
Lorenzo
PATARO
Lorenzo Patàro è nato a Castrovillari nel 1998 e viveva a Laino Borgo (Cosenza), dove è scomparso nel 2025. Laureato in Lettere moderne, ha studiato Filologia Moderna all’Università di Salerno. Ha pubblicato le raccolte di poesie Bruciare la sete (Controluna, 2018) e Amuleti (Ensemble, 2022, con prefazione di Elio Pecora). Sue poesie sono state pubblicate su riviste e su «La Repubblica». Faceva parte della redazione di “Inverso – giornale di poesia”. Ha vinto diversi premi, tra cui Ossi di seppia nel 2021 e Ritratti di poesia nel 2023. Collaborava con il quotidiano «Il Foglio».
POESIE
da AMULETI
*
Ancora ritorna lo sparviero
il nibbio a piantare l’urlo nella schiena
a percorrere il dolore come un dito
che tocca la ferita e la ripara
la stagione degli amori ritorna
e spalanca i richiami dei tordi nella nebbia
se getti il germoglio sul cemento
lo ruba la gazza e lo conserva
nel nido poi scopre il tuo segreto
e smette di brillare ogni preghiera
ancora ritorna lo sparviero
la poiana caduta a capofitto.
*
Stella di grafite, ti ho gettato
tra le onde, lieve combustione.
Luce primitiva, fammi iena
fammi aratro, braccato
nella nebbia. Luce-grembo.
Ti ho gettato in tutti i pori
nascita ulteriore, dono dei relitti,
fatica del restauro, sapiente oro.
*
I rovi tra la neve troveranno un’altra luce
un bastone di pastore a scavare gli anemoni
e le bacche marce nella terra
a furia di urlare il mio nome si scheggia
la tua voce o si affila come la punta di ghiaccio
che pende sottile dalla casa diroccata –
allora tu dammi un altro luogo
in cui inselvatichirmi, una pelle di ghiro
mentre dorme nel rifugio fra le travi del pagliaio
chiamami col verso dei falchi o delle volpi
donami le orme del lupo, gli occhi dei piccoli
che cercano la madre e la sua bocca
feroce quando afferra il nuovo nato dalle zampe
e il sangue che sgorga si fa pietra nel gelo,
ossidiana – rovescio del bianco nel bianco.
*
Sentire come allora. Bambini-parco-giochi.
Sentire la vita come allora e in un punto
preciso, dentro al petto. Chiaro nitido
pungente. Accorgersi del noto.
Lo spazio tra le cose, tra il piede che si alza
nella corsa e il piede-ancora che tiene.
Polvere, il radioso nello spazio
tra le dita. Sentire un freddo che è lontano,
acuminato. Universo che semina nel petto
qualcosa di antico e benedetto.
In cerchio si osserva la ferita al ginocchio
del bambino, sangue e pelle, il suo frantumo.
Sentire come allora. Farsi tana e nascondersi
era un modo per lasciare il mondo vuoto, farsi
mondo nel mondo e nascondersi nel vuoto
lasciato dalle cose. Qualcuno ci cercava.
E noi acquattati come i morti. In attesa.
Trattenendo il respiro come loro.
*
Mi innesti alla tua pianta, mi aggrappo
alla tua gemma che è ferita, raccolgo
il tuo respiro dalla crepa, lo scavo come fosse
una miniera, lo tengo come fuoco
tra le mani consegnato dalle braci,
lo tengo per quando arriva il gelo,
al riparo dalla febbre sulle tempie,
da quel freddo-animale che fa scarni,
fa muta la parola e ci leviga le ossa.
Raccolgo il tuo respiro come un frutto,
lo semino all’interno, benedico la tua fame
e la porto come un dono che ha il vizio di brillare.
*
Cerchia la parola, la parola disarmata
alla fine della strage sulla linea che segna
la frontiera. Autunno-dire, inverno-sentire.
La casa è nuda. Tu fai tana nella soglia.
Si sgola la distanza e si ammanta
la preghiera di fonemi involontari.
Ti mando a brillare sulla neve.
Azzurro bene non visto che perdura.
*
Vedi, è tornato il primo freddo
a levigarci – la vinaccia nel tino si fa d’oro.
Nulla. Poi qualcosa che si muove
sotto tutte le macerie della casa.
Tutti i fossili ti ascoltano cantare
e riparano le braci dalla neve.
Ottobre vento antico di uragano.
Qualcosa di prezioso ci raccoglie
ci fa semina e tempesta. Spoliazione.
Vieni, dormiamo nel tepore tra le martore
in veglia nella notte per la caccia. Ci porta
verso tutti i malangeli perduti nella nebbia
quest’allerta che fa i luoghi argilla e fuoco.
*
Penso ai morti del paese a cui non pensa
più nessuno. Gli ingrigiti fiori finti, i fiori secchi,
il gelo che fa tana nelle tombe scoperchiate.
Quanto resta. Cosa resta in una foto
di tutto il mappamondo di un umano.
Una scritta, una data, qualche oggetto.
Cosa resta. Penso a tutti i trapassati
che non lasciano una scia. Benedico
i loro nomi, percepisco il loro sonno
come un ago, la mia notte
nella cruna della loro.
*
La testa sul cuscino, un sasso
nello stagno a sprofondare, nella stanza
si propagano i pensieri come cerchi
e tu non senti dal tuo regno bianco ovatta
la ferita che mi buca la corteccia.
*
Se dico grano tu lieviti e ti spalanchi nel mio nome.
Siamo nati. “Alberi case colli per l’inganno consueto”.
Se dico àncora, mi abissi. Siamo nati.
Gettati in un nome verso un nome.
Se dico tetto mi scoperchi, se dico cielo
mi nevichi e mi scardini dal corpo.
Con la grazia dei vulcani. In quello
stare delle cose illuminate per sé stesse.
Se dico sillaba, fonemi si sparpagliano
e poi il gelo li ricuce, li spoglia
e fa nuda la parola, esposta
e divina come un barbaro in esilio.
Adesso. Se lo dico, già è passato.
Siamo nati. Gettati in un nome verso un nome.
*
Il ramo-lucertola spezzato, l’incavo
del riccio di castagna ad accogliere
il respiro dei dispersi nella luce,
le mani-radici nella terra, i palmi-catini
colmi d’acqua, la fronte che è un viale
in attesa delle foglie. Quanti corpi
attraversiamo, in quante forme migriamo
braccati come lupi nella notte.
*
I morti accatastati come legna
nelle tombe, polvere di semina,
le ossa a brillare accese dai lumini,
i falchi-guardiani a sorvegliare
il loro sonno primordiale.
I morti sono i tarli della neve.