Marco
ORTENZI
Marco Ortenzi è nato nel 1950 a Roma, dove è scomparso prematuramente nel 2005. Le sue raccolte di poesia: Due Rapsodie (Edizioni del Leone, 2000), Un’elegia (Edizioni del Leone, 2003). Due Rapsodie, di oltre 400 pagine, è stato premiato e accolto dalla critica come “la rivelazione straordinaria del talento di un poeta dalle ascendenze filosofiche alla Holderling”. Sue poesie sono uscite in rivista e in antologie.
http://www.literary.it/dati/pdv/de_napoli/due_rapsodie.html
POESIE
UNA SIMULAZIONE
Scherzo istrionico e lirico
sogno mimico e infranto
e oltre un muro basso la notte
oltre la notte il gioco speculare delle stelle,
la pace è un attimo
quando cadono tutti i venti
è come stare in piedi su un tetto.
Poco pochissimo di questo impero d’amore
di questo affetto spontaneo per il clan dei battisti
fuga o pensiero che sia lo sguardo cerca impressioni
profili in filigrana nel settembre del cielo
è per scrivere a vuoto biglietti
e riscattare questa servitù.
I comici del cinema muto sui tetti
uno spettacolino di Artaud di manichini che nessuno ha mai visto
di corpi vegetali più puri d’un dolore vegetale
mani di gelatina e unghie di fronde
e tutto molto più reale di noi
i sarti degli scampoli, gli economisti dei pezzi di sapone.
Il repertorio dei mimi umani abbastanza esaurito
l’amore di ritorno per le cose la loro pantomima stupefatta
può darsi una specie di paradosso d’amore
la nostalgia dell’attore per la prosa della marionetta
qualcosa come essere cose, in questa storia.
La retorica materialistica del melodramma
le stelle sul campo di pattinaggio e non si sa di chi sono
i cascatoni dei clowns e la memoria storica del Liechtenstein
un nastro per capelli da donna teso davanti agli occhi
data per insostenibile l’idea di sublimazione
il salto con l’asta del gentiluomo monogamo
lo sport la classifica dei cannonieri
l’olimpiade bionegativa di Benn
nella casa dei suoi genitori non pendevano Gainsboroughs
e nemmeno si suonava Chopin
l’io funzione degli alienisti e l’io nel paradiso di Dante.
Bisogna diventare una persona – pensavi –
e per far questo bisogna perfezionare l’attore,
durante la stagione c’erano solo happenings di poesia
futurista o teatro sintetico da letture serali di Carlo Collodi
i balli plastici i cori i personaggi coi vestiti di carta
felicità maniache e dolori irreali di Narciso Parigi.
Guardando il cielo dopo lo spettacolo
la testa sembrava svitata e il collo un apribottiglie
era come guardare le stelle stando fermi in una pineta
era come se il tour continuasse sempre
IL CANTANTE DI JAZZ
A volte pensi l’anima sia un’anima e invece sono anime
sono prati all’inglese desolati e sono asfalti, cieli capovolti
e sono specchi non creduti dei mimi
non creduti le immagini sorprese di una verità.
Acque del tempo glaciali e analogiche. Acque.
Esiste un tempo già previsto nel tempo
esistono tempi nel tempo
le immagini nel tempo meraviglia
luci cieche d’un uomo, misteri d’organismo
nei luoghi soli del continente, comuni.
E’ il senso di piccoli standard
gocce di luce dentro gocce di brina
e di rugiada nell’alba
nei dintorni simbolici d’un restaurant periferico
vegetariano compresa l’orchestrina.
Inventare da lirici due standard
minimo l’economia di due pezzi chiusi in poesia
due ruote piccole di bicicletta
you ain’t heard nothing yet
voi non avete ancora sentito niente
debole debolissimo odio
debole debolissima o
debolissimo oboe d’amore
SUONO UNO
C’è questo lungo perdersi della poesia nel suo nulla
in un’attesa del tempo che la trasformi in pensiero
come l’assolo folle, amoroso, d’una chitarra, nel tempo
in un’attesa del tempo che la trasformi in passato
nei primi versi d’un canto, ma non umano, quasi
il tamburo leggiadro della notte, il canto notturno dei grilli
il suono eterno, vergine, delle fontane, il fischio dei treni nel buio
un rumore di aghi di pino e di ghiaia sotto le scarpe
di due ballerini in un muto, senza musica, senza silenzio.
Un’estate di notte in un giardino di pini, un ricordo
in un inverno gelato con gli occhi socchiusi, stupito
c’è questo lungo perdersi della poesia nel ricordo
in una memoria notturna, con occhi espressivi, da muta
racconta con le mani un’aria d’opera sentita nella casa dei padroni
le hai prestato le mani, le muovi appena, tenendo chiusi gli occhi
COPENAGHEN
Tu non puoi immaginare che male io senta qui in fondo al cuore
nella fragile potenza della sera di Copenaghen
nella stazione di Copenaghen, con i sognatori europei
antichi suonatori di trombone e gente nera e sorrisi
e un grande orologio che aspetta il tuo sguardo di sole.
Ma in sere povere – potrebbero aspettare
qualche diverso interprete,
il barboncino Marx con il piattino al parco Tivoli
o un sorriso danese e un pedigree
o un fattorino pazzo o qualcosa di biondo
oppure un cowboy canterino –
andremo ad Elsinore e sbarcheremo ad Helsingborg
L’AUTISTICA
Gennaio ha un grado di meno negli occhi
un semitono nei colori in meno una voce di meno
e gli occhi come stagni di non sai quale stagione
di non sai quale età,
la luce grigia limpida d’inizio d’una serie di cieli
s’allarga nello spazio e diventa una storia
chiama un gloria taciuto a un pomeriggio già tardo
e già scuro, a cespugli
s’espande come acqua pluviale come grazia
della vita sensibile d’un’anima, d’un’anima segreta.
Ora il corpo coincide soltanto in timidissimi sguardi
con gli alti delle fughe del cielo – il corpo, lo sguardo –
con un pensiero impossibile, con una forza immane
di non pensiero ad altezza di nuvole, e l’anima è lì
e in pensieri meccanici, amorosi, fino al centro dei luoghi
serali, al respiro dei luoghi serali, in un giardino grigio.
La fine del silenzio di questa voce inappartenente
è un canto povero per il mondo appena creato
per la vita che insegna le sillabe, l’umiltà della genesi del mondo
e per la voce di questa luce bassa vegetale
del mistero profondo che ora si chiama inverno
e pomeriggio e ottica e flora
IL NUOVO MONDO
Da ragazzi il continente era solo una lunga striscia di costa
dormivamo in alberghi dove tutto era sempre previsto dal nulla
ogni sì della nostra innocenza, ogni no del nostro dolore,
da quel tratto di costa dando le spalle al mare
s’intuivano alberi bianchi, segreti non esotici di donna
e giochi teatrici d’un altro cuore.
Eppure uno stupore molto grande, in questo primo paese d’ovunque
l’anima non poteva sopravvivere a lungo oltre la sua frontiera
potevi credere che fosse soltanto il confine d’un corpo di ragazza
ma non era così, era l’altrove il giorno il nuovo mondo
c’era il sogno di nominarlo, di riconoscere i luoghi di quel mondo
di capire il perché di quella luce senza tempo né luoghi
ma bisognava lasciarlo respirarti ai confini del mare, chiamarti
lasciare che fosse anche lui a confermare il tuo nome, un battesimo.
Forse è così che hai creduto di vivere, da allora
in un sogno geografico innocente, in un sogno di topologia
in un sogno di topologia che non era soltanto un sogno
donato ogni giorno al mare non appena placati gli occhi
al ricordo del tempo del mare, del tempo marittimo
ARRIVEDERCI
Arrivederci Frank Lloyd Wright
non posso credere più alla tua canzone
così ti dico so long, arrivederci
è che lo sfondo del cielo
oltre il fuoco dell’alba, la figura
– la palma che coincide con lo sguardo,
una casa di prateria –
tutto ha una sua bellezza inconfondibile
eppure non è più la nostra estate.
L’estate adesso è goffa, laconica
non parla bene, fa discorsi indiretti
è una lucertola a capo chino, una comica
ci vuole un’altra canzone per l’estate.
Arrivederci Frank Lloyd Wright
ti ringrazio
ti vorrò sempre bene lo sai
e ci ripenseremo, puoi giurarci
CAOLINO
Accordo in una favola sofisticata piena di soprannomi
e non ha niente a che vedere con questo inferno
una volta le impronte digitali verdi di clorofilla e bianche
scomparivano come sciami d’insetti
sulle panche di marmo del giardino
a volte le hai proprio riviste sopra una pagina di poesia.
La lingua può divenire sempre più stretta
e sempre più comprensibile, fisica
e inventarsi dei libri scritti piano, a partire da pagina uno
la lingua può imparare a memoria e aspettare la lingua del tempo
è sufficiente qualcosa di diverso nella luce, le figure dell’ombra
un segreto del tempo, i tuoi occhi che non ne parlano più
LE IMPRONTE MINERALI
Se è morta la poesia professionista, non è facile la risposta
non hai provato davvero a creare la rapsodia che pure potevi
non abbastanza, cose popolari, vita sonora, canzoni indirette
canzoni sfiorate nei loro attacchi tridimensionali gasati esilarati
sebbene di lei poesia sappiamo soltanto il nome
e la sintassi e le pause, e nei momenti migliori hai pensato, io credo
io credo che il potere non esista questo lo devi ammettere
io credo che il potere non esista, in realtà
RICORDO D’UNA RIVIERA
Semplice storia, ricordo d’una spiaggia di sassi
sipario d’alghe e verzure di mare appena prima delle campagne vuote
semplice corpo d’amore lungo sulle colline come strade di terra
come il linguaggio puro dei caratteri che non pensavano lirica
se non in un silenzio in penombra e troppo difficile
ospite come la sera in case di angeli poveri.
Una scala di casolare che monta verso la sera
una strada di borgo che sale verso la sera ignara
una preghiera per suoni se cade come rose d’ombra nel petto
e conoscenza d’un bene ignoto
pronunciata nei bassi d’una voce crepata, nella luce
a partire dal cielo, e per la gioia ombrosa d’un crepuscolo padre,
prima, nell’ora prima del tempo dell’oro delle campagne
senza paura di silenzi selvaggi per l’abbandono degli uomini
e dell’addio di musiche di sassi, fino ad ora l’estate.
E gelate impossibili nelle notti d’estate stupite d’effemeridi
accanto al gioco scuro d’una donna e d’etichette alcoliche, profumi
come cipria di grano su di una moto in corsa senza occhiali
come un pezzo di jazz molto nervoso
in un mezzogiorno d’estate
o come una preghiera di giorno, una simulazione.
Queste campagne hanno un’acustica buona
un motivo sonoro malinconico, assorto
una ragione elegiaca difficile, qualcosa come l’arte acrobatica
una grazia estrema nel corpo e nello sguardo obliquo d’una donna
una vita possibile di fantasie animate
fuggite in larghi d’orizzonti marini
e alcuni di questi luoghi hanno vedute alte
e lunghe all’infinito, profonde
e indefinibili, come creazioni del mondo in crepuscoli caldi
e come fari d’auto se bucano l’estasi e l’ombra di alcune notti.
In uno dei pomeriggi la prima ragazza d’un gruppo
è entrata ballando in una taverna in collina
accennava passi di danza in penombra
qualcosa come la luce più vera
la luce della campagna,
un uomo anziano al bancone l’ha guardata d’istinto
ha guardato in esterni a una finestra
ha detto piano qualcosa in poesia
esteriormente ha sorriso
MISTER LEOPARDI E LA LUNA
Di tante derive aeronautiche
svendite di memorie e almanacchi da inverno a inverno
rimane un ologramma della luna nel cielo
disperato e impossibile come un inchiostro.
E l’irrealtà plebea delle tue sere
della scrittura fredda delle lune ordinarie
è una mano di donna che stringe alla gola, un assurdo.
La perfezione dei viaggi del pensiero aeromobili del novecento
da una città a un’altra città dove espiare e smarrire poesia
è simile al nonsenso fantastico dei tuoi pastori asiatici
e del tuo tu alla luna
all’argomento fantastico d’un’anima che chiede d’incarnarsi
nella seconda replica d’un vespro teatrale
nel matrimonio serale di due storie volgari.
Sai cos’è il tuo destino
una vicenda d’addii di viaggiatori al confine
d’un borgo metafisico e inanimato per poco
un’elegia di ombre che si sapevano meravigliose
e rinnegate, irriconoscibili
in un paese selvaggio senza l’amore del vuoto
il bagliore delle stelle del nulla
BLUE IN GREEN
Se tu non fossi che un’immagine blu su di uno sfondo blu d’una notte
daresti questo tuo solo colore, questa tua sola luce, alla tua sola notte
alla tua sola alba, alla tua sola preghiera, alla tua sola poesia
il perdersi nel breve infinito, nel breve spazio infinito
nel breve tempo infinito, sarebbe solo il blu d’un notturno
solo un nightglow, soltanto un sorriso del suono blu del jazz,
è che il cuore mimetico nella luce dei giorni non può essere solo
del colore degli occhi della malinconia, del colore degli occhi del mai
è verde, e il verde non è quasi mai selvaggio, è innocente
ma può fare del male, e allora impara dagli occhi del blu
un omaggio di verde allo spazio, un colore di flora perenne e di mare.
L’estate s’è persa a volte in un gioco leggero di venti
e il vento scomponeva i colori in una storia folle, appena folle
il blu, il verde e gli altri colori, e svelava il dolore del bianco
il dolore cieco del bianco, con una grazia cui non volevi credere
e a cui credevi, forse, così vedevi un altro gioco, nel tempo
e il bianco virava nel giallo d’un mezzogiorno distratto, atonale
forse pensavi ancora senza senso parole pure, e il giallo virava in blu