Lilia
SLOMP

Lilia Slomp Ferrari è nata nel 1945 a Trento, dove vive. Ha pubblicatole raccolte di poesia: En zerca de aquiloni (La Grafica,1987), Schiramèle (La Grafica, 1990), Nonostante tutto (Edizioni U.C.T.,1991), Controcanto (Edizioni U.C.T., 1993), Amor porét (La Grafica, 1995), Leggenda (Edizioni U.C.T., 1998), Striarìa (La Grafica, 2002), All’ombra delle nove lune (Edizioni del Leone, 2005), Come goccia di vetrata (Edizioni del Leone, 2008), Ombrìe (Edizioni del Leone, 2012), Pass dopo pass (Biblioteca dei Leoni 2019). È presente in numerose antologie nazionali e sue poesie in dialetto trentino sono state incluse e tradotte in inglese nell’antologia Dialect Poetry of Northern and Central Italy (Legas New York, 2001). È vice presidente del Gruppo “Il Cenacolo trentino di Cultura dialettale” diretto da Elio Fox, segretaria della “Pro Cultura” di Trento.

liliaslomp@gmail.com

POESIE

da ALL’OMBRA DELLE NOVE LUNE

Contavo tredicianni
Contavo tredicianni all’altalena,
le bambole ninnavano le streghe
nell’antro del drago. Dosavo
le erbe mediche, i pleniluni
per la mia giostra di fortuna.

Non conoscevo imbrogli,
agguati a fior di pelle.
Catalogavo voli di farfalle
giocando le paglie nel fienile
salvifico di effluvi nel maggengo.
– Respira fondo e chiudi gli occhi
all’estro del destino – così
mi diceva la nonna fattucchiera
di foglie mentoline e tarassachi.

Stringo la mia bambola di stracci
a croce sul corpo depredato.
L’ululato è un urlo di silenzio
nella fuga del lupo. Zittiti i grilli,
stordite le cicale. Nel fossato
si allarga il cerchio della luna
al gracidare lento delle rane.

Cantavo l’amore
Cantavo l’amore
a ogni quarto di luna
per quelle vibrazioni di pensiero
che sanno il veliero volante,
lo spazio siderale. Sognavo
il trionfo del razzo spaziale,
l’amplesso nella nenia di una fiaba.

L’artiglio dell’aquila ha violato
la stella di Venere,
accecato di fendente le comete,
lacerato i veli della danza.
Salomè giace a nicchia nel canto,
ignorata, come sputo
catarroso sul muro.

Attimo sospeso
È stato un sussulto, un respiro.
Le mie dita sono volate
appoggiate sul ventre teso
al tuo attimo sospeso.
Cuscino questo grembo,
tentativo di un profilo,
di un singhiozzo d’amore proteso
alla marina. Eco, il rumore del mercato,
delle grida all’offerta migliore.

Il mio sguardo acceso
sbircia da antiche fessure
l’orizzonte scolpito nel cuore.
Sono tesa all’illusione
come l’aurora al sole.
Ti sento nelle viscere mio fiore.
Ti coltivo in una lacrima.

Mi basta
Rivoglio il tempo rubato!
Lo esigo in nome di chi
mi ha seminato nel grembo
semenze fasulle facendo
ballare farfalle impazzite
ai vetri di neve. Non importa
se il vento coglione ha spazzato
le nubi vanesie nel sole.
Pretendo il grigiore, l’attesa
sospesa del pino, l’odore
del bianco pastrano sui resti
del prato. All’orlo del cesto
il gatto sonnecchia insieme
ai giochi di lana di qualche
gomitolo sparso. Mi basta
questo vecchio maglione
di tarme, il baule che ride
all’altana, due passi di luna
nell’orto, il secchio che miagola
l’acqua ghiacciata del pozzo
e qualche favilla inventata
all’ordito di crepe sul muro

Luna nona
Lagrima il cielo della nona luna.
Ammutolito l’urlo della vita
per un eterno istante d’agonia.

Ti han portato via braccia di ladra,
viso di pietra, riso di rasoio,
falcata lunga nel mantello in fuga.

Ti rincorrevo coi capelli al vento
e già non respiravo che le ombre
quando il fato mi ha richiamata
inerme sul giaciglio del dolore.

Mio fiore! Filamento d’uragano.

Hanno detto che avevi ciglia lunghe,
bellissimo il tuo viso nella cera.
Non saprò mai il tuo volto disegnato,
scolpito nel dettaglio delle ore.

Al posto mio ti hanno lapidato.
Oh figlio dell’angoscia e del furore.

da COME GOCCIA DI VETRATA

Nell’ultima scossa d’estate
Proietto la tua figura
sul profilo del muro, mi piego
alla sferza delle lune degli orti
che hanno ora la mia andatura.
Annullata la clessidra febbrile,
azzerata la conta alla partenza.
Tendo la memoria
come giunco per spiccare il balzo
di lucciole d’agosto prigioniere.
C’è una sedia che dondola le attese
insieme a ritornelli d’innocenza.
Mi hai lasciato il codice dei grilli,
mosaici di pazienza, un’anima
padrona del soffio primordiale
quando affondo le mani nelle zolle
calde del tocco delle tue
nell’ultima scossa d’estate.

Alla corte dei sogni
Intrecciava i giunchi la nonna
con mani sapienti. Pareva volare
il moto delle dita mentre fioriva
la favola, una carezza sfuggita
al groviglio di steli nel grembo.
Alla fiera si metteva nel canto
discreta. Donna dalla lunga sottana
allargata a campana. Ai suoi piedi
la corte dei sogni dai manici ad arco
per bimbe dal rosso mantello
e merende sbriciolate nel bosco.
Sapeva la fame, il lento
bussare dei giorni alla porta,
l’attesa. Intrecciava i giunchi
giocando anche il lupo.

Nitide le rotte
Giostratemi la tonda della rosa
una piuma di nido dentro il becco,
per favore. Basterebbe un guizzo
di volo per equilibri intrepidi
di pensiero. È mio diritto l’ala
per tutti gli arcangeli contattati
in preghiera quando decisamente
erano lievi, nitide le rotte
dell’innocenza vestita di neve.
Quanto potrà costare la farfalla,
il fiocco al mercatino dei cieli?

Del tempo, del morire
L’albore pugnala a tradimento
l’oscurità come quando giocavo
il mio risveglio. Non accadeva
mai il bacio sulla fronte al trillo
della sveglia. Mi opprimeva l’ombra
severa dell’armadio, l’ansia
che ancora mi coglie nell’andare.
Brandelli menestrelli il mio vestito
per quest’esistenza parodia.
Talvolta il reale era quasi gelo,
arabeschi in trine di pensiero,
invenzione dolce di parole
gettate in seno al vento come perle.
Trafigge il buio l’alba silenziosa
funambola del tutto nell’attesa.
Costante la tormenta dei silenzi,
la resa pacifica dei suoni.
Stritolo nel pugno il luccicore
gelido d’allora. E nemmeno
m’accorgo del tempo, del morire

Era là
L’ho vista. Era là appollaiata
come insetto scommessa sul fiore.
Celata era la falce tra le felci,
ghigno nelle pupille del cuculo
accovacciato al nido. Era là
con il tacito strascico frusciante
del canneto di erbe gracidante
nel tripudio delle rane. Sogghigno,
ragno, bava d’argento delle altane.
Ve lo giuro, l’ho vista. Era lei
coi suoi mille segnali avvertimento,
mille concerti ultimi nel boccio.
Eco quel rintoccare di campane
sul picco affascinante della pieve.
Lieve richiamo, rauco dondolio
nella giostra di ore del mantello.
Sei tu il mio gioiello – sussurrava.
Mi manchi come anello alla catena,
come polena, indice del mare.
L’ho vista nell’arcobaleno teso
simile a ponte verso l’infinito.
La freccia mi ha colpito all’improvviso
in sospensione cieca di colori.
Credetemi, l’ho còlta molto prima.
Quando mi ha imbrigliata alla sua coda
ero già sonagliera giocoliere,
pendaglio ciondolante sopra il petto
indifeso dell’ultimo giullare

da AMOR PORÉT

Sonetto 3
Ciara n’ombrìa se slonga sora ’l prà,
vòida de ti, de la to voze piana,
el temp l’è sgolà via, l’è ’n fil de lana
che cuca ’n mez a l’erba , entortolà.

T’ò volèst ben, e quant nissun lo sa,
anca se mi per ti ero lontana…
vizina te ciamavo da l’antana.
Su quel scagnèl de legn engranizzà
ò svoltolà i me dì dentro i me oci
e gò ’nventà ai silenzi le parole
smorzando le me stéle a una a una,

ancora co’ la testa sui ginoci.
Che me carezza ancòi gh’è sol le gròle
che dìndola n’ombrìa come na cuna.

Sonetto 3
Chiara un’ombra s’allunga sopra il prato,/ vuota di te, della tua voce piana,/ il tempo è volato via, è un filo di lana/ che sbircia in mezzo all’erba, attorcigliato.// Ti ho voluto bene, e quanto nessuno lo sa,/ anche se io per te ero lontana…/ vicina ti chiamavo dalla soffitta./ Su quello sgabello di legno fuligginoso// ho rimestato i miei giorni dentro i miei occhi/ e ho inventato ai silenzi le parole/ smorzando le mie stelle a una a una,// ancora con la testa sulle ginocchia./ Che mi carezzano oggi ci sono solo le cornacchie/ che dondolano un’ombra come una culla.

da STRIARÌA

Scortaròle de vert
En bosch encantà sto me còr
con stradèle che sbìsega al sol
endrezzando colori, paure,
carezzando le svolte al doman.
E me fermo a ogni baosète
che na sdrìsa de sol la me fa
e me ’ngropo davanti a formìghe
cargàde de gnènt che le va
tute en riga compagne de noi
che saven la fin de la strada.
Gò la polver dei ani en le vene,
en còro de vozi che  ziga
e balade desperse nel vent,
gò la voze che ’mpasta fadìga
e ’ntél còr scortaròle de vert.

Scorciatoie di verde
Un bosco incantato questo mio cuore/ con stradine che frugano al sole/ intrecciando colori, paure/ carezzando le svolte al domani./ E mi fermo a ogni baosète/ che una striscia di sole mi fa/ e mi commuovo davanti a formiche/ cariche di niente che vanno/ tutte in riga simili a noi/ che sappiamo la fine della strada./ Ho la polvere degli anni nelle vene,/  un coro di voci che urlano/ e ballate smarrite nel vento,/ ho la voce che impasta fatica/ e nel cuore scorciatoie di verde.

Baosète: bambinesco per indicare grido di richiamo giocoso e improvviso.

da OMBRÌE

Pagine
El libro de le storie l’è ’n encant
de àrboi sentinela de tramonti
de sintéri che ràmpega fiorìde
a spass dentro ferìde de brocón.
Le pagine le gà odor de mus’cio
el nar de le stagión sul fià dei dì
quel zèrto sbrissiar via de maravéie.
E ogni fada, ogni mostro o strìa
i gà ’l so campanil, la so campana
na stramberia, en pugn stremì de case
na macia de ingiòstro sul castel
en fong che gà ’l capèl pù ross del ross.
E dentro al bosch i lóvi i se sparpaia
pronti come le rane dentro ’l fòss.

Pagine
Il libro delle favole è un incanto / di alberi sentinella di tramonti / di sentieri che arrampicano fiorite / a spasso dentro ferite d’erica. / Le pagine hanno odore di muschio / l’andare di stagioni sul fiato dei giorni / quel certo scivolar via di meraviglie. / E ogni fata, ogni mostro o strega / hanno il loro campanile, la loro campana / una stramberia, un pugno impaurito di case  / una macchia d’inchiostro sul castello / un fungo che ha il cappello più rosso del rosso. / E dentro al bosco i lupi si sparpagliano / pronti come le rane dentro il fosso.

Passi
Me pesa la to ombrìa de passi
sul sintér, el to nar a ondezón
su la stradèla come voleva el vènt.
No sò còssa darìa per gavérte
ancor vizin a mi con i to brazzi
slargadi come en prà endó negàrse
e dìndolarse en le lusaròle.
Te savevi la lengua de le fade,
i passi ’ntéi ziéli dei aquiloni,
te gavevi en prest tuti i segreti
scondudi d’istà soto le zope.
Son chi en dinoción su la to préda,
la piòza che la ’ndaqua la memoria,
me sgrìciola ’ntéi ossi la to storia,
le verità e bosìe, ancora el vènt,
quela to ombrìa che me camina arènt.

Passi
Mi pesa la tua ombra di passi / sul sentiero, il tuo andare a onde / sulla stradina come voleva il vento. / Non so cosa darei per averti / ancora vicino a me con le tue braccia / allargate come un prato dove annegarsi / e dondolarsi nelle ultime illusioni. / Tu sapevi la lingua delle fate, / i passi nel cielo degli aquiloni, / avevi in prestito tutti i segreti / nascosti d’estate sotto le zolle. / Sono qui in ginocchio sulla tua pietra, / la pioggia che annaffia la memoria, / mi scricchiola nelle ossa la tua storia, / le verità e bugie, ancora il vento, / quella tua ombra che mi cammina accanto.

da PASS DOPO PASS

Dì dopo dì
Morir dì dopo dì en font ai òci
entant che le parole le scortèla
a salti come quando se èra bòci
zugando le balòte ’n la scarsèla.

Morir co’ le rassade sui ginòci
l’anima a rebaltón per na putèla
campane che le sona coi batòci
la musica dei ànzoi, la pù bèla.

Morir pass dopo pass su quela strada
sangiót de scortaròle vèrs el ziél
grópi de cà, rumori de contrada

na man che te saluda dal portèl
la zoventù che ride ’mpassionada
te fa sgambéti pròpri sul pù bèl.

Giorno dopo giorno
Morire giorno dopo giorno in fondo agli occhi / intanto che le parole accoltellano / a salti come quando si era bambini / giocando le palline nella tasca. // Morire con le sbucciature sui ginocchi / l’anima in subbuglio per una ragazza / campane che suonano con i battagli / la musica degli angeli, la più bella. // Morire passo dopo passo su quella strada / singhiozzo di scorciatoie verso il cielo / gruppi di case, rumori di contrada  // una mano che ti saluta dal cancello / la gioventù che ride appassionata / ti fa sgambetti proprio sul più bello.

Prima de l’ultim zich
Lasséme ’n cròz, ’n estro de stéla alpina
da ’mpontar su le ròste de la mént
prima de l’ultim zich al firmament
adèss che gh’è la nòt che se arvizina.

Gò l’anima ancóra rampeghina
la pirla su le pónte el só momént
la se stiróna ’mprèssa dal content
en l’ultim tòch la vita la se nina.

Ogniqualtrat se ’mpegna l’armonia
l’anima al vènt la se consegna nuda
tut quel che è stà la se lo para via.

Sui vedri zà se spègia primavera
strangósso ancór na mìgola sconduda
entant che ’l pugn  pian, pian él me se sèra.

Prima dell’ultimo grido
Lasciatemi una croda, un estro di stella alpina / da appuntare sugli argini della mente / prima dell’ultimo grido al firmamento / ora che c’è la notte che si avvicina. // Ho l’anima ancora rampichina / prilla sulle punte il suo momento / si stiracchia in fretta dalla gioia / nell’ultimo tratto la vita si culla. // Di tanto in tanto si impiglia l’armonia / l’anima al vento si consegna nuda / tutto quello che è stato se lo manda via. // Sui vetri già si specchia primavera / bramo ancora una briciola nascosta / mentre il  pugno piano, piano mi si serra

Se fuss possìbol
Se fuss possìbol misurar l’eterno
el sbataiar dei dì enrapoladi
snasar colori sul franar dei pradi
zugar le ale bianche de l’inverno

contar i quadratini del quaderno
i orlatini ormai zà scanceladi
la lista matelòta dei pecadi
brusar quela paura de l’inferno

rider a le gatìzzole dei dì
negadi ’ntéi strambezzi de le nòt.
Se mi podéssa ancór strénzerme a ti

scaldarne al fòch dei basi del mèzdì
col struzimént scampar, far en fagòt.
Missiarme a ti e ti missiarte a mi.

Se fosse possibile
Se fosse possibile misurare l’eterno / il battagliare dei giorni stropicciati / annusare colori sul franare dei prati / giocare le ali bianche dell’inverno // contare i quadratini del quaderno / gli orlatini ormai già cancellati / la lista bambina dei peccati / bruciare quella paura dell’inferno // ridere al solletico dei giorni / annegati nelle stramberie delle notti. / Se io potessi ancora stringermi a te // scaldarci al fuoco dei baci del mezzogiorno / con lo struggimento fuggire, fare fagotto. / Mescolarmi a te e tu mescolarti a me.

Man de ladro
a mio fratello Ezio che se n’è andato il 17 ottobre del 1989
Man de ladro stanòt sul melagran.
me manca quel spacà dai denti rossi
a boca avèrta sóra i mé doman
con lù arènt a mi, saltavo i fòssi.

Madùr él ne balava ’nté le man
él ne rideva coi só grani grossi.
Te me strucavi l’òcio da lontan
la tó risada me scaldava i òssi

ensèma al sol malà de cocombria
en quel’otobre da la falz sassìna.
Zà freda la tó man enté la mia

da darme n’ilusión de compagnia.
La tó presenza ancóra sì vizina.
E prego en ladro dentro el Così sia.

Mani di ladro
Mani di ladro questa notte sul melograno / mi manca quello spaccato dai denti rossi / a bocca aperta sopra i miei domani / con lui vicino a me saltavo i fossi.  // Maturo ci ballava nelle mani / ci rideva coi suoi grani grossi . Tu mi strizzavi l’occhio da lontano / la tua risata mi scaldava le ossa / insieme al sole malato di ipocondria / in quell’ottobre dalla falce assassina. Già fredda la tua mano nella mia / da darmi un’illusione di compagnia. /  La tua presenza ancora così vicina. / E prego un ladro dentro il Così sia.

Pass dopo pass
Quando che ’l fià l’è zà na nostalgia
e ’l tèmp él ziga le stagión che mòre
a gola avèrta ’nté na litania
come raze sfinide che le córe

col còr che ’l gà le gambe de na stria
e l’orolòi él bate le tó ore
l’è alóra che te vèn la cocombria
l’è alóra che la vita la discóre

co’ l’uragan che ’l zerca la só strada
sóra la gòba dei arcobaleni.
La sòla de le scarpe l’è sbusada

ma i sassedèi cognóss la tó balada
la giaz dei fiori ai pradi dei sereni.
Pass dopo pass te rivi a la contrada.

Passo dopo passo
Quando il fiato è già una nostalgia / e il tempo urla le stagioni che muoiono / a gola aperta in una litania / come lancette sfinite che corrono // col cuore che ha le gambe di una strega / e l’orologio batte le tue ore / è allora che ti prende lo smarrimento / è allora che la vita discorre // con l’uragano che cerca la sua strada / sopra la gobba degli arcobaleni. / La suola delle scarpe è bucata // ma i sassolini conoscono la tua ballata / il ghiaccio dei fiori ai prati dei sereni. / Passo dopo passo arrivi alla contrada.

Paura
Na paura bòia de no ’ncontrarte
su l’ór del prà. Dó fiori ’nginociadi
el gril e la formiga ennamoradi
e quela vòia mata de basarte

dapertut, dapertut per cocolarte
endormenzarne ’nsèma ’mbamboladi
zugar a scondiléver coi pecadi
co’ le bosìe ancóra da contarte.

E quando bala storne le pavèle
tegnirme fissa a ti per no cascar
binar entél zestèl gozze de stéle

a una a una per no scarmenar.
Zugar i dì che resta en le scarsèle
senza gavér paura de sgolar.

Paura
Una paura boia di non incontrarti / sull’orlo del prato. Due fiori inginocchiati / il grillo e la formica innamorati / e quella voglia matta di baciarti // dappertutto, dappertutto per coccolarti / addormentarci insieme imbambolati / giocare a rimpiattino coi peccati / con le bugie ancora da raccontarti. // E quando ballano storne le falene / tenermi fissa a te per non cadere / raccogliere dentro il cestino gocce di stelle // a una a una per non disseminare. / Giocare i giorni che restano nelle scarselle / senza aver paura di volare.

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