Michele
BRANCALE
Michele Brancale è nato in Basilicata nel 1966 e vive a Firenze. Ha scritto le raccolte di poesie La fontana d’acciaio (Polistampa, 2007), Salmi metropolitani(Edizioni del Leone, 2009, pref. di A. Tabucchi), La perla di Lolek (Giuliano Ladolfi, 2011), A regime di brezza mite (Lucaniart, 2012), Rosa dei Tempi (Passigli, 2014, pref. di Gianni D’Elia), L’apocrifo nel baule (Passigli, 2019, pref. di Roberto R. Corsi). Suoi testi ne Il tempo e la sua storia (Santelli, 1987), in Collettivo R. Interventi in Dialoghi prima dell’alba (Vallecchi, 2004) e in Dal braccio della morte alla lotta per la vita (Quaderni di Palazzo Medici, 2007). Ha scritto i racconti Soave e invecchiato (Polistampa, 2007), Il braccialetto di Toledo (Giuliano Ladolfi, 2012) e il romanzo Esodo in ombra (Giuliano Ladolfi, 2016). Ha partecipato alle antologie Sotto la lente (Perrone Lab, 2008), Il Panettone (Romano, 2012), Decameron 2013 (Felici Editore). Si occupa di cronaca e critica letteraria per Qn, Avvenire e Gradiva.
POESIE
da LA FONTANA D’ACCIAIO
Avevo freddo sotto le coperte.
Sono sceso, la caldaia era spenta.
Sono stato un po’ così, mi diverte
l’evidenza silenziosa: diventa
compagna discreta, ma non inerte,
della vita che ha bisogno, che stenta
a fermarsi e che per guardarsi vera,
si sveglia, sorride di quel che era.
Quelli che vivono altrove, li trovi
all’anagrafe dei nomi sepolti,
sulla collina. Lontani dai rovi
i quadranti ordinati. Lì, rivolti
per ore allo stesso spazio, esaltano
il tempo e l’attesa; sono distolti
dagli altri i genitori. Ascoltano
la voce del figlio che non arriva:
“Si era perso”. Le volte che tentano
di accordare una forma alla deriva
delle parole, sentono incompiuto
il senso. Però la madre riapriva
con un gesto – la mano, in aiuto
sommesso al geranio, accarezzava
di fatto il volto – il cerchio che muto
chiamano destino. Poi rispondeva
il selciato al suo passo e al suo ritorno
domani o ieri. Domani accadeva…
Sostengono che nello spazio gli astri
decaduti, collassando assumono
con il tempo una forma di alabastri
neri, circolari e contratti. Sono
porte aperte che attraggono all’oscuro
chi vi passasse, spingendo in un cono
verso altrove. Dall’oltre di quel muro
– sembra – che non si possa poi tornare,
non nell’aspetto consueto e sicuro.
L’altra città si lascia modellare
in quartieri di marmi, muschio e sassi
punteggiati da petali.
Tornare
ogni tanto qui con i propri passi,
seguire il corso, la traccia d’argento
dei legami è quasi come affacciarsi
a qualche cosa d’analogo a cento,
mille, e più di quelle porte.
Se perso
in questi pensieri talvolta anniento
la distanza, anche sul muro terso
– forse ricordo chi mi sta pensando –
il tuo nome diventa un universo.
Salimmo sul vagone
pensando a un gioco cattivo,
che sarebbe finito bene;
mi domando ancora
dove trovammo
la voglia di sorridere
mentre ci portavano lontano.
Qualcuno intonò un salmo,
la mamma ci strinse a sé,
pensavo al nascondiglio
dove giocavamo,
a come lo avremmo ritrovato,
perché dovevamo tornare
e presto.
Correndo accanto al filo spinato
facevo finta di sparire,
eppure ero lì,
sotto il sole e nella neve,
nel nostro nascondiglio.
C’erano i cani,
ma io mi nascondevo.
Al ritorno
non credevo più a niente,
solo al nascondiglio.
Ci torno ogni giorno,
a cercarti.
Si è alzata da poco e ha percorso l’aria
aprendo lo spazio a una pausa, un varco
nel muro invisibile della fretta
che stretta e invasiva pervade il tempo,
annulla il campo, lo sguardo sugli altri.
Anche la strada si è messa in ascolto,
vibra, si scuote, duttile al mistero
conosciuto dai tetti e le finestre
che lei sta accarezzando mentre sale,
si risveglia nella gente che ascolta
e si è fermata ancora e ancora un poco.
Ma quella melodia si è alzata e va via,
si attenua, così leggera, nell’aria.
da SALMI METROPOLITANI
La piana, la cupola e i tetti rossi
ed il verde interrotto dai tralicci,
quei cavi che richiamano i binari,
i contatti sospesi nella corsa.
È lunga più di un giorno di cammino
la tua città aggredita dal frastuono.
La percorrono passi frettolosi,
onde magnetiche di cellulari.
Anche su esse viene declinata
la grammatica dell’avvitamento,
la cultura dell’impossibilità,
la rincorsa del punto di partenza.
Prova l’eleganza delle parole
o la rabbia urlata a togliere forza
allo scandalo vissuto da tanti,
dagli stranieri nei tubi di ferro.
A riparo sotto tetti di eternit
le vite profughe cercano asilo.
Un gregge di anziani lascia la casa
per l’esodo d’oro negli istituti.
Nelle cronache balza l’evidenza
di valere meno di un televideo.
In strade di senza fissa dimora
l’icona del Signore marginale
dorata dal fastidio, posta in basso
tra donne scaricate sull’asfalto,
appesa al portone dei cronicari
è venerata dal lamento irriso,
dall’ingenuo sperare un altro da sé,
altro dal gusto di giustificare.
Tutti attratti da inviti sovrapposti,
convergenti sul di più che non basta.
La salvezza viene da un’altra voce,
nella sosta presso la tua dimora.
Allora si solleva in leggerezza
la fatica irrequieta per me stesso,
la montagna fondata sull’orgoglio
dove s’agita l’ingombranza dell’ “Io”.
Alla prima protesta invocò pace.
Segnalandosi per intelligenza
e passione crebbe nel Direttivo.
Non ebbe più tempo per i poveri,
si fece più duro nelle parole,
schematizzando diritti in formule
e indorando sue giustificazioni
per l’assenza nel campo dei rapporti
personali, nelle strade di tutti.
A motivo di tanti, troppi impegni,
si incastonava, “preso”, nell’agenda,
indirizzando ad altri i suoi amici.
Però cresceva, diventava un quadro,
costruiva un nido alla sua ipocrisia,
il rifugio nell’incavo di un tronco.
Il passato di due anni un’epopea,
il pulpito da cui farsi maestro.
Il tarlo
l’inquietudine
il timore
una distesa vessata dal vento
nell’inverno coperto dal cappotto
di una solida, ricca posizione –
da qualche amico che continuava
a cercarlo (evidenziando il peccato,
la divisione tra il dire e vivere).
Dico beato chi ha amici fedeli,
chi non dimentica i poveri, forza
dell’amore ribelle alla sua fine.
da LA PERLA DI LOLEK
In pochi conoscevano Romero
prima di farne una bandiera lieve,
da agitare, senza sapere cosa
dicesse davvero il pastore mite
e fermo, incompreso nella sua casa,
testimone che arreso al suo Maestro,
confidava proprio a te la sua pena,
sotto la cupola di Pietro a Roma,
per dissipare la forza del male
insinuato a parole contro di lui:
votato al sacrificio dell’altare
riconciliato col Samaritano
mezzo morto, col Signore spezzato,
per le strade di San Salvador.
L’eco
delle sue parole ti raggiunse
mentre all’esterno della cattedrale,
anni dopo, volevano impedirti
d’entrare, governanti e sicurezza,
confratelli dubbiosi e avvelenati,
a salutare la salma sepolta.
Ma tu, da pellegrino contestato,
non sentivi le ragioni offensive
che scagliate addosso alla sua memoria
ritornavano sui volti complici,
giustificativi, del suo assassinio
(e d’altra parte smentivano quanti
si fecero fautori delle armi,
impugnando in malafede il suo nome).
Di destra o di sinistra il suo operare?
Quante volte anche a te sarebbe stato
cucito addosso quest’abito del limite,
nomade bianco,
perché «progressista»
su questioni economico-sociali,
«reazionario» su quelle bioetiche
e morali, «pacifista» o «guerriero»,
inviso nel profondo agli uni e agli altri,
per la logica dell’individuale.
Vincerai col tempo nella simpatia,
per persuasione, non nell’umiliare.
Quell’immagine di te che disteso
abbracci la tomba di Monsignore
dice la forza della comprensione
che i fratelli hanno nella pazienza
e nel Pane mangiato, negli azzimi
del fedele isolato al cenacolo:
«Primero Dios»,
l’amore ritrovato.
da A REGIME DI BREZZA MITE
Nostra Signora di Damasco hai un manto
tessuto di spine raccolte a terra,
tra gli innocenti di Aleppo e i bambini
di Hama che gridano alle macerie:
“Non cadeteci addosso. Chi ci salva?”.
Si faccia diffusa Assunzione, madre
dell’agnello, ogni loro domanda
di protezione.
Rosa di Damasco,
della città che non ti ha mai ignorato.
Il Paese vecchio stava ai microfoni.
Dal palco davano lezioni di etica
quelli che avevano rubato il futuro
degli altri, confessando di altri le colpe.
Ogni passo evidenziava la pochezza
ed un’indolente insorgenza d’orgoglio.
Getto lo scandaglio nelle parole
per incontrare qualcuno di vero.
da ROSA DEI TEMPI
Mi sposto nella città ma attraverso
il tempo. Lo vedo dal parabrezza
lo stesso luogo che è cambiato e sembra
uguale, quel limitare conteso
all’intorno dagli alberi cresciuti,
dalle facciate rinnovate, mentre
a volte appesantite dall’incuria
e dalla scansione dell’orologio
sembrano chiedere un po’ di sollievo.
Per la direttrice di quella strada,
o dai cavalcavia, si rivelano
lì come altrove, quelle apparizioni
che si fanno gratitudine arresa,
capace di dare senso alle cose,
a quella frase, a quell’immagine
di te e degli altri che sale da terra
e che soltanto tu riesci a vedere.
I clandestini sono esseri umani
che hanno l’inverno nel cuore ed intorno
una tempesta ed il morso dei cani
sul sole delle attese. Ed il ritorno
alla fornace da cui partirono
gli viene rimproverato, a contorno
di un gelo palese, fatto di attriti,
come un dovere figlio della colpa,
come per gioco fossero partiti,
fuggiti.
———Ogni notte una nave salpa.
Arrivano sfiniti i pettirossi
nelle campagne, mentre gli altri alati,
tortore e colombe, con stuoli scossi
dal fresco, e le rondini che dai lati
dell’abitato garriscono acute,
lasciano l’orizzonte: da immigrati,
gli uni e gli altri, con schiere non astute,
come i turdidi arrivati a svernare,
che sono sottoposte alle battute
di caccia, che vengono da oltremare.
“È caro al passo del migrante il senso
della direzione, sia siepe o colle,
uno sbocco nell’orizzonte immenso.
Brevi tratti diventano corolle
di silenzio sovrumano, di quiete
apparente in spazi, talvolta zolle,
interminati a causa di concrete
paure, dello stormire clandestino
del vento tra le piante che irrequiete
non danno rifugio. È un istante fino
al naufragio che dura di infinite
attese e arriva improvviso: confino
di speranze rese alla voce mite
e poi inospitale che adesso abbino
a stagioni ardite. In mare finite?”.
Tanto perso nella nebbia, annegava
nel dio Po imprecando contro di loro,
gli immigrati, trovandosi da solo
nello stesso stato, esposto al nulla
che travolge e che disgrega la lega
delle sorti indifese: territorio
che dispera, che portò la sua auto
nelle acque. Si sorprese a vedersi
salvo perché attratto non nelle spire
di Gorgone, ma nelle braccia tese
di uno zingaro che si era gettato
nel fiume per portarlo vivo a riva.
“Ma che?”, “Ma va?”, “Ma come?”. Poté solo
guardarlo negli occhi per dirgli grazie.
Dice che sia contento, che da allora
faccia tesoro della sua vergogna.
…Sogno
una casa
dove
non ci sia
più la morte
né un motivo
per rimpiangere
qualcosa,
qualcuno
e guardare
indietro.
Sapendo
che tu esisti
e per sempre…