Margherita Guidacci è nata a Firenze nel 1921. Si era laureata in letteratura italiana all'Università di Firenze, con una tesi su Giuseppe Ungaretti, specializzandosi poi in letteratura inglese ed americana, traducendo fra l'altro le opere di John Donne e le poesie di Emily Dickinson. Dal 1945 divenne insegnante, prima liceale e successivamente docente universitaria. Ha pubblicato le raccolte: La sabbia e l'angelo (Vallecchi, 1946), Morte del ricco: un oratorio (Vallecchi, 1954), Giorno dei santi (All'insegna del pesce d'oro, 1957), Paglia e polvere (Rebellato, 1961), Le poesie (Rizzoli, 1965), Neurosuite (Neri Pozza, 1970), Il vuoto e le forme (Rebellato, 1977), L'altare di Isenheim (Rusconi, 1980), Brevi e lunghe (Libreria editrice vaticana, 1980), L'orologio di Bologna (Città di vita, 1981), Una breve misura (Vecchio faggio, 1988), Il buio e lo splendore (Garzanti, 1989). È scomparsa a Roma nel 1992.
Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Margherita_Guidacci
Link http://www.treccani.it/enciclopedia/margherita-guidacci_(Dizionario-Biografico)/
POESIE
da Le Poesie
Scrivo
parole ogni giorno.
Non so dove arriverò,
scrivendo.
So che
potrei tacere.
Colui che sa, non parla.
Muto nel ventre del
tempo
dove uomini gridano, anche.
Lo sguardo
basterà per
comprendere e dire
quanto la voce non dice.
Sfioro ogni
istante, ogni giorno
l'urlo e il tuono. Vivo intorno.
Potrei
fermarmi e attendere.
In silenzio.
Ho
messo la mia anima fra le tue mani.
Curvale a nido. Essa non vuole
altro
che riposare in te.
Ma schiudile se un giorno
la
sentirai fuggire. Fa' che siano
allora come foglie e come
vento,
assecondando il suo volo.
E sappi che l'affetto
nell'addio
non è minore che nell'incontro. Rimane
uguale e
sarà eterno. Ma diverse
sono talvolta le vie da percorrere
in
obbedienza al destino.
Lascia
sia il vento a completar le parole
che la tua voce non sa
articolare.
Non ci occorrono più le parole.
Siamo entrambi il
medesimo silenzio.
Come due specchi, svuotati d' ogni
immagine,
che l'uno all'altro rendono
un semplice raggio. E ci
basta.
La
sabbia e l’angelo
I
Non
occorrevano i templi in rovina sul limitare di deserti,
Con le
colonne mozze e le gradinate che in nessun luogo
conducono;
Né
i relitti insabbiati, le ossa biancheggianti lungo il mare;
E
nemmeno la violenza del fuoco contro i nostri campi e le
case.
Bastava che l'ombra sorgesse all'angolo più quieto della
stanza
O vegliasse dietro la nostra porta socchiusa-
La fine
pioggia ai vetri, un pezzo di latta che gemesse nel vento:
Noi
sapevamo già di appartenere alla morte.
II
Se
vuoi lasciare la tua impronta, o uomo, scalfisci piuttosto la
sabbia,
Perché la più alta torre diverrà sabbia alla
fine.
Scrivi il tuo nome sul lido deserto, e prega il mare che
presto
lo copra di lamento:
Perché tu stesso sei sabbia, sei
la morte che dopo te rimane.
III
Ogni
volta che dicemmo addio;
Ogni volta che verso la fanciullezza ci
volgemmo, alle nostre
spalle caduta
(Tremando l'anima al suo
lungo lamento);
Ogni volta che dall'amato ci staccammo nel freddo
chiarore
dell'alba;
Ogni volta che vedemmo sui morti occhi
l'enigma richiudersi;
O anche quando semplicemente ascoltavamo il
vento nelle strade
deserte,
E guardavamo l'autunno trascorrere
sulla collina,
Stava l'Angelo al nostro fianco e ci
consumava.
IV
Ora
il nostro amore si spanderà nella vigna e nel grano,
Il nostro
veleno nei cactus e negli spini crudeli.
Si curveranno i vivi alle
sorgenti, diranno:
"Chi spinse verso di noi l'acqua da
occulte vene del mondo?"
E molto prima che il freddo li colga
e la notte sul loro cuore s'adagi,
Anche in un meriggio d'api e di
succhi ardenti,
Conosceranno l'angoscia, perché potenti noi siamo
e vicini,
E non vi è fuga dal cerchio in cui già li
stringiamo
Con ogni stelo da noi sorto e ogni frutto
Che colmo
e grave alla nostra terra s'inchina.
V
Furono
ultime a staccarsi le voci. Non le voci tremende
Della guerra e
degli uragani,
E nemmeno voci umane ed amate,
Ma mormorii
d'erbe e d'acque, risa di vento, frusciare
Di fronde tra cui
scoiattoli invisibili giocavano,
Ronzio felice d'insetti
attraverso molte estati
Fino a quell'insetto che più insistente
ronzava
Nella stanza dove noi non volevamo morire.
E tutto si
confuse in una nota, in un fermo
E sommesso tumulto, come quello
del sangue
Quando era vivo il nostro sangue. Ma sapevamo ormai
Che
a tutto ciò era impossibile rispondere.
E quando l'Angelo ci
chiese. "Volete ancora ricordare?"
Noi stessi l
'implorammo: "Lascia che venga il silenzio!"
VI
Non
il ramo spezzato, non l'erba scomposta lungo il sentiero
Ci
dicevano il suo passaggio, m il tocco di solitudine
Che ogni cosa
in sé custodiva ed a noi rendeva, liberando
Dopo il messaggio
consueto l'altra, l'ignota parola.
Come trasalivamo ascoltandola,
come s'orientava sicuro
Il nostro cuore sull'invisibile
traccia!
Così noi sempre ti seguimmo, Dominatore ed Amato,
Né
ci sorprende la bianca luce in cui svelato al nostro fianco
cammini
(Ora che l'ombra carnale è tramontata sul meridiano della
morte)
Perché da lungo tempo te solo conoscevamo, a te
solo
Obbedivamo, tua destinata preda,
Trascinando sulle vie
della terra la tua celeste catena straniera