Eugenio Montale è nato a Genova nel 1896. Dopo aver seguito studi tecnici, si è dedicato per alcuni anni allo studio del canto. Chiamato alle armi, ha preso parte alla prima guerra mondiale come sottotenente di fanteria. Legato ai circoli intellettuali genovesi, dal 1920 ha avuto rapporti anche con l'ambiente torinese, collaborando al Baretti di Gobetti. Trasferitosi a Firenze (1927), dove ha frequentato il caffè delle Giubbe Rosse vicino agli intellettuali di Solaria, dal 1929 è stato direttore del Gabinetto scientifico-letterario Vieusseux, rimosso nel 1938 perché non iscritto al partito fascista (nel 1925 aveva aderito al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce). Ha svolto un'attività di traduttore, soprattutto dall'inglese (da ricordare il suo contributo all'antologia Americana di E. Vittorini, 1942; le traduzioni sono in Quaderno di traduzioni, 1948, ed. accr. 1975, con versioni poetiche da Shakespeare, Hopkins, Joyce, Eliot, ecc.). Iscritto per breve tempo al Partito d'azione, ha collaborato con Bonsanti alla fondazione del quindicinale Il Mondo di Firenze (1945-46). Nel 1948 si è trasferito a Milano come redattore del Corriere della sera, occupandosi specialmente di critica letteraria e di quella musicale sul Corriere d'informazione. Importanti riconoscimenti gli giunsero con la nomina a senatore a vita (1967) e il premio Nobel per la letteratura (1975). Ha pubblicato: Ossi di seppia (1925; ed. defin. 1931), Occasioni (1939, il cui primo nucleo è costituito da La casa dei doganieri e altri versi, 1932); La bufera e altro (1956, che include anche i versi di Finisterre, 1943), Satura (1971, in cui confluiscono anche, con altre successive, le liriche del volumetto Xenia del 1966, scritte per la morte della moglie Drusilla Tanzi); Diario del '71 e del '72 (1973), Quaderno di quattro anni (1977); Altri versi (1981); le due parti di Diario postumo (1991 e 1996). Alla sua lunga attività pubblicistica e giornalistica si devono i libri: i "bozzetti, elzevirini, culs-de-lampe" riuniti sotto il titolo Farfalla di Dinard (1956; edd. accr. 1960 e 1969), le prose di viaggio Fuori di casa (1969), le prose saggistiche di Auto da fé (1966) e di Nel nostro tempo (1972), quelle riunite in Sulla poesia (1976), il volume Sulla prosa (1982), le note del Quaderno genovese (1983). Come critico musicale ha pubblicato Prime alla Scala (1981). È morto a Milano nel 1981.
Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Eugenio_Montale
Web http://www.treccani.it/enciclopedia/eugenio-montale/
POESIE
Meriggiare pallido e assorto
Meriggiare
pallido e assorto
presso un rovente muro d'orto,
ascoltare tra
i pruni e gli sterpi
schiocchi di merli, frusci di serpi.
Nelle
crepe del suolo o su la veccia
spiar le file di rosse
formiche
ch'ora si rompono ed ora s'intrecciano
a sommo di
minuscole biche.
Osservare tra frondi il palpitare
lontano
di scaglie di mare
mentre si levano tremuli scricchi
di cicale
dai calvi picchi.
E andando nel sole che abbaglia
sentire
con triste meraviglia
com'è tutta la vita e il suo travaglio
in
questo seguitare una muraglia
che ha in cima cocci aguzzi di
bottiglia.
Non chiederci la parola
Non
chiederci la parola che squadri da ogni lato
l'animo nostro
informe, e a lettere di fuoco
lo dichiari e risplenda come un
croco
perduto in mezzo a un polveroso prato.
Ah l'uomo che
se ne va sicuro,
agli altri ed a se stesso amico,
e l'ombra sua
non cura che la canicola
stampa sopra uno scalcinato muro!
Non
domandarci la formula che mondi possa aprirti,
sì qualche storta
sillaba e secca come un ramo.
Codesto solo oggi possiamo
dirti,
ciò che non siamo, ciò che non vogliamo.
La casa dei doganieri
Tu
non ricordi la casa dei doganieri
sul rialzo a strapiombo sulla
scogliera:
desolata t'attende dalla sera
in cui v'entrò lo
sciame dei tuoi pensieri
e vi sostò irrequieto.
Libeccio
sferza da anni le vecchie mura
e il suono del tuo riso non è più
lieto:
la bussola va impazzita all'avventura
e il calcolo dei
dadi più non torna.
Tu non ricordi; altro tempo frastorna
la
tua memoria; un filo s'addipana.
Ne tengo ancora un capo; ma
s'allontana
la casa e in cima al tetto la banderuola
affumicata
gira senza pietà.
Ne tengo un capo; ma tu resti sola
né qui
respiri nell'oscurità.
Oh l'orizzonte in fuga, dove
s'accende
rara la luce della petroliera!
Il varco è qui?
(ripullula il frangente
ancora sulla balza che scoscende... ).
Tu
non ricordi la casa di questa
mia sera. Ed io non so chi va e chi
resta.
Arsenio
I
turbini sollevano la polvere
sui tetti, a mulinelli, e sugli
spiazzi
deserti, ove i cavalli incappucciati
annusano la terra,
fermi innanzi
ai vetri luccicanti degli alberghi.
Sul corso, in
faccia al mare, tu discendi
in questo giorno
or piovorno ora
acceso, in cui par scatti
a sconvolgerne l'ore
uguali, strette
in trama, un ritornello
di castagnette.
È il segno d'un'altra
orbita: tu seguilo.
Discendi all'orizzonte che sovrasta
una
tromba di piombo, alta sui gorghi,
più d'essi vagabonda: salso
nembo
vorticante, soffiato dal ribelle
elemento alle nubi; fa
che il passo
su la ghiaia ti scricchioli e t'inciampi
il
viluppo dell'alghe: quell'istante
è forse, molto atteso, che ti
scampi
dal finire il tuo viaggio, anello d'una
catena, immoto
andare, oh troppo noto
delirio, Arsenio, d'immobilità...
Ascolta
tra i palmizi il getto tremulo
dei violini, spento quando
rotola
il tuono con un fremer di lamiera
percossa; la tempesta
è dolce quando
sgorga bianca la stella di Canicola
nel cielo
azzurro e lunge par la sera
ch'è prossima: se il fulmine la
incide
dirama come un albero prezioso
entro la luce che
s'arrossa: e il timpano
degli tzigani è il rombo
silenzioso
Discendi in mezzo al buio che precipita
e muta il
mezzogiorno in una notte
di globi accesi, dondolanti a riva, -
e
fuori, dove un'ombra sola tiene
mare e cielo, dai gozzi sparsi
palpita
l'acetilene -
finché goccia trepido
il cielo, fuma
il suolo che t'abbevera,
tutto d'accanto ti sciaborda, sbattono
le
tende molli, un fruscio immenso rade
la terra, giù s'afflosciano
stridendo
le lanterne di carta sulle strade.
Così sperso tra i
vimini e le stuoie
grondanti, giunco tu che le radici
con sé
trascina, viscide, non mai
svelte, tremi di vita e ti protendi
a
un vuoto risonante di lamenti
soffocati, la tesa ti
ringhiotte
dell'onda antica che ti volge; e ancora
tutto che ti
riprende, strada portico
mura specchi ti figge in una
sola
ghiacciata moltitudine di morti,
e se un gesto ti sfiora,
una parola
ti cade accanto, quello è forse, Arsenio,
nell'ora
che si scioglie, il cenno d'una
vita strozzata per te sorta, e il
vento
la porta con la cenere degli astri.
L'anguilla
L'anguilla,
la sirena
dei mari freddi che lascia il Baltico
per giungere ai
nostri mari,
ai nostri estuari, ai fiumi
che risale in
profondo, sotto la piena avversa,
di ramo in ramo e poi
di
capello in capello, assottigliati,
sempre piú addentro, sempre
piú nel cuore
del macigno, filtrando
tra gorielli di melma
finché un giorno
una luce scoccata dai castagni
ne accende il
guizzo in pozze d'acquamorta,
nei fossi che declinano
dai balzi
d'Appennino alla Romagna;
l'anguilla, torcia, frusta,
freccia
d'amore in terra
che solo i nostri botri o i disseccati
ruscelli
pirenaici riconducono
a paradisi di fecondazione;
l'anima verde
che cerca
vita là dove solo
morde l'arsura e la
desolazione,
la scintilla che dice
tutto comincia quando tutto
pare
incarbonirsi, bronco seppellito:
l'iride breve, gemella
di
quella che incastonano i tuoi cigli
e fai brillare intatta in
mezzo ai figli
dell'uomo, immersi nel tuo fango, puoi tu
non
crederla sorella?
In limine
Godi
se il vento ch'entra nel pomario
vi rimena l'ondata della
vita:
qui dove affonda un morto
viluppo di memorie,
orto non
era, ma reliquario.
Il frullo che tu senti non è un volo,
ma
il commuoversi dell'eterno grembo;
vedi che si trasforma questo
lembo
di terra solitario in un crogiuolo.
Un rovello è di
qua dall'erto muro.
Se procedi t'imbatti
tu forse nel fantasma
che ti salva:
si compongono qui le storie, gli atti
scancellati
pel giuoco del futuro.
Cerca una maglia rotta nella rete
che
ci stringe, tu balza fuori, fuggi!
Va, per te l'ho pregato, - ora
la sete
mi sarà lieve, meno acre la ruggine...
La Bufera
La
bufera che sgronda sulle foglie
dure della magnolia i lunghi
tuoni
marzolini e la grandine,
(i suoni di cristallo nel tuo
nido
notturno ti sorprendono, dell'oro
che s'è spento sui
mogani, sul taglio
dei libri rilegati, brucia ancora
una grana
di zucchero nel guscio
delle tue palpebre)
il lampo che
candisce
alberi e muro e li sorprende in quella
eternità
d'istante - marmo manna
e distruzione - ch'entro te scolpita
porti
per tua condanna e che ti lega
più che l'amore a me, strana
sorella, -
e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere
dei
tamburelli sulla fossa fuia,
lo scalpicciare del fandango, e
sopra
qualche gesto che annaspa...
Come quando
ti rivolgesti
e con la mano, sgombra
la fronte dalla nube dei capelli,
mi
salutasti - per entrar nel buio.
Il balcone
Pareva
facile giuoco
mutare in nulla lo spazio
che m'era aperto, in un
tedio
malcerto il certo tuo fuoco.
Ora a quel vuoto ho
congiunto
ogni mio tardo motivo,
sull'arduo nulla si
spunta
l'ansia di attenderti vivo.
La vita che dà
barlumi
è quella che sola tu scorgi.
A lei ti sporgi da
questa
finestra che non s'illumina.
Xenia I
Avevamo
studiato per l'aldilà
un fischio, un segno di riconoscimento.
Mi
provo a modularlo nella speranza
che tutti siamo già morti senza
saperlo.
Non ho mai capito se io fossi
il tuo cane fedele e
incimurrito
o tu lo fossi per me.
Per gli altri no, eri un
insetto miope
smarrito nel blabla
dell'alta società. Erano
ingenui
quei furbi e non sapevano
di essere loro il tuo
zimbello:
di esser visti anche al buio e smascherati
da un tuo
senso infallibile, dal tuo
radar di pipistrello.
Xenia
Dicono
che la mia
sia una poesia d'inappartenenza.
Ma s'era tua era di
qualcuno:
di te che non sei più forma, ma essenza.
Dicono che
la poesia al suo culmine
magnifica il Tutto in fuga,
negano che
la testuggine
sia più veloce del fulmine.
Tu sola sapevi che
il moto
non è diverso dalla stasi,
che il vuoto è il pieno e
il sereno
è la più diffusa delle nubi.
Così meglio intendo
il tuo lungo viaggio
imprigionata tra le bende e i gessi.
Eppure
non mi dà riposo
sapere che in uno o in due
noi siamo una sola cosa.
Ho sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
Ho
sceso, dandoti il braccio, almeno milioni di scale
e ora che non
ci sei è il vuoto ad ogni gradino.
Anche così è stato breve il
nostro viaggio.
Il mio dura tuttora, né più mi occorrono
le
coincidenze, le prenotazioni,
le trappole, gli scorni di chi
crede
che la realtà sia quella che si vede.
Ho sceso milioni
di scale dandoti il braccio
non già perché con quattr'occhi
forse si vede di più.
Con te le ho scese perché sapevo che di
noi due
le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate,
erano le
tue.
La Storia
La
storia non si snoda
come una catena
di anelli ininterrotta.
In
ogni caso
molti anelli non tengono.
La storia non contiene
il
prima e il dopo,
nulla che in lei borbotti
a lento fuoco.
La
storia non è prodotta
da chi la pensa e neppure
da chi
l'ignora. La storia
non si fa strada, si ostina,
detesta il
poco a poco, non procede
né recede, si sposta di binario
e la
sua direzione
non è nell'orario.
La storia non giustifica
e
non deplora,
la storia non è intrinseca
perché è fuori.
La
storia non somministra carezze o colpi di frusta.
La storia non è
magistra
di niente che ci riguardi. Accorgersene non serve
a
farla più vera e più giusta.
La storia non è poi
la
devastante ruspa che si dice.
Lascia sottopassaggi, cripte,
buche
e nascondigli. C'è chi sopravvive.
La storia è anche
benevola: distrugge
quanto più può: se esagerasse, certo
sarebbe
meglio, ma la storia è a corto
di notizie, non compie tutte le
sue vendette.
La storia gratta il fondo
come una rete a
strascico
con qualche strappo e più di un pesce sfugge.
Qualche
volta s'incontra l'ectoplasma
d'uno scampato e non sembra
particolarmente felice.
Ignora di essere fuori, nessuno glie n'ha
parlato.
Gli altri, nel sacco, si credono
più liberi di lui.
Di un Natale metropolitano
Un
vischio, fin dall'infanzia sospeso grappolo
di fede e di pruina
sul tuo lavandino
e sullo specchio ovale ch'ora adombrano
i
tuoi ricci bergére fra santini e ritratti
di ragazzi infilati un
po' alla svelta
nella cornice, una caraffa vuota,
bicchierini
di cenere e di bucce,
le luci di Mayfair, poi a un crocicchio
le
anime, le bottiglie che non seppero aprirsi,
non più guerra né
pace, il tardo frullo
di un piccione incapace di seguirti
sui
gradini automatici che ti slittano in giù….
Forse un mattino
Forse
un mattino andando in un'aria di vetro,
arida, rivolgendomi, vedrò
compirsi il miracolo:
il nulla alle mie spalle, il vuoto dietro
di
me, con un terrore da ubriaco.
Poi, come s'uno schermo,
s'accamperanno di gitto
alberi, case, colli per l'inganno
consueto.
Ma sarà troppo tardi; ed io me n'andrò zitto
tra
gli uomini che non si voltano, col mio segreto.