Giuliano
SCABIA

Giuliano Scabia è nato a Padova nel 1935 ed è vissuto a Firenze, dove è scomparso nel 2021. Tra i suoi libri di poesia: Padrone & Servo (1965), Il poeta albero (1995), Opera della notte (2003), Canti del guardare lontano (2012). È autore dei romanzi In capo al mondo, Lorenzo e Cecilia, L’Azione Perfetta e della saga di Nane Oca, composta da Nane Oca, Le foreste sorelle, Nane Oca rivelato, Il lato oscuro di Nane Oca. Ha scritto il testo per l’opera Diario italiano composta da Luigi Nono, per il quale ha scritto anche La fabbrica illuminata, in prima esecuzione alla Biennale di Venezia per il Teatro del 1964. Ha fatto parte del Gruppo 63 ed è stato uno degli iniziatori del Nuovo Teatro scrivendo lo spettacolo Zip-Lap-Lip-Vap-Mam-Crep-Scap-Plip-Trip-Scrap e la Grande Mam alle prese con la società contemporanea, per la regia di Carlo Quartucci, presentato alla Biennale di Venezia nel 1965. Per il ciclo del Teatro Vagante ha composto: All’improvviso, Zip, Scontri generali, Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno, Fantastica visione, Teatro con bosco e animali, Cinghiali al limite del bosco, Commedia del poeta d’oro con bestie, Visioni di Gesù con Afrodite, L’insurrezione dei semi, Commedia di Aironi, Canto del mormorio, Opera del Sole sfolgorante, Commedia di matti assassini, Commedia del risveglio e Canto del Paradiso. Ha tenuto la cattedra di drammaturgia al DAMS di Bologna.

https://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_Scabia

POESIE

Lumaca Imèga
O gente che corre – umanità – sentite
andando piano e meditando
e molto ascoltando
che pensieri mi sono venuti in mente.
Mentre ero brucando di foglia in foglia
accanto a bellissimi fiori erti e orgogliosi
ho pensato:
Chi è un fiore?
Uno che sboccia, fiorisce e sfiorisce.
Per chi fiorisce?
Per sé – per essere fiore.
E Fiore lo spazzino
lui sì vero re del mondo
per chi canta?
Per sé canta – per la gioia di sé.
O gente che corre
inseguita dall’ansia:
cos’è il bene per un fiore?
Fiorire.
E per voi dinosauri?
E per noi del Pavano Antico
cos’è il bene?
Essere in fiore.
Far sì che il difficile
attraversamento della vita
sia un teatro in fiore –
il teatro della nostra vita
in fiore – anche accanto alla morte:
godendo del fiorire di noi e di tutti, perfino
dentro il lato oscuro che ci spaventa
e ci nutre.

Coro
Noi siamo il Fiore
e il Leviatano
e con l’amore
e andando piano
la sapiente umanità
forse che sì forse che no
forse forse si salverà.
Si salverà?
E la via troverà?
Mah!
Ma sì – troverà.

Epilogo

Nane Oca
Tremita l’aria quando sorge amore
e un vuoto si forma – dentro cui va il vento:
vento noi siamo – vento con parole –
vento che nasce quando le ali d’oro,
molto grandiose, amore muove,
ali del tempo estese – lo so, son Nane Oca –
fin dove il vento/luce sa.

Quattro voli col poeta Blake
VOLO PRIMO SOPRA LA CITTÀ DI LONDRA
Nel verde risonante
Nel verde risonante apparve
la città: era nel futuro: copriva
con la sua immensità ogni verde,
era brulicante – era l’umanità.

Tigri, elefanti, leoni, leonesse,
coccodrilli, mammuth, pitoni, pitonesse,
lupi, formiche, uccelli piccoli e grandi
in loro evoluzione camminanti

eravamo insieme – non immaginavamo
tanto mutare verso ciò che siamo,
bestie brucanti nel verde risonante
con gridi e canti – e uno già parlante.

Da Londra comincia il mio cammino
di gradino in gradino salendo
da sotto terra partendo – contemplando
l’antro del metrò come una grotta di Lascaux dipinta.

Da solo che farò? Dove si deve andare?
Cento dell’Underground sono le direzioni,
di sicuro mi perdo – le visioni
sono smarrite – chi m’aiutare?

Ed ecco un uomo bello appare
e il mio nome nel Charing Cross incrocio di binari
dice: e in inglese antico m’invitare
a seguirlo – che luce ha negli occhi rari!

Con lui salgo di piano in piano
e quando fuori sulla via usciamo
gli domando: “Dove andiamo?”
“Be quiet,” – dice. – “Una visione seguiamo.”

Dentro il St. James Park ora camminiamo
e finalmente sotto un platano grandioso
si ferma l’uomo che mi guida misterioso.
“Ora,” – dice – “su per quest’albero andremo.”

Gli scoiattoli ci guardano, e cigni, anatre, pellicani,
cornacchie, passeri, colombi, aironi, gabbiani.
“Ecco,” – dice l’uomo quanto mai bello
mentre ci arrampichiamo, – “intorno quello

vedi è un resto del verde risonante.”
“Mia guida,” – dico – “cosa pensi della città
meravigliosa di botteghe, di luci abbagliante,
attrattiva di operosità

che da ogni parte cresce e sopra
si stende e ogni bosco e prato copre
dove non più cervo, volpe, lupo o lepre
selvaticamente all’occhio si scopre?”

“Penso,” – dice – “che tutto è sacro, ma caduto. Bosco
notte vento ciminiera nave o tempesta
in tutto ciò che appare, chiaro o fosco,
è l’essere che viene, Inferno e Festa.”

“Allora,” – dico – “tu sei Blake, il visionario
poeta del Cielo e dell’Inferno,
del verde risonante lo straordinario
cantore – il folle del Sacro Eterno descrittore.”

“Eterno è l’Amore,” – dice – “eterna
la Benevolenza, la Pace, il Perdono,
eterna la Bellezza materna
di Dio. Il Paradiso è lontano, intorno, vicino.”

“Vicino?” – dico. – “Intorno?” “Qui,” – dice – “sulla pianta
dove siamo è l’inizio della via che porta
al Paradiso – quello perduto e quello conquistato, la porta
oltre cui non più morte si vanta.”

“O poeta raro, poeta di visioni,
di quali Paradisi stai parlando?”
“L’uno” – dice – “il giardino verde ch’era quando
prima che gli uomini a milioni

di metropoli coprissero il mondo
e con bestie rugiade e nubi
sopra le piante liberi vivendo
non correvano in sotterranei tubi.

L’altro quando verrà il gran tempo
che tutte le fantasie umane lievitando
il Cielo e la Terra congiungendo
saranno une nell’eterno vento.”

“O matto poeta caro,” – dico – “come fare?
Impossibile al primo Paradiso tornare.
E del secondo, l’Eterno e Uno, sei sicuro
nel congiungimento futuro?”

“Sì,” – dice il poeta di visioni. – “Ma prima
vieni con me a volare – le rime a coltivare.”
Qui mi colse un tremito profondo, del platano là in cima:
poi mi trovai nell’aria e lui per mano me portare.

VOLO SECONDO SOPRA LA FRANCIA

Verso Parigi
Quando vedemmo l’aria farsi scura
e le stelle incoronare il cielo
ci venne voglia di volare ancora
per seguire conoscenza ed avventura.

Un po’ sognanti per il the speziato
all’improvviso il mio poeta disse:
“Parigi, Parigi aspetta: sarà un volo
meraviglioso – come di arco baleno.”

Era sorto un vento e presto fummo in alto
spesso facendoci occhiolino e scavallando
fra le nuvole e la notte, giocando
a rimpiattino, in poesia parlando.

Com’è epico il volo dei poeti
che parlando giron gironeggiando
hanno di poemi inseminato il cielo
fole visioni e dei immaginando!

Ah, mare! Ah, canale della Manica!
Ah, Francia bellissima di campi e di foreste!
Ah, fiumi lucenti per lumìo di stelle!
Ah, luci di paesi e città! E di Parigi, ah,

fantasmagorica immensità! Ed ecco che un turbine
di nuvole dense rotolanti tempestose
ci avvolse – sì che tememmo non restare vivi –
fin quando un grande uccello apparve e disse:

“Non paura, sono Charles Baudelaire
il ben venuto a dare a chi ben viene
portato dal gioco dell’immaginare
e dal gusto di viaggiar volare.”

“O raro,” – dico. – “O caro.” “L’aria,” – dice –
è fatta per sognare – il volo è la giunta
data in dono quando incontrare avviene
altri invaghiti di volare insieme.”

E poi, sorridendo: “Salite su di me,” – dice.
Subito saliamo e Blake canta
forse per onorare il volo e quel poeta
e la Senna la RER il metrò la Défense – canta

i poemi dei fiori dell’Inferno
e a lui la voce unisce Baudelaire uccello
a unisono poi intonando fraterno
versi d’innocenza e d’esperienza.

Ed ecco che altissima improvvisa
sorge fra nubi e nebbia l’alta torre
Eiffel – e l’uccello maestoso si posa
con noi sulla cima meravigliosa.

VOLO TERZO SOPRA LA GRECIA CON VISIONE FINALE DI AFRODITE

Visione dell’isola di Citera
“Hai voglia, Blacche, di ancora
volare?” “ O Scabius,” – dice – “ho voglia sì.”
“Da tempo mi piacerebbe,” – dico – “o vi-
sionario, veder dal mare sorgere Afrodite.”

“Andiamo, – dice – che non si sa mai
quando un dio si forma o si dissolve:
bisogna stare pronti per sentire
dentro di noi se viene, se sta per germogliare.”

E dunque riprendemmo il volo
entrando nelle nubi affastellate,
a volte silenziosi, a volte chiacchierando,
fin che la Grecia monti e mare apparve.

“Guarda,” – dice la mia guida – “ecco là
le isole disseminate, le navi e i venti,
le città antiche e le presenti,
i turisti, le capre, gli eroi, gli dei viventi.”

Ed ecco che, dopo un gran girare,
siamo su un’isola piccola, meravigliosa,
contornata di mare smeraldo colore.
“È Kithira,” – dice Blake. – “Qui fu vista apparire.”

“E se fosse che per noi si rifacesse
viva?” – dico. “Potrebbe,” – dice – “perché Memoria
trattiene tutto e nominando
tutto di nuovo si presenta in gloria.”

Lentamente volando tutta l’isola
lungo il mare abbiamo ammirato,
ascoltato le onde e il colore delle rocce,
la schiuma chiara nasconditrice.

“È l’incontro dello sguardo con le cose
che fa sacro ciò che appare,” – dice Blake. –
“È là che si formano gli dei e si rivelano
negli occhi di quelli che s’accorgono.”

“Ma forse allora o Blacche gli dei
sono tutti ancora là.” “Sì,” – dice Blake – “ma
sofferenti di non essere pregati.
E il mondo soffre la loro sofferenza. Ma

verrà giorno che di nuovo, seguendo
il nostro nominare, tutti ritroveranno
quel guardare che sa fare,
con lo sguardo, giardino.”

“È questo il segreto della poesia?” – dico.
“Sì, da sempre,” – dice. – “Essere vivente
è la lingua da noi seminata
per sapienza di logos e veggenza.”

“O Blacche, mio poeta, ora sto piangendo
perché confermi ciò che andai scoprendo
ascoltando la voce e lo strumento
dei genitori antichi e il loro intento.”

A Kypros, vista del sasso di Afrodite e cafenìo nel villaggio di Kyklos
Così parlando riprendemmo il volo
meta avendo Kypros luminosa
dove un tempo lei sorse dal mare
e prima cosa andammo a Kyklos paesetto,

alla piazzetta presso il tempio,
al cafenìo, godendo il caffè greco
e l’insalata verde e bianca di formaggio feta,
rossa di tomati, nera d’olive, d’origano adornata.

“O Blakos,” – dico – “qual è il caffè
che preferisci?” “Il greco amaro,” – dice –
seguito dal moka all’italiana
e cafeçito cubano piccinino: e l’etiopè.”

“Chissà Afrodite,” – dico – “quale preferito
avrebbe suo caffè.” “Tremante cosa,” –
dice il mio maestro caro – “è quando
l’amor amore l’umido ristora

del corpo la gloria con tazza
di caffè, tostato bene, arabico, e sen
za zucchero – ché dolce è già di baci
il corpo fatto fiore dall’amore.”

Ora vediamo là verso il blu mare
frangersi le onde che sembrar formare
la figura meravigliosa e come lievitare
e sorridere di schiuma le onde chiare.

“È tutto scritto fin dai tempi,” – dice Blakò –
del brontolon poeta Esiodò
e anche da prima, quando appoggiati
al seno fruttuoso, delicatissimo,

s’accorsero i figli che lei, madre cara,
era signora d’ogni mare
e umidissime grotte – e la porta della vita
aveva al centro del suo corpo chiaro.”

“O Blacche,” – dico – “come mai la nostra religione
s’è tanto impaurita di vagina e fallo
da far madre di dio una verginina
e padre un vergine soppiantato dal vento?”

“Sono i misteri dell’immaginare,” – dice –
“quando si confonde il mito col reale
e magari si scambia un animale
per un divino principe regale.

È la terra la sempre vergine, la madre,
la sempre di nuovo fecondata,
la sempre a partorire preparata
con l’aiuto del vento, pioggia e sole.”

“Oh come m’illumini, poeta veggente,” – dico –
“insegnandomi a capire che i misteri
sono nodi che nelle parole
si formano insieme ai desideri.”

“È così,” – dice. Com’era in quel cafenìo
il nostro colloquio per capire dio!
Accanto, nel suo santuario, sicuramente
Afrodite gioiva in nostre parole udite.

Apparizione
Aspettammo il calar del sole
e poi la notte vegliando sulla riva
certi che lei si rifacesse viva
formandosi dal mare e dall’afrore

secondo quanto andavamo immaginando
ogni tanto parole sussurrando
intonate al mormorar del mare, sperando
evocare l‘apparizione

dell’amatissima madre della vita: fin
che giunse piano piano l’alba e l’aprirsi
dell’aurora indorata di color del sole
riemerso con la brezza del mattino

quand’ecco che il prodigio
vedemmo – credemmo di vedere:
intorno allo scoglio dove il mito
insieme ai turistici depliant narrava

lei bianca e oro sorridendo
sorgeva – soavemente:
per noi, da noi sorgeva
e ci parve parlasse, divinamente dicendo:

“Brama, desiderio, voglia, amore,
concordia degli elementi
e di tutto ciò che esiste mutamenti
avviene attraverso di me: e anche il tempo

corre per desiderio di formare
lo spazio: io sono il calore
che tutto ha messo e tiene in moto
infinitamente: io

sono la luce che tutto attraversa,
curiosa, rivelatrice, misteriosa: luce
è il mio corpo – corpo esteso
dappertutto – luce Afrodite: io

sono colei di fiori inghirlandata
e stelle, pianeti, galassie, nebulose
e universi tanti quanti infiniti forse
si godono le corse smisurate,

le catastrofi, i rotolamenti
negli immensi venti in cerca
d’armonia – dei numeri armonia
e del sorridere beato

per le simmetrie concordi
e le metamorfosi e gli accordi
nelle bestie, uomini, mondi:
per questo scienziati e poeti

talvolta cercano descrivere
il mio corpo, madre di luce:
noi, gli dei, siamo atomi e stelle
dell’immaginazione.

O Blake, o Scabius, dite
di ascoltare il desiderio di amare: e quando
dopo il colmo della gioia l’odio torna, dite
che Afrodite no, non è assassina.

Insegnate a ridere di gioia
e desiderio e dolce voglia
e tenerezza: con me giocando
tutto si viene illuminando.”

Qui taceva sorridendo quella
Afrodite dea, da noi evocata:
c’era nell’aria profumo di viole
e cinguettio di passeri cantava

mentre lei spariva. Noi sbalorditi
per un po’ non osammo parlare: poi
Blake disse: “O Scabietòs, avevi ragione:
sono i poeti che fanno gli dei.”

“Sì e no, – dico. – “È la mente
che è piena di semi
infernali e divini.
Come tu ben sai gli dei

sono accovacciati là, in attesa
d’essere chiamati per nome,
pronti a diventare visione
secondo la nostra intenzione.

“Via,” – dice Blacchèus – “è l’ora di colazione:
yogurt con miele e frutti: guarda,
giungono i pullman, i turisti cominciano
a scendere sul mare

selfie
——–sperando
——————–sé con Afrodite
—————————————-fotografare.

Torna in alto