Giuliano
DEGO
Giuliano Dego è nato a Novate Mezzola, in provincia di Sondrio, nel 1932 ed è scomparso a Colico, in provincia di Lecco, nel 2020. È vissuto a Milano e, prima, in Gran Bretagna dove ha insegnato letteratura italiana per oltre trent’anni, nelle università di Glasgow, Leeds e Londra. Ha pubblicato di poesia: Solo l’ironia (introduzione di S. Quasimodo, Marotta, 1968), Lo stile di un amore (Rebellato, 1974), La storia in rima (London university press, 1974, e Edizioni Nuove Scritture, 2006), Il poema dell’aldilà (Ladolfi, 2014) anticipato da Ho registrato l’aldilà (Campanotto, 2007), Piume nel tempo (Ladolfi, 2015). Ha pubblicato l’antologia La svolta narrativa della poesia italiana (con L. Zaniboni e M. Straus, Edizioni Agielle, 1984). Ha tradotto il Don Juan di Byron in ottava rima. Ha realizzato in volume due lunghe interviste: Moravia (Oliver & Boyd, 1966) e Il buldog di legno: intervista a Eugenio Montale (Editori Riuniti, 1985). I suoi romanzi: L’uomo che mangiò il sole (Carrefour-London, 1975), L’ulcera (introduzione di G. Pampaloni, P. L. Rebellato, 1977), Il dottor Max (Rizzoli, 1999), Seren la Celta: giallo alla corte di Nerone (BUR, 2006), Il segreto di Duska (Ladolfi, 2015), Il mistero dell’ombra furtiva (Ladolfi, 2016). Suo il saggio: Moravia in bianco e nero: la vita, le opere, i viaggi (Casagrande, 2008).
https://it.wikipedia.org/wiki/Giuliano_Dego
POESIE
da SOLO L’IRONIA
Solo l’ironia
A Tarquinia, nei sepolcri etruschi
i morti sollevano tra le dita
un uovo, turgido di vita, e simbolo
di fecondo amore. Nella loro guancia
rotonda e nello sguardo misterioso,
mi dissero, erano visibili i segni
d’Armonia del reale, come altrove,
nei chiaroscuri di Rembrandt
o tra i versi e le meditazioni
dei poeti, era facile numerare
estasi, toccare il filo del Sublime.
Mi dissero anche che testimoniavano
il Bene agli uomini i mosaici,
gli archi a contrafforte delle cattedrali
i loro cori intagliati nel legno
e nella pietra, e l’arcobaleno
che brilla a fiore delle cascate
o nel pelo di volpi screziate
al filo tagliente della luna.
Allora non sapevo che solo l’ironia
può stabilire l’altezza della morte.
Il sangue delle Brontë
A Haworth nulla rimane
del sangue delle Brontë. Non parentele,
memorie d’amicizie. I vecchi del paese
parlano dell’insegna del Toro rosso
della sedia di legno dove il fratello
in delirio bruciò le viscere,
della tomba che illuminò di scherno
l’occhio mutato di Emily: – Sia benedetta
la polvere amica che nasconde il tuo capo
non rimpianto! Vano qual eri (e debole
quanto vano) schiavo del Falso
d’Orgoglio e di Dolore, il mio cuore
nulla divide con il tuo, la tua anima
non ha potere sulla mia! – Poi la memoria
di Branwell fece tenero il cuore
della pietà. Lei stessa ne seguì le orme
edera scabra ai margini di un sogno
o larva di seta che si allarga
nell’aldilà, senza sapere nulla
delle misure della vita.
Sei figli caddero nel giro di poche estati
aperte sul cimitero di erica e granito.
Accanto alle scarpe, al cucito,
ai segni della fame, una bacheca
mostra la pistola
che il padre scaricava all’alba,
monito, grottesco segno di potere.
Dachau
A Dachau il vento ha depositato
nell’eterno riposo
la selce, il quarzo, l’arenaria
insieme al carbone di uomini vivi. Non però il ricordo
dei predatori di razza
il cui gallo crestuto
domina ancora questi avanzi
di faccende
…per così dire umane.
Gli acrobati
Qualcuno, come il cervo, impara
la paura nell’alvo della madre,
impara la fuga perenne come sorte,
crede nel senso di una vita
quale sfida perenne della morte.
L’uomo invece raccoglie sulla carta
parole di dolore, ride o piange
da servo credendo di fare i conti
col Destino. Se esce talvolta
dai suoi muri, ride di scherno
a vecchine nordiche ilari
e azzurre che si dimenano
tra suoni di trombe
e di maracas, oppure a bambini
in madras coi capelli lunghi
e a bimbette op dattilografe
ninfomani. A Blackpool il twist
le colluttazioni e le cascate
di jongleurs volgari, sono macchine
di genocidio dell’uomo, come l’urlo
dei rockers, la loro droga
che sfoca la coscienza. Anything goes.
Ma sono loro gli acrobati destri
sul filo teso tra vita e morte
o tra la vita e la vergogna della vita.
da LO STILE DI UN AMORE
L’amico
Poiché la nausea affluisce al cuore dell’esistenza
poiché l’orrore penetra sino al cuore dell’inesistenza
un amico siede davanti all’opera compiuta, predica
lontane pazienze, ritenta
(truffatore persino di se stesso)
la creazione dell’ordine. È giusto. Neppure il moribondo
lacrima al proprio letto. I parenti
singhiozzano per lui.
Ancora svagate immagini
Ancora svagate immagini, essenze
di memoria. La città si sfiocca
come seta di edera leggera
e la tua chioma inclina
su fiordi di terra bruna. Ma ferma
è ora quest’aria che premeva
su isole nordiche verdemare, e le parole
della pena non trovano più eco. Mi pare,
cara, che il vento sia già chiaro
dell’ultimo colore, diradi nel riflesso
della sua furia intermittente
alternato da nubi in fuga tra screzi
chiari nel cielo che mi esilia. E se tu vivi,
l’esile gioco di quest’ora
all’orlo del tramonto dice qualcosa
cade nel sangue, può essere una gioia.
Parole a un padre
È un’aria di cristallo, le onde battono la riva
e il vento alza pianto
a schiocchi dai fili della tua stazione
di posteggio alla finestra della casa costruita
colle lacrime e l’umiltà di due vite. Al fondo
della tua tristezza il viso resta
pacato nella morte come quando dicesti: “Guarderemo
dal caldo della casa nuova il vento
sul lago nei mattini d’inverno.” Parlavi
l’unica tua lingua, padre, e anch’io dal fondo
del mio silenzio per questo
ed altro in dialetto ora rispondo alla tua forma
da poco stretta nella bara.
Quel caldo della casa, padre,
fu l’ultimo porto della nostra storia. Prima
ci furono la tua povera infanzia
giocata senza padre e i porti della Libia
e la guerriglia nel deserto e i camion che arrancavano
altissimi ai passi più alti delle Alpi portandosi
il tuo povero cuore. Poi vennero la guerra e il campo
di un’altra prigionia e l’ultimo “tuo regno”
di taxista sul lago. Restava l’abnegazione
di mia madre, ma esplose
anche cosí il tuo cuore alla vetrata di un’acqua
che già si avviava ad essere palude
stigia di gabbiani e plastica corrotta. Venne
in ritardo un medico losco di pustole sul viso, vide
e intascò. Ti lasciò solo con mia madre che urlavi,
vecchio. Solo con lei piegato dall’infarto
ti incamminasti per le scale, ripercorresti
l’ultima volta la strada del “tuo regno”.
Restano il vecchio taxi e il tuo giaccone
di pelle nera, il coltello arabo che volevi
regalare a nostra madre, ed è quasi finito
accanto ai tuoi disegni d’intarsio, l’orologio
e il cofanetto nero coi due lucchetti
che abbiamo tagliato per scoprirvi borsette
di pezza con qualche franco svizzero di carta
e molte monetine. Resta il ricordo di te
che all’ospedale hai urlato le ultime sei ore, qui
su questa terra, in una piena d’amore
per la vita. Non volevi morire, e un medico
non fu presente a dirti – a dire a lei-
almeno una parola. Così, padre,
dopo una vita di lavoro
dopo seimila anni di storia
anche tu sei finito.
da LA STORIA IN RIMA
Canto primo
1
Le vacche, i puttanier, la Gilda, gli odi,
le atrocità, le laide imprese io canto
degli anni cupi in cui i nostri custodi
su una stella a vicenda nocquer tanto
da bruciar gente o appenderla coi chiodi,
napalmizzarla, e infine darsi vanto
della carne sapone e, pari pari,
della pelle aver fatto lampadari.
2
Della stella dirò nel modo adatto
cose non dette in prosa mai né in rima.
Sol piacciati, lettor, di stare a un patto:
non chiedere pietà, oppure stima –
per me, per te. E non sperare tatto,
già troppo è lo schifo che mi lima:
ché ovunque andiamo, ormai, ci danno in sorte
odio e coca nel sangue – e in cuor la morte.
3
Per me non amo che un’idea dell’uomo,
ché l’uomo che conosco in carne ed ossa
mi sembra verniciato oggi di cromo,
e pronto, già addobbato per la fossa:
a Seveso sia essa, oppure in duomo,
dove si mangia Cristo e lo si indossa.
I miei altari sono le montagne,
le donne dalle cosce lunghe e stagne,
4
e l’aria, l’erba, i mari della stella,
e insomma ciò che nasce dal gran tutto
che, se ti ha dato mai anima bella,
il giorno la riprenderà del lutto
pei tuoi polmoni e per le tue budella,
ché ormai di inquinamento dappertutto
vediamo le vestigia e la vittoria –
e siamo ancora… sì, pieni di boria.
5
Quali tecniche uguali sanno usare
due mondi opposti (a pancia piena – e vuota)!
L’uno fa nasi nuovi e a carezzare
va le spalle dell’altro, il che denota
che l’altro ha una gran voglia di imparare
a sudare per qualche banconota –
per far bolle di cicca e, guarda caso,
rifarsi un giorno, come il primo, il naso.
6
Vogliono entrambi pane senza crusca
(e il galvanismo fa ghignar cadaveri),
e quando un mondo fa una svolta brusca
dal rosso al rosa, a pro dei Gran Papaveri,
l’altro anche il rosa al nerofumo offusca,
prendendo l’universo per i baveri.
Sì, pure sulla luna oggi troviamo
merda in sacchetti – ad opera di Adamo.
7
Si disse: “Viene un grande da Pechino…”
(Ma è già avanti sul viale del ritorno.)
“Grande è il popolo” dicono “giallino.
Gli propiniamo Pepsi con contorno
di hamburger, o a sfoltirlo per benino
più efficace è la Gilda?” Già, oggigiorno
non c’è bambino obeso che non sa
che il secco così impara civiltà.
8
Questa è un’età patente di nozioni
(schifano i corpi per salvare l’anima)
incoraggiate con bieche intenzioni
da chi fa dalla tele la disanima
di quanto è buono il pollo con gli ormoni,
e il ricordo del papa poi rianima
in tal leppo d’arrosti e santità
che tubiamo: “Che magnanimità!”
9
L’uomo è un fenomeno (lo sai, com’è!)
meraviglioso oltre ogni umano dire.
Peccato che alla luce ogni bebè
sia venuto a patire – e poi morire.
Molti invano si battono affinché
non sia il dollaro scopo d’ogni ardire.
Lungo strade a bordelli e ammazzatoi,
lo scopo resta – e noi crepiamo. E poi?
10
Poi cosa? Io non lo so – né lo sai tu.
Ma il cielo sì. Bah, meglio raccontare!
È il 7 marzo, e in sala già il cucù
batte le 5. Oltre il Tamigi e il mare,
le mie montagne, sopra il manto blu,
riescono, lo so, ancora a sfoggiare
cappucci bianchi, puri e immacolati.
(Io fui romantico, lettor bennati.)
11
Da un minuto al telefono mia madre
mi ha detto che laggiù, al lago, c’è vento,
quel vento ad onde gonfie, eppur leggiadre,
che da ragazzo era per me un portento.
Dal caldo della casa anche mio padre
ci faceva, d’inverno, il suo commento.
Tra noi fu sempre a sillabe – il rapporto.
Ora è concluso – perché il padre è morto.
12
E l’onda batte ancora sulle rocce
e bolle sui frangenti e contro il molo.
Ripenso a due olandesi alte e bellocce
ed al vecchio Benito, barcaiolo,
quando si andava in barca a far bisbocce
di olive e vino – e lui prese lo scolo.
Per me fu la mia estate: eccezionale
(da provinciale ancor sentimentale).
13
Il vento a Londra è roba da Bernacca.
Soffia dal mare, senza luna o stelle.
A raffiche. Ma è un vento mezzatacca,
rotto da mura e antenne, da putrelle,
qui fuori, a Soho, dove su ogni placca
c’è scritto: Senza slip sette gonnelle
fan marachelle, o: Melody, che ha orecchio,
il flauto insegna al giovinotto e al vecchio.
14
Ma dicevo del vento. C’è anche neve,
a raffiche nel vento, ma diversa
dalla neve di marzo che alla pieve,
laggiù sul Lario, a turbini conversa
coi platani, mentre il suo litro beve
al bar il barcaiolo, e tergiversa,
guardando le onde bianche. Anche a me piace
giocare a carte, e il vino, e esser loquace.
15
Peccato che ora soffra di duodeno,
e che da qualche tempo mi ritrovi
a parlar poco. Un alchimista (osceno
sorrisetto tra cuffie e cromi nuovi)
un tubo mi ha infilato, nientemeno,
nello stomaco. Dicono che giovi,
ma non ha visto, con l’endoscopia,
alcuna vecchia (o nuova) anomalia.
16
“I sintomi dell’ulcera” mi ha detto
“c’è chi senza aver l’ulcera li sente.”
Senz’altro un ragionar più che perfetto –
dal momento che il medico non mente.
Si vede che il mio male è un amoretto
che intrattengo in segreto. Giustamente,
mi svegliano la notte, anche più volte,
un duodeno e due cosce capovolte.
17
Lettor savio dei nostri sobri climi,
questo modo di scrivere ti pare
esotico, a dir poco: ché i bei mimi
della tua brutta cronaca incastrare
ti han saputo a dovere – e ancor li stimi.
I poeti per secoli ad amare
ti hanno insegnato cavalieri e dame,
e re e giganti – e il resto del ciarpame.
18
Ma si tratta di temi un po’ obsoleti,
e per “tirare”, come Sciesa, “innanzi”
(verso… che cosa?) fatti più concreti
ti canterò – costì e in altri romanzi.
Mi accuserai che ai molti infetti feti
di madri fumatrici dopo i pranzi
voglia toglier la gioia della luce
con una fiaba malazzata e truce,
19
e inoltre che abbia piani contro i credi
e la morale (sic!) del mezzo globo
che abbiamo in sorte quali leccapiedi
d’un Ronny, l’Arlecchino fatto probo.
Ma prima che qualcun mi spari, o schedi,
provar voglio (la Musa tira il lobo
del mio orecchio per dirmi di cantare)
che di cacca viviamo in un gran mare.