Alfredo Giuliani era nato a Lombaroccio, in provincia di Pesaro Urbino, nel 1924 e viveva a Roma, dove è morto nel 2007. Si era laureato in filosofia nel 1949 con una tesi su Carlo Michelstaedter. Lavorò per alcuni anni nell'ufficio stampa di un ente statale e in seguito si dedicò all'insegnamento: letteratura italiana moderna e contemporanea presso il DAMS di Bologna e in seguito presso la Facoltà di Lettere dell'Università di Chieti. Negli anni cinquanta iniziò ad occuparsi, come critico militante, della rubrica di poesia sulla rivista "Il Verri” di Luciano Anceschi, con il quale fu amico, e continuò con impegno questa attività fino al 1961. Nel 1955 venne pubblicata la sua prima raccolta di versi dal titolo Il cuore zoppo, a cui seguirono: Povera Juliet e altre poesie (Feltrinelli 1965), Il tautofono (Scheiwiller 1969), Chi l'avrebbe detto (Einaudi 1973), Nostro padre Ubu (Cooperativa Scrittori 1977), Versi e non versi (Feltrinelli 1986), Ebbrezza di placamenti (Manni 1993), Furia serena. Opere scelte (Anterem 2004), Dal diario di Max. Pensieri e ridevoli patacchi (Marini 2006). Fece parte del Gruppo 63 e nel 1961 curò la pubblicazione dell'antologia I novissimi, uno dei testi fondamentali della neoavanguardia, nella quale sono raccolte sue poesie accanto a quelle di Edoardo Sanguineti, Elio Pagliarani, Antonio Porta e Nanni Balestrini. Fu direttore responsabile della rivista del Gruppo 63 Quindici fondata a Roma nel 1967 e collaborò al quotidiano La Repubblica e alle riviste Il cavallo di Troia, Testuale e Gradiva. Nel 1970 ha pubblicato per Einaudi un suo racconto in prosa della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso e nel 1972 da Adelphi il romanzo Il giovane Max. I saggi sono raccolti in Le droghe di Marsiglia (Adelphi 1977) e Autunno del Novecento. Cronache di letteratura (Feltrinelli 1984). Ha tradotto opere in versi e in prosa di James Joyce, Dylan Thomas, Edwin Arlington Robinson, Ben Jonson, Alfred Jarry, Henri Michaux, Thomas Stearns Eliot e il Pericle di William Shakespeare.
Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Alfredo_Giuliani
Treccani http://www.treccani.it/enciclopedia/alfredo-giuliani/
POESIE
da VERSI E CONVERSI
La
cara contraddizione
Illesi,
piaga o errore non badiamo.
Spande il sangue prodigio degli
anni.
Azzurri i selciati dell'alba.
Circonclude il
tramonto noi che tramontiamo.
Impaziente, paziente sempre il
ritmo s'attarda
e conviene al presente fedele. I vuoti
son
pieni, realtà fantasma realmente.
Vivere, lungo lungo l'attimo è
buona guardia.
Distinzione di fini riconosce uguale,
getta
via la paura la cara contraddizione,
del passo incespico fa una
danza.
Ritorce l'offesa un dolore speciale.
Insaziato
groviglio di ciò che non accade,
tenerezze orribili della
mediocrità.
Il naufrago è onorato con il suo rottame,
il
malcompiuto un flusso storico pervade.
Violenza di pulcinella,
disciplina da caporale.
L'avida smorfia è tuttofare e disfare.
Di
sorte in sorte la spola s'incanta,
il meglio viene vestito del
male.
Come il malato nel giardino dell'ospedale,
nel paese
dell'anima va tedioso lo spettro;
confuso dalla brezza e dai
colori della nube,
il mistero aborre le corsie
dell'abissale.
Morire, come vorresti? Fare ponte al
passaggio.
Non corteo d'elezione, non pietoso trapasso;
né
contesa né approccio aver rinviato,
mancanza supplita con spurio
coraggio.
Tutto a grazia e giustizia aver innalzato
in
continuato fervore e riparazione;
i mostri dell'infanzia, le
fioche persone,
nel volo mancino obblighi e colpe rovesciato.
A
che servono i grimaldelli la ruggine la chiave,
il crepitio delle
cicale nel crogiolo dell'estate?
Esplodono i gonfi propositi nel
cuore, il cane latra
alla porta, la luna appende un riflesso alla
trave.
C'è un'avventura che si chiama ragione,
margine
della misura e dello smisurato.
La prima idea fu l'evento, stupore
proclamato
d'essere e tempo nella coniugazione.
Recita un
grido, adora un albero di vita,
pensa l'opera immane l'eroe nella
desolazione.
Nell'agonia dell'ozio il dio ironico
l'ossessione
che agì immune ricompensa.
Tenebra splende nel delirio
aperto,
l'aversi al dare si conforma.
Sotto le palpebre la
combustione del tatto.
Vita in morte, che sconcerto.
Molti
nomi ha la terra. Pochi suoni
colmano l'ora, traboccano per
dire
alla viva quiete moto rivelazione
di semi e figure che
subito abbandoni.
Parola fu in origine voce dell'assente;
né
tu l'ignori che, l'ombra capovolta,
scendi per l'aria ferita dal
rombo dei motori
e tumultuare ascolti dal muto
frangente.
Enfatica è l'unione del passo e della strada,
o
sommessa nella felpa cauta e ansiosa,
o sotto la selce perduta;
perduta nella febbre
che solleva i talloni, la voce palpita,
richiama.
Viene l'enorme silenzio da sorpassare,
inevidenza
assoluta s'accende nei dilegui.
Non sapere dove la svolta
conduce
è il modo buono di pensare.
Vagabonda scarabocchia
la terra,
chi ha temprato la punta alla mente?
La carta vetrata
dei giochi, l'adulto coltello
che sbucciò l'evidenza dal
niente.
Corpus.
Frammenti di autobiografia
1.
Il
vecchio Corpus che generò mio padre era nobile e pratico
e gli
piaceva vivere con fantasia e agio; la nonna, plebea
d'estrazione
e borghese nel fatto: congiunzione e patto
di curiose divergenze.
da un ramo provenne generosa amabilità
e solida stravaganza;
dall'altro ambizione e sospetto. Penso:
la plebe da cui sorgeva la
nonna era giunte troppo presto
al traguardo; prepotente e
impreparata al peggio.
Si spiega che la nonna, quando restò
vedova (il nonno morì
di colpo a cinquant'anni), non seppe che
sciupare il denaro,
dispotica per amore dei figli. La rovina
economica fu rapida.
Per mio padre sposarsi non fu
un'esperienza. Né cattivo, né buono;
né stupido, né
intelligente. Buon cacciatore, ignora ugualmente
verità e
pregiudizi; un ragazzo vivace che pigrizia e talento
per la musica
(gli fu poi utilissimo), han cresciuto leggero
e mondato d'ogni
sentire e turbarsi troppo intenso. Così sposò,
perché era
bella, Annetta, la mite ardente, preda scovata in una caccia
nel
paese accanto, fresco di mare colline e fattorie. La vedo
in una
foto del '23 (?), vestita di un morbido saio bruno, cinto
alla
vita da un candido cordone francescano. Una moda
della provincia
dannunziana.
2.
Intanto che disputavano sul mio
stato e sulla famiglia spezzata,
fui messo in un collegio di preti
e mi trovai orfano, derelitto
nonostante si giocasse al pallone e
l'altalena nel campo
dondolasse i dolori, e m'ammalai tanto che
non finii l'anno;
né dissi mai del prete finocchio che a notte
scivolava tra i letti
cercando sotto le coperte i piccoli membri
da masturbare,
e come mi ritrassi e mi lasciò stare però
odiandomi perché ero bello
come una ragazzina e tenero
d'abbandono; mi sentivo una colpa
addosso e volevo fuggire,
sognavo un tunnel buio d'angoscia
dove andavo infinito.
3.
Un
anno mio padre mantenne me e la nonna in una camera d'affitto
nel
quartiere dei Giardini. La casa era lambita dai terreni
da
vendere. La piazza del quartiere era un ventaglio ai piedi
della
collina percorsa da un groviglio di rughe verdi e brune.
Cancellate
stringevano case e giardini, facevano mistero
d'ogni angolo
abitato, sentieri bizzarri e selvatici a una svolta
bruscamente si
spezzavano. E si correva contro un muro, o
giù per soffici ripe e
declivi a caccia di cavallette, alla cattura
dei grilli. Isole. E
già l'amore macchiava di rosso le fronti
bambine, segreti per una
dodicenne, per una veste bianca
dietro i cancelli, nel chiasso,
nei canti delle sere d'estate.
Non si sapeva, e c'era uno
struggimento, una rapina nei fiumi
del sangue piccino intorno alle
segrete isole del tatto.
La notte il tonfo affascinante delle
betoniere
covava la casa addormentata.
4.
Corpus,
vuota il sacco, il peso delle parole morte cade addosso
al
prudente. Prendere l'amore è nulla, ritrovarlo
è un milione di
cose e una sola, terribile e lunga.
Da allora ero sempre
innamorato. Portavo il mio soffrire
come una buia lanterna nel
giorno che la notte, ogni notte,
fiammeggiava, come il ponte
sognato sotto i passi del cuore
che voleva attraversarlo per
raggiungere mia madre.
E lei giungeva, bella amata e dolorosa, al
bimbo bisognoso
di lei sopra ogni altra cosa, ma senza sapere che
il suo dolore
era anche il suo amore. Tra di noi c'era un muro
di
sofferenza indicibile, una gioia di lacrime, una fuga, un bene
mai
detto, rappreso intorno ai giochi e ai segreti.
Ti piacerebbe
cambiare di casa, andare a vivere in città
con la mamma? Le sue
parole erano troppo reali, paurose,
la mamma era reale e non
restava come un gioco dolce e sicuro,
ma sempre tornava e se ne
andava via sofferta e desiderata.
5.
Ciò che
introduce all'estremo lembo del percepire
è uguale - coito morte
e dolore - all'esplosione della luce,
ma portare questo buio
veloce al confronto con la parola
è forse l'agire di un dio
(pollicitus est ut abitaret
in caligine) - così vogliamo credere
nel mito
6.
un giorno scoprii che puzzavo come la
nonna
7.
Sballottata da opposti impulsi,
periodicamente
la madre minacciava di andarsene,
il ragazzo
imparò a diffidarne, staccarsene, imparò la pietà
e il rancore,
la sospensione degli affetti, l'ironia ostinata.
8.
Nei
tardi pomeriggi di quegli anni, inforcato
il cappello nero di
paglia sulle tracce a torciglio
sopra le orecchie, la nonna
trascinava il bimbo
alle novene o al maggio mariano.
Renitente
all'assurda costrizione dei ginocchi, stranito di
noia,
trattenevo gli scalpiti del cuore nell'odore stordente
di
cera e d'incenso tra i mormorii paurosi delle litanie
echeggianti
sotto le navate fino al soffitto altissimo.
Lugubre saliva e
scendeva la voce falsa e simbolica
del predicatore. La nonna
brontolava preghiere, ingobbita,
le mani raccolte sulla fronte
sgranava il rosario.
A volte sentivo le rondini garrire a picco
sui finestroni
mentre il cielo struggente imbruniva. Oppure
girovagavo
per le navate fioche e irte di lisci meandri tra i
pilastri
freddi a toccare, tra i riverberi delle sante
candele.
9.
La passione di leggere, correre nel
vento, popolare
di storie i giardini striminziti delle piazze di
periferia,
essere capo di ragazzi, tramare ciò che amavo nei
libri,
giochi furfanti libera vita strade d'avventura tipi
segreti.
E come era acerba e liscia a baciare con casta
ignoranza
la sorella del compagno, mentre già si cercava dal
vano
d'una finestra lo sguardo-ombra misterioso della ragazza
più
grande.
10.
Nel salotto rococò tappezzato di
damasco giallo,
presso il panciuto scrittoio stava lo zio
Corpus,
un po' sghembo, in papalina rossa e vestaglione
color
tabacco, le mani rosee sui braccioli della poltrona.
Arido tepore
nel primo pomeriggio d'inverno. Luce
di neutra meditazione sulla
faccia prelatizia; la fronte
rotonda e ostinata, il naso carnoso
ricurvo, larghe
labbra rilevate da un disegno grasso, gli occhi
glauchi,
lo zio Corpus destava il senso d'una saggezza
inanimata.
Ordinata e futile ridondanza del salotto, che al
ragazzo
intimava di farsi più piccolo, curvare le spalle e
le
ginocchia. Entrando sentiva estraneità e obbligo.
11.
Amo
i gabbiani, pensarli quando al tramonto tornano le barche
della
pesca le avanzano i gabbiani e intorno trasvolano voci
d'ali
bianche, allegri e affamati, ma non entrano in porto
e li vedi nel
pallore della sera riprendere il largo della baia.
Scortiamo i
caldi saputi pensieri al loro porto, la mente
è universo per
gabbiani e barche e pesci morti.
12.
Tu verità
parola di ferro ruggine e chiave
apri la porta che soffia un
tallone di vento
sulla testa di legno la candela sta sopra le
botte
in cantina e il muschio è un guanto d'erba
sulla fronte
incatramata scioglimi da tutta l'eredità
cigola sugli errori
porta e mandami incontro
il mio spettro.