Giovanni
PARRINI
Giovanni Parrini è nato nel 1957 a Firenze, dove vive e lavora. Ha pubblicato le seguenti raccolte di poesia: Nel viaggio (Lietocolle, 2006, prefazione di Neuro Bonifazi); Tra segni e sogni (Manni, 2006, prefazione di Maurizio Cucchi); Nell’oltre delle cose (Interlinea 2011, prefazione di Giovanna Ioli, Premio Mario Luzi); Valichi (Moretti & Vitali, 2015, prefazione di Giancarlo Pontiggia, Premio Giuria-Viareggio), L’occasione e l’oblio (Stampa2009, Varese, 2019). Sue poesie sono presenti sull’Almanacco dello Specchio (a cura di Maurizio Cucchi, Mondadori, 2011), Poesia (Le misure del cielo, n° 284, a cura di Maria Grazia Calandrone, Crocetti Editore, 2013), Nuovi Argomenti (Tra poco, nell’aurora, n° 73, 2016), Gradiva (Antico cascinale, n° 55, 2019). Collabora a varie riviste e blog fra cui “Caffé Michelangiolo”, “Poesia” , “L’immaginazione”, “Letteratitudine”.
POESIE
da NELL’OTRE DELLE COSE
Parallela a noi
c’è una traccia che va,
se puoi, osservala,
accostati, ma con delicatezza,
con l’umiltà che non cancelli il suo tratto di luce,
quello che ci conduce,
quando ne disperiamo,
per strade impervie e malcerte presenze,
a sorprenderci se una stilla d’oro
si tiene al leno verde, che fa breccia
nel ciglio dell’asfalto,
oppure riconosci quella traccia,
nel qualunque procedere,
quando i cavi da migliaia di Volt
all’improvviso, sono uno spartito gigantesco,
da traliccio a traliccio,
con pause d’aria e per note fringuelli.
Al desco, circa un metro quadro, morto, di plastica traslucida,
la fantasia riesce a sfuggire, a volte,
dai riti scoloriti della sosta,
sente un’allegoria
nel brulichio indistinto,
la vede nelle fionde dei convulsi carichi,
che sfrecciano nel vetro
affacciato allo scialbo scenario autostradale,
alla marcia obbligata, indifferente,
che a ciascuno significa un inizio preciso,
una data conclusione,
così come deve essere,
parziali,
non potendosi vedere i segnali
della direttrice estrema,
su cui partenza e arrivo sono identici.
Se sono plausibile,
e posso reperire ancora un mio significato,
svincolato magari da quello che c’è intorno,
non so: dovrei fidarmi
– siccome ne discuto –
della mano divina, cosiddetta,
che autentica la gamma
estesa dalla blatta fino alla supernova,
(ivi semmai includendomi)
con un atto illeggibile. Si esiste?
non è ovvio,
latita a volte
il logos,
che disastra e classifica,
ordina. O si è?
È un’opinione, una domanda, alla fine
e dobbiamo tenercela,
frutto perenne d’una infausta parvenza
dagli aditi ingannevoli agli arcani
del congegno universale.
Il fasto del momento,
nel riflesso del fiume,
è una trasparenza,
un decoro di maglie lattescenti
tra le pietre degli archi, che sanno
quanto è passato, tornato,
immagine ondeggiante,
tuffata all’incontrario nell’azzurro,
al quale i rami si sono piegati,
e gli sguardi e le braccia,
tutto lo sperpero delle stagioni,
sfatte a un’increspatura,
spente piano nel cerchio che s’allarga
e tornate a raccontarsi
nella pioggia, una notte.
Al colmo di un ricordo,
tutto diventa uguale,
non ha senso,
o ce l’ha e non lo sai:
basta un sospiro, che ti si confondono
la rinuncia e il motivo,
tratti diversi a una stessa sembianza:
erano giochi sfrenati sul prato,
flanella appiccicata alla pelle sudata,
corsa, pallone, un due tre stella, alberi,
che dalla scorza assorbivano l’odore
del fiato e delle lappole,
sono fantasie di scarabocchi
e una macchia, il cielo,
caldo, tra foglio e gota.
Il nostro mondo,
un mappamondo logoro,
scolorito, pieno di botte micidiali
– non quelle che gli tiri coi piedi grassottelli,
tenendotelo sulle ginocchia arrossate,
e poi fai nuovamente rotolare,
sbattere alle pareti –
se sapesse la tua manina morbida,
ombra sopra i deserti,
e quell’indice roseo che lo scorre, veloce,
puntando il luogo magico che cambia
sempre tutte le storie
brutte in favole per addormentarcisi,
allora, io la vorrei una terra così,
la gravità all’occorrenza zero,
l’orbita mezza storta sul tappeto,
e il cammino che riprende domani
dal segno a pennarello,
tanto la notte è dolce, tanto vegliano
sulla coperta il panda e il gatto blu.
Proprio quando è difficile
oramai sostenerla,
pure soltanto pensarla,
lei s’inerpica,
è vita,
io l’ho guardata
nel mix d’ansia e di ioni – un lago chiaro,
largo una bottiglietta,
profondo sì e no dieci centimetri –
fluire piano, attendere,
e quasi non ci credi,
se una mano ne cerca già un’altra,
un passo si affatica,
le labbra si dischiudono in un nome:
forse allora il motivo è davvero alto,
sta dappertutto: dentro i materassi, nelle lenzuola,
nella stoffa dei camici, nei grafici
verdi che, oscillando, copiano
i tracciati dell’anima, affidata
non a questo triage,
a uno differente, imperscrutabile.
Ora, mi avverte adulto nelle sue fibre rugginose,
sembra mi riconosca,
il cancello che faccio sbandierare,
due, tre, volte con me sopra: è domenica
intrisa di voci che mi chiamano ancora,
di campane d’allora, che spandevano
onde di bronzo, rituali paesani.
Sarò un bambino,
lo so, ma il vento porta le parole
che per me gli lasciasti
e il tuo volto è una trama
di trasparenze azzurre.
da TRA SEGNI E SOGNI
Cada cosa (la luna del espejo, digamos)
era infinitas cosas, porque yo claramente
la veía desde todos los puntos del universo
Jorge Luis Borges, El Aleph
Senza un dove,
né un quando,
ma dappertutto, al termine di questo
appuntamento al buio,
ci deve essere un volto,
estremo, unico ai volti, un solo intreccio
di materia e di forma,
un punto in cui anche l’ultimo diaframma
tra verità ed errore,
tra nome e cosa, infine, si disintegra.
Che vocativo umile
il silenzio del gelo nel rifarsi
la vita strenuamente!
Il nonnulla passato negli amplessi
delle vane occasioni
– crocevia di formiche, d’api, d’uomini –
è l’arpeggio dei rami denudati,
la mistica scintilla senza meta:
per una cruna occulta
filerà trasparente
l’oscura meraviglia del soqquadro.
L’invenzione del mondo non è limpida,
c’è qualcosa di storto,
un atomo scordato
dal conto, se la lotta non s’estingue,
non volge al peggio, al meglio,
e tutte le mattine, da capo si apparecchiano
attrazioni pungenti,
e correnti sensuali,
cui a malapena tiene testa un ethos,
che ci porta più in alto,
sopra la messinscena, l’impostura
d’arcobaleni o baci,
ci inertizza – ma solo un po’ – al comando
di codici sentiti,
nel fondo delle vene.
Che catastrofe eterna, l’immanenza,
essenza fatta schema
ritmo, attesa!
Nel fondale superbo
tutto è così sfrontatamente vero
tremendamente falso,
o, peggio ancora, né l’uno, né l’altro.
Da mille chicchi d’oro alla farina,
amori e guerre.
E fu sudore e polvere,
fu tomba sigillata sotto il fuoco
di numeri perfetti, senza scopo.
Meglio fermarsi un poco
dove la penna indugia, e lascia correre
il pensiero più avanti,
fino ad un punto intatto, immaginato
dove riposa quello che sarà
tutt’uno, volo ed ala, nido e nuvole.
Se non che nel periodo,
stremata la “e” fantastica,
la copula mancò tra il segno e il sogno,
tra il passo ed il trapasso: era già solco,
il rigo, era memoria
che andò, precipitando, in una bianca
voragine, con me.