Nazario
PARDINI
Nazario Pardini è nato nel 1937 ad Arena Metato in provincia di Pisa, città dove vive alternandola a Torre del Lago Puccini. Ha pubblicato: Foglie di campo. Aghi di pino. Scaglie di mare (Firenze Libri, 1993), Le voci della sera (Firenze Libri, 1995), Il fatto di esistere (Lineacultura, 1996), La vita scampata (Il Portone/Letteraria, 1996), L’ultimo respiro dei gerani (Lineacultura, 1997), La cenere calda dei falò (Il Portone/Letteraria, 1997), Elegia per Lidia (Premio editoriale Il Golfo), Suoni di luci ed ombre (Il Portone/Letteraria, 1998), Gli spazi ristretti del soggiorno (Editoriale Le stelle, 1998), Paesi da sempre (Chegai Editore, 1999), Alla volta di Lèucade (Baroni Editore, 1999), Radici (Laterza, 2000), Si aggirava nei boschi una fanciulla (ETS, 2000), D’Autunno (ETS, 2001), Le simulazioni dell’azzurro (ETS, 2002), Poesie di un anno (Carello, 2002), Dal lago al fiume (ETS, 2005), Canti d’amore (Booksprint, 2010), Racconti brevi (Booksprint, 2010), L’azzardo dei confini (Booksprint, 2011), Scampoli serali di un venditore di arazzi (The Writer, 2012), Dicotomie (The Writer, 2013), A colloquio con il mare e con la vita (Confronto, 2012), I simboli del mito (Premio Il Croco, I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2013), Lettura di testi di autori contemporanei (The Writer, 2014), I canti dell’assenza (The Writer, 2015), Letture critiche dei miei testi (The Writer, 2016), Cantici (The Writer, 2017), Di mare e di vita (Macabor, 2017), Cronaca di un soggiorno (The Writer, 2018), Lettura di testi di autori contemporanei 3 (The Writer, 2019). È inserito in numerose antologie e storie della letteratura e hanno scritto di lui numerosi critici. Ricapitolativo il saggio critico di Floriano Romboli L’azzardo e l’amore. La ricerca poetica di Nazario Pardini (The Writer, 2018). È fondatore, curatore, e animatore di “Alla volta di Lèucade”, blog culturale.
http://nazariopardini.blogspot.com/
http://nazariopardini.blogspot.com/p/note-bio-bibliografiche.html
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POESIE
da I DINTORNI DELLA SOLITUDINE
La piena del Serchio
Piove a dirotto stamani, ed il Serchio
gonfia il suo letto; è già nelle golene,
tra gli alberi che invocano l’aiuto
frusciando melanconici richiami
col loro ciuffo sopra la corrente;
niente risparmia l’acqua inferocita,
tutto porta con sé, alla deriva.
Qui dall’argine l’occhio si spaventa
a mirare la potenza che sprigiona:
le barche sradicate dai pontili
corrono in grembo al grosso defluire,
e ciottoli, tronchi, tavole, e ferraglie
si rincorrono in gara verso il mare.
Mi sposto, e vado svelto a miscelarmi
alla furia spaventosa della foce.
Tira tramontana, se Dio vuole,
fosse libeccio chissà che inondazione.
Qui le melme del fiume si accavallano
con l’onde spaventate
che sembrano opporsi a tanta furia.
Odori di salmastro e d’acqua smossa,
di erbe trascinate contro voglia,
mi invadono narici. E mi confondo
con tutto quel fracasso naturale:
divento un ramoscello in mezzo al mare.
La solitudine del mare
Sono solo e l’inverno mi percuote
coi suoi venti freddi e burrascosi.
Innalzo le onde fino al sommo cielo
e le porto alla strada per sbirciare
gli addobbi di Natale. Ogni tanto
mi vengono a trovare dei ragazzi
innamorati: seduti sul pattino,
allungano lo sguardo, incatenati,
tra un bacio e l’altro, fino all’orizzonte.
Mi fanno compagnia. La solitudine
mi fa pensare al mondo, al mio vagare,
mi fa pensare ai giorni dell’estate,
ai tanti corpi immersi dentro me,
alle grazie di giovani fanciulle
che mi lisciavano il corpo. Ora ricordo;
vivo nel rievocare quei momenti,
mi sento triste se mi torna in mente
il pianto di una madre e il suo inveire
contro la risacca, e la corrente,
che portarono via un figlio in fiore,
sperso nei miei fondali. Ma a pensarci
sono tanti i mortali sprofondati
nelle mie cavità. Ora son solo;
alzo le braccia al cielo e mi imburrasco
per la forza di un vento che d’inverno
mi assale con frustate. Se m’incontri
di questi tempi ombrosi e nuvolosi,
quando il respiro mio si fa più denso,
mi vedi in piena angoscia. Tiro fuori
tronchi, detriti, ciocchi e tavoloni,
spurgo ogni cosa che mi porta il fiume,
e riempio la spiaggia di vestigia;
si fanno le mie acque intorbidite;
trovo la pace solo se la luna
frantuma le sue chiome in tante scaglie.
Allora mi riposo. Puoi vedermi
quando arancio le guance e tingo il cielo
degli amplessi fecondi che dal dentro
fuoriescono per visualizzare
l’inquieto stare chiuso dagli scogli
senza poter sfuggire oltre le sponde.
Senza poter capire, e mi tormento,
quello che fuori esiste; e che mi è ignoto.
E venne sera
La luce crepitante dell’estate
invadeva la piana, delle reste
il giallo profumato d’erba stanca.
Sortivano i rumori dalle scaglie
di sterpaglie corrose. Sui prunai
galleggiavano i profumi già disposti
a cedersi alla terra. Anche la vista
toccava infastidita quelle gregne
che pregavano il sole
di cadere più presto oltre le siepi.
C’era bisogno di umido, di guazza.
E venne sera.
Matera
E si mostrò d’un tratto
a me davanti come un formicaio
la bellezza dolente di Matera.
Un gigante sconfitto prono a terra
a sbirciare con sguardi semichiusi
la fossa erosa dal canto delle piogge.
E intorno gli occhi aperti della sera
ad accendersi in lumi di un presepe
poggiato sulle Murge materane.
Capii gli intrighi annosi degli umani,
l’adorazione mista del Creato
nelle chiese rupestri incastonate.
Capii quanto sfavilli nel selvaggio
panorama sconnesso dei dintorni
la parte divina che dell’uomo
fa mistero celeste fra i mortali.
E ti lasciai, pensoso, terra di greche sponde,
di àncore sommerse, di sibariti lussi,
di lucani pastori, di trabucchi.
Meraviglia che tengo dentro me
come tu fossi mia. Oh Matera,
un melanconico richiamo di te,
che alla storia sai stringere la mano,
mi prende e mi cattura. E rivivo,
ora che gli anni hanno reso fino
il dolente riposo dei tuoi sassi,
la solitudine ardita del tuo manto.
Scoprimmo
Scoprimmo il cielo, il mare ed il sorriso.
Dicemmo al vento: “Corri a perdifiato,
non ti arrestare, corri a spettinare
le chiome delle giovani fanciulle
che giocano col tempo. Portati addosso
messaggi di speranza per coloro
che vivono la notte; che non hanno
l’estate della vita. Corri, corri,
vento selvaggio, corri a perdifiato
fino a incontrare il volto di colei
che chiese al tempo di volgersi in camelia.
Sii leggero, portale il colore
del sangue dei papaveri confuso
fra l’oro delle spighe; le impronte
dei suoi candidi piedi
sul guado dei rubini.
Portale il tatto di una stanca mano,
portale il fiore che hai strappato al ciglio
in quella primavera. Vorrei tanto
essere a te daccanto per sfiorarle
le gote col respiro; vorrei tanto
sulla tua groppa correre lontano,
alla fine del mondo e stringere la mano
a quello che mi è ignoto;
a colei che diffuse
banchi di solitudine
su questo stretto piano.
Parole non dette
Quanti di noi non hanno fatto a tempo
a dire al padre, alla madre o al fratello
frasi rimaste dentro, non uscite:
“Ti voglio bene, scusami, perdono….
Andiamo insieme oggi a passeggiare.
Quella via che un giorno ci portò
alle mura di una casa stretta
è sempre là che aspetta il nostro sguardo.
Andiamo, andiamo, padre, ne ho bisogno…”.
Torneranno improvvise quelle frasi
prima che il sonno giunga; e come un’eco
rimbomberanno da una stanza all’altra,
per non darti riposo: proveranno
a ritrovare il volto di chi c’era
per giungere alla fine nell’alcova.
Costruiranno scale per toccare
sguardi rimasti in ansia ad aspettare
parole non finite, scolorite
che girano ancora in mezzo alle intemperie
senza trovare il posto; senza posa.
E noi gridiamo al vuoto il nostro male,
lo spleenetico ingombro che ci assale.
È inutile gridare! O sperare
nei sogni per poterci riprovare.
Facciamolo da vivi, quando loro
ti guardano con ansia nell’attesa
di un qualcosa che tu e solo tu
potrai donare. Tornassero in vita
quei padri, quelle madri o quei fratelli
che cosa pagheresti! O non faresti
per poterti liberare del fagotto
che non ti fa dormire.
“Volesse il cielo che…”, se l’hai presenti
fissali intensamente, dagli il cuore,
parlagli di tutto; non lasciare
che quelle tre parole non uscite
restino senza tempo, a navigare
perdutamente in mezzo a un grande mare
sperdute, spaesate, sbatacchiate
dai venti e dai salmastri; e impaurite
senza mittente senza compagnia
tornino a casa stanche a farti male.
Fra quelle mio fratello
In alto i fiori dell’acacia,
fra l’erba un gatto in agguato,
Giuliana e sua sorella nel cortile,
e i passeri a rincorrersi per strada.
I cigli si rivestono di fiori,
il grano un manto verde
al cielo che si mischia fra le case.
Transitano da là persone morte,
con volti evanescenti,
fra quelle mio fratello
che mi chiede se oggi è primavera.
“Sì, è proprio primavera oggi,
se passi dal viottolo daccanto
lo vedi dal giallo delle rape,
dalle viole che sbucano pazienti,
dal dente del tarassaco,
dall’inquieto vagare degli uccelli.
Ma perché mi torni sempre accanto?
perché mi passi sempre da vicino
su questa stradetta di campagna?
Lo sai che soffro, lo sai che io sto male,
nel rivederti lì, senza poterti amare,
caro fratello mio”.
Sul tetto le colombe, le tortore che tubano,
all’orizzonte un fumo
non so se nebbia o fuoco di fascine.
Palmiro pota i tralci,
una donna stende i panni,
e dormono i papaveri nel seme.
Sopra il vettino
riposa un merlo canterino.
Non chiedermi
Non domandarmi cose a cui è impossibile
poter dare risposte; non ce n’è.
Che cade il sole oltre le colline,
che l’alba affaccia la sua veste
di fanciulla novizia, o che la luna
gironzola nel cielo per gli amanti,
è cosa certa. Ne conosci le leggi.
Ma non chiedermi del mare e dei confini,
non chiedermi il perché noi siamo nati,
né perché questa morte ineluttabile
ci attenda fra le braccia. Io non so
che cosa vive in noi, quel mistero
che ci tiene nel pugno senza darci
motivo di speranza. Non chiedermi i perché
di questa vita tanto imperscrutabile,
di un cammino ridotto a brevi spazi,
di un sentimento che ci rende tristi,
di una solitudine che lega
il nostro magro essere all’esistere.
Non chiedermi perché davanti al mare
si soffre della nostra imperfezione,
di una indecifrata libertà
a cui invano aspiriamo, inappagati,
di non poter vedere fino in fondo
quell’isola lontana ed il suo approdo.
Ti posso dire solo delle cose
che mi sono vicine e che hanno un corpo,
ma non dei grandi spazi e dei tormenti
che provo innanzi a notti senza fine.
Nemmeno il gran segreto dell’amore
ti potrei svelare; all’improvviso
si impossessò di me; mi rese schiavo,
mi tramutò l’immagine di un volto
in qualcosa di eccelso, sovrumano;
il reale non ebbe più la forza
di farmi ragionare. Tutto fu
esageratamente trasformato.
Ti posso solo dire dell’inquieto
mio essere. Del suo bramare invano;
del suo microscopico restare
davanti a un mondo che non ha ragione
di essere tanto immenso e così estraneo
al pensiero di un uomo troppo umano.
FRANCESE
da I CANTI DELL’ASSENZA
Comme les remords
Comme les remords elle arrive à l’heure
et t’enferme
la nuit.
Même si elle t’amène un rêve
le reprend
avant que l’aube ne se lève.
Que de ville
Que de ville,
que de béton!
Désespéré le rossignol
d’un crochet en fer
au sommet du toit
envoie son chant élevé.
La lune aussi
La lune aussi
avec son humble rayon
sait faire de l’ombre.
Non seulement, elle s’agrandit aussi
celle de la chouette
sur le sommet découvert
arrosé de brume.
Regarde au fond du bois
Regarde au fond du bois,
mon amour,
les arbres vibrent
autant que ma chair,
son âme est sombre
autant que mon esprit,
l’allée des feuilles jaunes
disparaît dans la brume
autant que le mystère
qui m’enveloppe.
Tout moisit.
Il n’y a qu’un rayon de soleil
qui troue les frondes,
un rayon d’espoir pour le bois
autant que ta vue pour moi.
Je suis revenu à la campagne
Je suis revenu à la campagne
qui est tachée des couleurs de Manet
tout autour des figures de champagne
diaphanes, de lumière parsemées.
Je t’ai vue étendue sur le pré
et vétue aux couleurs du printemps
entourée de ton air d’adieu
qui mon rêve a bâti dans le temps.
Quelle était triste
Quelle était triste la couleur de la mer
réfléchissant les notes de ses melodies
sur les parois suspendues des cimetières.
Les ailes des oiseaux sont tachées de coucher,
c’est peut être le soleil qui tuant le midi
annonce que la mort désormais va arriver.
Tu nages, mon âme, sous les sombres images
écoutant les chansons sur les pins
qui gardent leurs ombres étendues sur la plage.
J’attends le soir dans le verre de mon vin
le mystère sur la rue d’une prochaine nuit,
le silence qui enveloppe le bruit de l’esprit.