Gian Pietro
LUCINI

Gian Pietro Lucini è nato a Milano nel 1867 ed è scomparso per una grave forma di tubercolosi ossea a Breglia, sul Lago di Como, nel 1914. Voce d’avanguardia, tra la Scapigliatura e il Simbolismo e il Futurismo, le sue raccolte di poesia sono: Il libro delle figurazioni ideali (1894), Il libro delle immagini terrene (1898), La nenia al bimbo di un Ci-Devant (1898), Il monologo di Florindo (1898), Il monologo di Rosaura (1898), I monologhi di Pierrot (1898), L’intermezzo dell’Arlecchinata (1898) La ballata di Carmen Monarchia corifea di Café Chantant (1900), Elogio di Varazze (1907), Per una vecchia croce di ferro. Tre liriche con disegni di Carlo Agazzi (1908), Revolverate (prefazione di Filippo Tommaso Marinetti, 1909), Carme di angoscia e di Speranza (1909) La solita canzone di Melibeo (1910), Parade, seguito da un dialogo notturno tra il passante e la passante (a cura di T. Grandi,1967), Le antitesi e le perversità (a cura di G.Viazzi, 1970), Esperienze d’amore del Melibeo (a cura di Terenzio Grandi, 1976), Revolverate e Nuove Revolverate (a cura di Edoardo Sanguineti, 1975).

https://it.wikipedia.org/wiki/Gian_Pietro_Lucini

http://www.treccani.it/enciclopedia/gian-pietro-lucini/

POESIE

Per chi?
Per chi volli raccogliere
questo mazzo di fiori selvaggi
stringerli in fascio nel gambo spinoso ed acerbo?

Tutti i fiori vi sono di sangue e di lacrime
raccolti lungo le siepi delle lunge strade;
dentro le forre delle boscaglie impervie;
sui muri sgretolati delle capanne lebbrose;
lunghesso i margini che lambe e impingua
il rivolo inquinato dai veleni.
decorso dal sobborgo alla campagna.
Tutti i fiori vi son, che, pei giardini urbani e decaduti,
tra le muffe e i funghi, s’ammalan da morirne,
e gli altri che sboccian sfacciati e sgargianti,
penduli al davanzale d’equivoci balconi meretrici:
tutti i fiori cresciuti col sangue e colle lacrime ai detriti.
Per chi io canto questi fiori plebei e consacrati
dal martirio plebeo innominato,
in codesto sdegnoso rifiuto di prosodia,
per l’odio e per l’amore,
per l’angoscia e la gioia,
e pel ricordo e la maledizione,
per la speranza acuta alla vendicazione?
Ed è per voi, acefale ed oscure falangi,
uscite da un limbo di nebie e di fiumi,
tra il vacillar di fiamme porporine, in sulla sera,
da portici tozzi e sospetti di nere officine?
ed è per voi, pei quali non sorride il sole,
schiavi curvi alla terra, che vi porta,
e rinnovate al torneo dell’armata,
ma non vi nutre, vostra?
ed è per voi, pallide teorie impietosite
di giovani, di vecchie e di bambine
inquiete tra la fède e i desiderii,
tra la tentazione della ricca città
e il pudor permaloso della verginità?

Per chi, per chi, questa lirica nuova,
che bestemmia, sorride, condanna e sogghigna,
accento sonoro e composto dell’anima mia,
contro a tutti, ribelle e superbo,
in codesto rifiuto imperiale d’astrusa prosodia?…

Espettorazioni di un tisico alla luna
Luna,
luogo comune delli sfaccendati;
in ogni prova prosodica
facile rima ai sonetti romantici;
belletti e vernice sentimentale alla bionda e alla bruna
per gustar la primizia dei contatti antematrimoniali;
lenocinio archetipo alle adultere;
mezza maschera vuota di simboli;
tegghia d’ottone a friggervi i capricci di Diana;
crachat maggiore allo stomaco immedagliato del cielo;
Luna, ho creduto in te;
al tuo patrocinio incappai nella ragna tesa
da due sguardi e da quattro parolette,
buscai solennemente
d’una verginità posticcia e macra
l’imberciatura classica.

Luna,
clorotica fortuna d’argento a navigare,
della tua faccia mi feci un altare:
vi ho deposto, in offerta, le più tirchie ed amare soddisfazioni
de’ miei sensi impotenti e castigati,
tutto quanto lasciai, con falsa umiltà,
alle gioie del mondo,
alla tentata e recusatasi felicità.

Luna,
il mio cuore ti sospira e si svuota
d’amarezze e ti vomita bestemmie:
sono un povero tisico che rece
coi coaguli rossi il suo buon cuore.

Luna,
balzata sul palcoscenico del firmamento,
mongolfiera celeste in convulsione sorretta dal vento,
simulata matrice in gestazione,
per scodellarci questa Primavera;
ho vergogna di te che, senza velo,
balli la danza del ventre sul cielo.

Occhiaccio strabico e permaloso,
sbìrciami in terra, sono il tuo sposo;
sogguarda dalla palpebra rossa e purulenta.
Testé, fosti uno specchio verdognolo
gobbuto ad occidente
di un’acida e bacata melarancia:
sarai libidinosa bocca spalancata,
con lunga lingua di luce a imbavare
i bei fianchi alle Nubi vaghe e strane,
prone al divano dell’orizzonte
callipigie e impudiche cortigiane.

Questo a te, questo a me
il contagio riserba alla fregola:
anche sopra le cime della notte
stirano e snodano le membra erette dal peplo le Nubi
pazze e infeconde, convulse e corrotte.

Luna,
civetta ipocrita a starnazzare
per l’aja insabbiata di stelle
fra il Carro e lo Scorpione,
sopra il catarro e il colascione della poesia classica,
ho le vertigini, non guardarmi più.
Un giovane impotente e smidollato ti squadra le fiche,
Luna smorta, o sorella,
oggi compunta e avvelenata
dispensatrice di atroci virtù.

La canzone del Giovane Signore
«……………………….
Io sono tutto qui, o Signori, vi esprimo;
fiero protezionista ed uomo d’ordine,
non vado in chiesa e pregio la Santa Religione;
vanto il liberalismo del Corrier della Sera vescovile,
e mi reggo col soldo, colla legge e la truffa:
calo la buffa nelle lotte civili per non farmi conoscere;
uso de’ prestanomi in losche società.
Desidero morir, come conviensi,
paralitico osceno, salvando la morale,
l’occhio spento, le mani rattratte,
cencio d’uomo sbiancato e miserabile,
a pubblica e lodata edificazione,
colla assistenza estrema dell’estrema unzione
e magna pompa di funerale.
……………………………………..
Riavvolto nelle pieghe del gonfalone,
il volto glabro, pallido d’emozione,
ben pettinato e biondo d’acqua ossigenata,
prezioso ostensorio, per antonomasia,
vero Padrone,
sono il campione dell’italianità.
La mia tuba risplende come per gemme rare
col triplice riflesso dei moerri:
porto la tuba come una tiara, meglio di una corona,
nelle permesse dimostrazioni
al patrocinio armato delli sgherri».

Canzone, compiaciti, accogli il Peana.
Ama, riamato, questo signore.
L’estetica si gode de’ baffi provocanti,
dell’adipe compressa e castigata dai panciotti bianchi,
dai financiers sapienti lusingatori,
come nei cimiteri ai bei sarcofaghi,
che serran le carogne, si compiacciono i fiori.
……………………………………….
Bada e rifletti, Canzone, in cortesia;
ripeti sempre la palinodia:
«Il Galantuomo viva della propria onestà:
dopo di noi il diluvio! Sarà quel che sarà!.»

Favoletta di un gallo
……………………………
Il Gallo canta ancora per tutto il vicinato
il suo rosso peccato sobillatore.
Grida:«Chiricchichì, sono la turbolenza
tra i timidi animali;
ho rejetto le greppie officiali,
che ci impinguano, ma che ci evirano.
Mi rifiuto alla pentola borghese;
sfoggio queste pretese d’insegnare il mio canto
a tutti quanti. Grassa truppa mi fa d’avvisatore,
epe tonde e spaventate
si rivoltano dentro allo strame.
Ma il mio duro corpaccio
vi sta inanzi ad impaccio.
Che mi direte un dì,
se dietro alla fanfara del mio chiricchichì
procederà una schiera di Galletti
ribelli, indomiti e schietti?

Io son fiero e tenace cantatore,
son l’instancabile vigilatore,
avviso di lontano, il nibbio, la faina, la volpe, il traditore;
noto e bandisco le colpe d’altrui;
guerriero senza macchia, forse donchisciottesco,
trombetto all’aer fresco la diana;
porto corazza, gorgera e cimiero,
sproni, e, nel rostro, lucida partigiana;
e piume rosse e nere
».

Il Gallo canta ancora
rivolto all’aurora.

Nuova ballata in onore delli Imbecilli di tutti i Paesi
…………………………………….
Conosco l’Imbecilli delle Antologie, colle malinconie
di castrare le statue e le liriche,
e di sciupare, nella melma, i fiori.

Ho visto l’Imbecille a discutere Iddio
senza averlo cercato ne’ fornelli chimici.

Ho visto molti Imbecilli canori come sciacalli
che giuocavan, sui dadi, la prima nota e l’ultima
di certe canzoni peregrine non composte ancora.

Ho visto l’Imbecilli letterati, spudorati
per le loro sciocchezze, menarne vanto,
come un incanto d’errori di sintassi e di gramatica.

Ho visto l’Imbecille al Finimondo,
l’Imbecilli politici, statisti e arringa-popoli,
sfacciati ed imprudenti, stolti e paralitici.

Tra l’Imbecilli e i Coccodrilli è poca distinzione:
la Storia Naturale spiega il Natale
dell’una e dell’altra bestia:
dal fango delle inondazioni.

L’Imbecilli si soffiano il naso:
noi non siam persuasi della loro onestà.

Soffiansi il naso ed asciugansi l’occhi:
queste lustre alli sciocchi fanno di sicurtà.

Piangono l’Imbecilli; non ci credete;
la cattiveria tira le cuoja all’ignoranza,
ma sopra a quanto avanza,
combinano un grazioso giuocherello;
preparano il giubbetto a chi diffida,
al rosso farsetto
stiran le vertebre.

L’Imbecilli hanno il catarro:
essi aggiogano al carro, invece de’ pazienti buoi,
l’eroi dell’a venire.

Ho veduto dei grandi Imbecilli
girar poc’anzi a stuolo per il mio paese,
molte pretese sciorinando al Sole.

Ho veduto l’altr’jeri a concistoro in un palazzo antico
molti Imbecilli foggiare un intrico contro il Pensiero.

Ed ho veduto un Generale ameno
ricondurre il sereno sulle tombe
col buon ajuto della cannonata,
beata partecipazione del moschetto alla galera,
lezion buona e severa a chi verrà.
……………………………
L’Imbecille è crudele.
Bestia rara! Le più rare s’accovaccian dentro all’are,
le preclare vanno a torno a buggerare,
le più care sono preste a malignare,
le più avare danno fondo al fondo mare.

Ora il mar, che fan seccare, stenta un poco a preparare
funerali e bare; ma verrà, quando verrà, la calamità.
Piangeranno, grideranno! Chi sa quanti in quel mattino
strilleranno in un cantuccio, per la triste avversità.
Poco furbi, o troppo tardi?
Per colmare la tormenta si saran raccomandati
alla comoda prudenza dei cerotti immostardati
dai magni economisti gagliardi e liberisti.

Lai della  borghesuccia
(frammento)
(…)
Disincrostiamo l’eufemismo!
Parole povere frenin le sillabe
sulla ironia che nitrisce il cachinno,
sopra il singhiozzo che le balbetta;
susurrino evasive e pure esatte
l’umiliazione della pochezza:
non insistiamo, Signora; non può
dire il sussiego borghese il dolore;
elegge, sulla gangrena, ciarpe di seta sfrangiate;
sulla tavola misera imbandita
– lesina ed acqua in cucina –
fa troneggiare il trionfo
di una donata e rara cineraria in fiore.

Sul Marito, cui guata l’arteriosclerosi
e condanna il metallico ateroma;
che seggetta all’ufficio, cul-de-jatte burocratico e miope,
cui l’epatite indora,
sopra li zigomi magri petali morbosi,
e l’invidia in subbuglio consiglia
lunghe vendette pezzenti
contro i colleghi più fortunati;
pescatore melenso di lente protezioni;
sgobbone, schiena elastica,
calligrafia nitida sopra i lavori straordinari,
su cui consuma li occhi al petrolio e la sera,
emarginando classifiche
dai casellarii della statistica
goffa, meticolosa e severa; –
sul giovane dell’altro dì, oggi, sfiorito;
sulla prosopopea del vostro Marito,
scenda l’equivoco del chiaro-oscuro
la mendicante ambiguità.
(…)

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