Luca
CANALI
Luca Canali, scrittore e saggista italiano è nato a Roma nel 1925. Ha insegnato letteratura latina nelle università di Pisa e di Roma. Oltre che per i suoi studi critici sulla latinità come quelli su Cesare, Petronio e Lucrezio, è noto come finissimo traduttore, tra l’altro di Virgilio e di Lucano, nonché come poeta e narratore. Come poeta è autore di numerose raccolte: Un’altra stagione (1959), La deriva (1979), Il naufragio (1983), Toccata e fuga (1984), Giuro di dire (1985), Fasi (2002), Alla maniera di (2006), Lampi (2011), Su di me fuoco amico (2012). Più direttamente autobiografica è la produzione narrativa: La Resistenza impura (1965), La vecchia sinistra (1970), Il sorriso di Giulia (1979), Autobiografia di un baro (1983), Spezzare l’assedio (1984), Amate ombre (1987), Diario segreto di Giulio Cesare (1994), Nei pleniluni sereni (1995), Pietà per le spie (1996), Reds (2003), Cronaca di follie e amori impossibili (2004), Fuori dalla grazia (2008), L’interdetto (2009). Ha pubblicato lo studio di poetica letteraria La dismisura (1993) e, nello stesso anno, ha curato una monumentale Antologia della poesia latina.
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POESIE
Padre, fra oscure speranze e ricordi ignorati per sfida
Padre, fra oscure speranze e ricordi ignorati per sfida,
hai galoppato attraverso gli anni i cavalli della tua gioventù
finirono nell’ipoteca delle mandrie, nei mattatoi
e nei concimi dell’altopiano.
Lontano dalla croce degli avi nel cimitero che
ti rifiutasti di salutare,
hai prodigato sudore e fatica per i tuoi figli, ma le parole
dell’affetto non le hai mai pronunciate
fra le nostre anìmule borghesi,
traditori dell’acqua di fonte e del seme che hai cercato
di scordare nelle sale di bigliardo, nei dazi,
nelle botteghe, negli scali,
eppure ti germina ancora nelle crepe delle dita
con la polvere di carbone ancestrale della combusta divinità
che solleva la tua pietà per i gatti randagi all’empireo
dei propositi vani d’intenderci per un attimo almeno
ora che la vecchiaia ti segna con il fulmine sulle radici di quercia
dei fasci di muscoli antichi, nell’erratica nube
della mente di poeta, nelle partenze per avventure immaginarie,
nel moto febbrile dell’inquietudine di pilota di autotreni,
di avo silente e orgoglioso della prole cui doneresti la vita
con l’eroismo della viltà sacrificata a un’estrema offerta d’amore,
o padre, ardito di guerra e di pace, di slanci, di trucchi
d’antagonista persino dell’ansia di non morire sconosciuto
a noi che traesti alla vita con l’irruenza d’un fauno
mutato dal tempo dei fallimenti in una sfinge mortale.
A mio padre
Ci siamo forse sempre
amati
senza incontrarci mai.
L’unico adulto
errore senza indulto
nella tua vita di ragazzo
mai cresciuto
(al pari di me)
è averci generati.
Ancora dalla clinica
Vaghiamo ubriachi di benzodiazepina,
automi che aziona non più l’energia di un progetto,
ma lo stimolo dell’iminodibenzile in una tresca di pupille
dilatate, acqua cupa di stagno in cui annegano le identità
e ammiccano le omertà di subconsce rassegnate agonie.
Ma una voce forte e normale, se si ode, le infrange in una diaspora
di terrori riassommati che corrono a rifugiarsi in una solitudine
di cuscini, di lame, di lacci per la soluzione finale.
*
Piango a dirotte lagrime le miserie del mondo,
rispecchiate e contorte in un elegante rifugio di folli,
tra illusioni di affetti, in rigide gerarchie di funzioni,
di neutri gestori del morbo armati di terapie,
di sigle su flebo, di laidi profitti, di brevi
esecuzioni sommarie fra elèttrodi omologati dal tedio,
se tramonta l’angoscia su una quiete spettrale o sul rictus
di un clan di dementi avvinghiati agli uncini della norma.
*
Siamo qui ad un passo dalla morte,
dalla deformità, dall’insania,
ognuno con lo sguardo fisso in un punto dello spazio
o sulle foglie oscillanti oltre i vetri in una tregenda d’inni
di guerra ascesi dalla vita spegnendosi in un murmure di pietà
tra i cavalieri disarcionati di questa disperazione senza approdi.
*
Odio gli aromi dell’estate
brulicanti e lesivi nella bassa
pressione instillata dai psicofarmaci.
Rimpiango il gelo dei vicoli
e dei cortili infervorati da una fede
quando la mente sembrava una sciabola di battaglia,
lineare e illusoria al pari di una rivolta di poveri,
una pleurite secca curata con l’aspirina.
Metastasi
La mia vita aveva radici
avvelenate. Ora che non ho
più vita, ma una sequela
di giornate slegate, allucinate,
il veleno è passato
nella mia voce altezzosa
o in apparenza dimessa. Non prendetela
dunque sul serio, è solo
una foce di rivi
inquinati da amore
di arido falansterio o da odio
dolente d’integri vivi.
Rinascita
Dimesso il pensiero
d’un addio alla vita, ho voglia
di giocare anch’io nel bene
e nel male la mia esistenziale
partita, di guardare sereno
da una soglia.
Scadenza
Sul loro consueto muretto
i vecchi pensionati leggono
il giornale, sereni, eppure
la morte li sfiora, quasi
li rende sacri, ed essi
ne apprendono i connotati dai
quotidiani massacri.
Domitilla
Un’ombra di
smarrimento e di resa velava
i tuoi occhi mentre
mi cavalcavi selvaggia
e maliosa,
ma solo in apparenza
vittoriosa. La gloria
di donarti e di essere tu soprattutto
ad amare era
in realtà la tua vera
vittoria.
Senza scampo
Non avevo speranze,
ora non ho più neanche
nostalgie, vivo
nel presente, macigno
d’inutilità, cigno
prigioniero senza canzoni
di libertà o guiderdoni
perversi di virile
banalità.
Bilico
Ogni mio verso è un furto
vitale alla mortale
quotidianità dell’agguato
– aggressione in potenza, passo
felpato – d’un esorcizzato
massacro.
Sussulto
Finire, svanire, deglutire
me stesso, ma finalmente
in un assalto alla vita
leale o fraudolenta,
non in brutale o ipocrita
ritorno alla placenta.
La resistenza impura
Agli uomini senza ambizioni politiche,
senza particolari doti d’ingegno, senza relazioni influenti,
cioè senza possibilità di scambio o di scampo,
che caddero oscuramente,
mossi da elementari bisogni e da elementari ideali.
A questi uomini che in morte come in vita
non ebbero mai né chiesero quartiere
e di cui la storia, che pure soprattutto di essi
si nutre, disperde prudentemente le tracce.