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POESIE
Ti
ho generato col solo pensiero figlio
e
non sei mai sceso nel mio corpo
come
una buona rugiada.
Però
sei diventato un’ape laboriosa,
hai
fecondato tutto il mio corpo
e
a mia volta son diventato tuo figlio,
figlio
del tuo pensiero.
Forse,
quando morirò, partorirò tutta la dolcezza
che
mi hai messo nel primo sguardo
perché
figlio, ti ho guardato a lungo,
ma
non ti ho mai conosciuto.
Figlio
figlio mio sognato, figlio ti ho solo pensato
non
sei mai sceso nel corpo come una buona rugiada
ti
ho guardato a lungo, ma non ti ho conosciuto mai.
Pensiero,
io non ho più parole.
Ma cosa sei tu in sostanza?
qualcosa che
lacrima a volte,
e a volte dà luce...
Pensiero, dove hai le
radici?
Nella mia anima folle
o nel mio grembo distrutto?
Sei
cosi ardito vorace,
consumi ogni distanza;
dimmi che io mi
ritorca
come ha già fatto Orfeo
guardando la sua Euridice,
e
cosi possa perderti
nell'antro della follia.
Ecco
un bianco scenario
per
tratteggiarvi l’accompagnamento
degli
oggetti di sfondo che pur vivono.
Non
ne sarò l’artefice impaziente.
Berrò
alle coppe della nostalgia,
avrò
preteso d’ozio nelle lacrime…
perché
non mi ribello alla natura:
la
mia lentezza li esaspera…
La
mia lentezza? No, la mia fiducia.
Per
adesso è deserto.
Il
mondo può rifarsi senza me,
E
intanto gli altri mi denigreranno.
La
pace che sgorga dal cuore
e
a volte diventa sangue,
il
tuo amore
che
a volte mi tocca
e
poi diventa tragedia
la
morte qui sulle mie spalle,
come
un bambino pieno di fame
che
chiede luce e cammina.
Far
camminare un bimbo
è
cosa semplice,
tremendo
è portare gli uomini
verso
la pace,
essi
accontentano la morte
per
ogni dove,
come
fosse una bocca da sfamare.
Ma
tu maestro che ascolti
i
palpiti di tanti soldati,
sai
che le bocche della morte
sono
di cartapesta,
più
sinuosi dei dolci
le
labbra intoccabili
della
donna che t'ama.
O
labbra, labbra disunite e bianche
nel
valore del pianto penitente,
labbra
disunite dentro il bacio
in
tenera protesta di follia,
o
labbra senza tempo
che
avete amato un uomo,
labbra
senza perdono
ponete
la protesta fuori da una finestra.
O
labbra della Vergine divina
che
cantan l’Angelo che ormai si avvicina,
è
pronto il gran segreto,
vengo
meno a un divieto.
Veleggio
come un'ombra
nel
sonno del giorno
e
senza sapere
mi
riconosco come tanti
schierata
su un altare
per
essere mangiata da chissà
chi.
Io
penso che l'inferno
sia
illuminato di queste stesse
strane
lampadine.
Vogliono
cibarsi della mia pena
perché
la loro forse
non
s'addormenta mai.
Ieri
ho sofferto il dolore,
non
sapevo che avesse una faccia
sanguigna,
le
labbra di metallo dure,
una
mancanza netta d'orizzonti.
Il
dolore è senza domani,
è
un muso di cavallo che blocca
i
garretti possenti,
ma
ieri sono caduta in basso,
le
mie labbra si sono chiuse
e
lo spavento è entrato nel mio petto
con
un sibilo fondo
e
le fontane hanno cessato di fiorire,
la
loro tenera acqua
era
soltanto un mare di dolore
in
cui naufragavo dormendo,
ma
anche allora avevo paura
degli
angeli eterni.
Ma
se sono così dolci e costanti,
perché
l'immobilità mi fa terrore?
I
poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di
loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio
delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni
od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere
Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più
rumore
di una dorata cupola di stelle.
Laggiù dove
morivano i dannati
nell’inferno
decadente e folle
nel
manicomio infinito
dove
le membra intorpidite
si
avvoltolavano nei lini
come
in un sudario semita
laggiù
dove le ombre del trapasso
ti
lambivano i piedi nudi
usciti
di sotto le lenzuola
e
le fascette torride
ti
solcavano i polsi e anche le mani,
e
odoravi di feci
laggiù,
nel manicomio
facile
era traslare
toccare
il paradiso.
Lo
facevi con la mente affocata
con
le mani molli di sudore
col
pene alzato nell’aria
come
una sconcezza per Dio.
Laggiù
nel manicomio
dove
le urla venivano attutite
da
sanguinari cuscini
laggiù
tu vedevi Iddio
non
so, tra le traslucide idee
della
tua grande follia.
Iddio
ti compariva
e
il tuo corpo andava in briciole,
delle
briciole bionde e odorose
che
scendevano a devastare
sciami
di rondini improvvise.
Un'armonia
mi suona nelle vene,
allora
simile a Dafne
mi
trasmuto in un albero alto,
Apollo,
perché tu non mi fermi.
Ma
sono una Dafne
accecata
dal fumo della follia,
non
ho foglie né fiori,
eppure
mentre mi trasmigro
nasce
profonda la luce
e
nella solitudine arborea
volgo
una triade di Dei
Oh,
dove prima al limite del giorno
s’appiattava
una forza ordinatrice,
quale
scoscendimento pauroso
che
mi rimonta sulla stessa ruota,
sulla
ruota del giorno e del tormento?
E
dove il digiuno di un incontro
rovesciare
codeste verità?
Ah,
fantasmi di te, mille fantasmi
arsi
di sete, tutti, alla mia fonte!
Una
forza stranissima si insinua
nelle
mie labbra docili e le incurva,
io
ruoto, sento, sul mio desiderio
schiava
di un magnetismo che mi ha vinta.
La
corsa dopo invaderà il mio corpo
che
la esercita in sé, nel suo tormento,
per
superare ciecamente il solco
dove
tu, assente, non puoi più fiorire.
Ardo
di mille musiche diverse,
ma
dove è tempo di un incontro nuovo,
resiste
il “poter essere” di te.
Maledizione d'amore
Maledetto
te
che
hai preso il fiore delle mie labbra
e
senza baciarlo l’hai buttato per terra
e poi
l’hai mostrato a una fanciulla inerte.
O te
maledetto
che
hai cambiato i miei giorni
in un
orrendo frastuono
e non
sento più angeli
ma
vipere intorno.