza, è come
se di colpo mi fosse scivolata
la penna dalla mano
e scrivessi col gomito o col naso.
Città dall'alto
Queste strade che salgono alle mura
non hanno orizzonte, vedi: urtano un cielo
bianco e netto, senz'alberi, come un fiume che volta.
dei signori e dei cani.
Da qui alle processioni che recano guinzagli, stendardi
reggendosi la coda
ci saranno novanta passi, cento, non di più: però più giù,
nel fondo della città
divisa in quadrati (puoi contarli) e dolce
come un catino... e poco più avanti
la cattedrale, di cinque ordini sovrapposti: e
proseguendo a destra, in diagonale, per altri
trenta o quaranta passi - una spanna: continua a leggere
come in una mappa - imbocchi in pieno l'asse della piazza
costruita sulle rocciose fondamenta del circo romano
grigia ellisse quieta dove
dormono o si trascinano enormi, obesi, ingrassati
come capponi, rimpinzati a volontà
di carni e borgogna purché non escano dalla piazza! i poveri
della città. A metà tra i due fuochi
lì, tra quattrocento anni
impiantano la ghigliottina.
Silenzio.
Udite. Io annuncio la sua morte
perchè sono di fronte a voi
l'autore
della sua venuta e dei suoi giorni
disastrosi. Oh
fossi morto prima,
nel deserto, come muoiono i cammelli
che si
fidano troppo del proprio gozzo! Io così
della mia memoria, della
memoria
che Dio mi concede sulle cose future.
Io non volevo
ucciderlo
ma la mia fede si è tramutata in pietra o
coltello,
[
il mio battesimo
in violento scorpione. Mi perdoni
se troppo
poco ho peccato! Io fiorisco di colpa
come la Vergine è fiorita
in lui
nel grembo involontario.
da Cadenze d'inganno
Come cieco, con ansia
Come cieco, con ansia, contro
il temporale e la grandine, una
dopo l'altra chiudevo
sette finestre.
Importava che non sapessi quali.
Solo all'alba, tremando,
con l'orrenda minuzia di chi si sveglia o muore,
capisco che ho strisciato
dentro il solito buio,
via san Gregorio primo piano.
Al di qua dei miei figli,
di poter dare o prendere parola.
Vivo, stando in campagna, la mia morte
Vivo, stando in campagna, la mia morte.
Appeso a trespoli, aiole,
alle radici del glicine, ai raggi della ruota,
aspetto (il barattolo del nescafè
a portata di mano, l'acciarino
fra le dita del piede)
che l'arcangelo Calabresi scenda a giudicarmi.
da Altri Sonetti
Non di questo presente ora bisogna
Non
di questo presente ora bisogna
vivere - ma in esso sì: non c'è
modo,
pare, d'averne un altro, non c'è chiodo
che scacci
questo chiodo. Nè a chi sogna
va meglio, che le più volte si
infogna
a figuararlo, e fa più groppi al nodo
se cerca di
disfarlo (sta nel todo
che si crede nel nada, sempre) o
agogna,
ma con che lama? troncarlo. La mente
infortunata
non ha altra fortuna,
dunque, che nel pensiero? Certo a
niente
più la mia si consola che se in una
deposizione o
un offertorio gente
dispersa solennemente s'aduna.
da Altri Sonetti
Non sospendi un terremoto, non fermi
Non
sospendi un terremoto, non fermi
la deriva dei continenti; e
uguale
successo avrà chi soffre il capitale
e per avversare i
suoi non eterni
nè imperscrutabili disegni sale
fiducioso
su navicelle inermi
contro le sue corazzate, o in
interni
sabotaggi s'avventura. Eh! a che vale,
colombelle
mie? Tanto durerà
quanto deve, non un giorno di meno,
a nostro
cupo scorno - ma nemmeno
uno di più. La festa si farà
senza
di noi, poveri untori senza
pestilenza, solchi senza semenza.
Che
in tutto fra tutte suprema sia
la legge del mercato, che a lei
deva
subordinarsi restando utopia
per sempre tutto quello che
solleva
l'uomo da se stesso sembra alla mia
mente quasi
incredibile. Ma alleva
menti per crederci l'economia
trionfante,
fa che ciascuna s'imbeva
di quel credo miserabile e creda
a
esso fieramente come al più santo
vangelo; e non ha scampo chi
rimpianto
dell'altro s'ostina finchè non ceda
di schianto
il cuore a provare e di noia
trema dove per altri è ottusa gioia.
da Canzonette mortali
Io
che ho sempre adorato le spoglie del futuro
e solo del futuro, di
nient'altro
ho qualche volta nostalgia
ricordo adesso con
spavento
quando alle mie carezze smetterai di bagnarti,
quando
dal mio piacere
sarai divisa e forse per bellezza
d'essere
tanto amata o per dolcezza
d'avermi amato
farai finta lo stesso
di godere.
Le
volte che è con furia
che nel tuo ventre cerco la mia gioia
è
perché, amore, so che più di tanto
non avrà tempo il tempo
di
scorrere equamente per noi due
e che solo in un sogno o dalla
corsa
del tempo buttandomi giù prima
posso fare che un giorno
tu non voglia
da un altro amore credere l'amore.
Un
giorno o l'altro ti lascio, un giorno
dopo l'altro ti lascio,
anima mia.
Per gelosia di vecchio, per paura
di perderti – o
perché
avrò smesso di vivere, soltanto.
Però sto fermo,
intanto,
come sta fermo un ramo
su cui sta fermo un passero,
m'incanto…
Non
questa volta, non ancora.
Quando ci scivoliamo dalle braccia
è
solo per cercare un altro abbraccio,
quello del sonno, della calma
– e c'è
come fosse per sempre
da pensare al riposo della
spalla,
da aver riguardo per I tuoi capelli.
Meglio
che tu non sappia
con che preghiere m'addormento, quali
parole
borbottando
nel quarto muto della gola
per non farmi squartare
un'altra volta
dall'avido sonno indovino.
Il
cuore che non dorme
dice al cuore che dorme: Abbi paura.
Ma io
non sono il mio cuore, non ascolto
né do la sorte, so bene che
mancarti,
non perderti, era l'ultima sventura.
Ti
muovi nel sonno. Non girarti,
non vedermi vicino e senza
luce!
Occhio per occhio, parola per parola,
sto ripassando la
parte della vita.
Penso
se avrò il coraggio
di tacere, sorridere, guardarti
che mi
guardi morire.
Solo
questo domando: esserti sempre,
per quanto tu mi sei cara,
leggero.
Ti giri nel sonno, in un sogno, a poca luce.
(dedicate a Patrizia Valduga)