Gerardo
PASSANNANTE
Gerardo Passannante è nato a Sicignano degli Alburni (Sa) nel 1951, vive da oltre quarant’anni in Svizzera. Le sue raccolte poetiche Miti e miraggi, L’altra dimensione, Passeggiando con Cristo, L’ora della memoria, Proibito, Incontro, Sparse, sono state riunite sotto il titolo complessivo di Canzoniere primo; a cui seguono altri due canzonieri di dimensioni petrarchesche, Appunti di un colloquio interrotto e Ex Glebula Lux; oltre alla silloge Appunti di un colloquio interrotto. È autore di romanzi: Rasmletikov, L’estetica dell’attimo, Atto terzo, Atto gratuito, Trilogia dell’infamia, Avvisaglie d’uragano, Amore e disamore; di racconti, Storie di martiri e L’ora della mezzanotte; e di saggi, diari, aforismi, opere teatrali (Sha nagba imuru), traduzioni dal francese e dal tedesco. Collabora al settimanale “La Pagina” di Zurigo.
www.frammentiriflessi.wordpress.com
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POESIE
da EX GLEBULA LUX (CANZONIERE TERZO)
Sestina lirica – (314/327)
O come troppo spesso la certezza
di un possesso stimato ben reale
ci inclina alla pigrizia; e sul pensiero
glissa il torpore ad istillare il dubbio
che gli esaltanti fremiti del sogno
si smorzano cozzando contro il vero.
Dunque non è una bizza? Dunque è vero
che solo la penuria di certezza
restituisce il suo fulgore al sogno,
mettendone in rilievo la reale
consistenza, a corroborare il dubbio
che tutto sia prodotto del pensiero.
Sì, perché nessun dato, oltre pensiero,
vive di vita autonoma: se è vero
che l’unica garante, contro il dubbio
d’essere, è l’ossimorica certezza
che le solide forme del reale
poggiano sulle nuvole del sogno
che fatalmente siamo: e questo sogno,
pensiero del pensiero del pensiero,
gronda di concretezza, e dal reale
non si discosta: risultando un vero
faro per la coscienza, una certezza
nel guazzabuglio erratico del dubbio.
Ed essa solo, la coscienza, dubbio
rampollo ragionevole di un sogno,
può abbattere o fondare la certezza
del mondo intero, e non si dà pensiero
se il vero sembri falso, il falso vero,
né quanto il razionale sia reale.
E indifferente che sia più reale
la stasi o il movimento, scioglie il dubbio
sull’esordio e la fine, e addita il vero
nemico, che cogliendoci nel sogno
o nella veglia, scardina al pensiero
ogni altra presunzione di certezza.
Perciò il pensiero, orbo di certezza,
gettando il dubbio anche sul reale,
contende al sogno uno statuto vero.
da APPUNTI DI UN COLLOQUIO INTERROTTO (CANZONIERE SECONDO)
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E come crederei, in questo andare,
alla tua permanenza per la via,
se appena sei lontana
sorge il dubbio?
E come affermerei, in questo stare,
che la mia fiamma ti lambisca tutta,
se ogni guizzo di donna
la rinnega?
E come, tra sospetto e infedeltà,
giuriamo tutta-via sempiterna
una labile intesa fatta solo
di attimi?
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Separarsi per perdersi per sempre,
o riunirsi per fondersi riversi,
non sono che vaghezze del pensiero.
L’unico errore indegno di perdono
è credere reale
separazione o incontro,
mentre mai ci movemmo da noi stessi,
nemmeno di un millimetro.
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Da audace, vorrei saperti offrire
la parte più sgradevole di me,
i difetti, i miei dubbi, le manie,
per darti una ragione di lasciarmi.
Essendo vile, invece,
sfodero un sapere che non ho,
una profondità fatta di libri,
e l’artificio della sicurezza.
Ma in questo guazzabuglio
di vizi e di virtù,
la viltà si tramuta in comprensione,
l’audacia si colora di eroismo:
sicché m’ammiri per la tolleranza
e lodi la magnanima bugia.
Eppure nel tuo errore sei nel giusto:
siccome la menzogna e l’onestà
non sono che strumenti d’emergenza
per l’unico, inglorioso tentativo
di non perderti.
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Se provo a analizzare le ragioni
per preferirti a un’altra,
non vengo a capo a niente.
Sei bella: ma sapessi quante donne
da fiaba ho vagheggiato!
sei profonda: ma troppo equilibrata
per essere abissale;
intelligente: senza quell’acume
che dispensa il cinismo;
sei dolce: ma più bocche e molte mani
ringraziai per questo;
persino passionale: ma sgomenta
di fronte al rapimento dell’orgasmo;
sei acerba e materna al tempo stesso,
senz’essere ninfetta o genitrice.
Infine, depistato,
blocco il pensiero: e in quel momento avanzi,
disinvolta e sicura
della tua potestà,
a proclamare senza preziosismi
che, comunque argomenti,
è proprio te che amo!
18 / 370
Ma se pure restasse solamente
menzogna e derisione,
e domani, sommessa al tuo destino,
seguissi la tua via insieme a lui;
se pure, contro quanto oggi neghi,
cadrò dalla tua mente,
non basta l’illusione che mi hai dato
di resistere al monito del nulla,
non basta la certezza di saperti
una parte di me mai più recisa,
a dirmi che non tutto è stato vano
tranne la vanità di questo tutto?
50 / 370
Ma perché, mentre il treno mi sballotta
di qua e di là,
mi ossessiona il monotono dilemma
che mi vieta di vivere con te,
e senza te?
62 / 370
Separato da te per giorni e giorni,
ti inseguo col pensiero, e per fissarti
ti proietto nei luoghi più diversi.
Quando infine un bagliore
mi ridà il tuo indirizzo:
e scopro che quei siti materiali,
e la persona tua che li percorre,
non sono che prodotti della mente:
e per averti quindi non mi occorre
uscire da me stesso.
75 / 370
Mi offri un’amicizia trasparente,
siccome non puoi chiedermi il proibito.
Ma tu non sai quant’essa
sia una tappa traslucida, una tregua.
Potrò forse concederla
soltanto quando smetterò di amarti:
ma da allora prepàrati al confronto
col mostro opaco dell’indifferenza.
82 / 370
È assurdo calcolare
che il tuo problema è dato dall’incognita
tra due ideali, e quindi per eccesso,
quando ci sono donne
cui basterebbe un mezzo
uomo reale, e forse, per difetto,
solamente un’ipotesi!
91 / 370
Il modo più indolore che hai trovato,
per dirmi che mi lasci,
è stato di afferrare le mie mani
in un raptus più forte del volere,
stringerle fino a congelarne il flusso,
e, mentre il pianto ti gonfiava gli occhi,
conficcarmi le unghie nella carne.
95 / 370
Solare oscurità della parola
che non sa rivelarti ciò che celo.
Ma se tu che censuri ogni insorgenza
dici che la ferita
è di nuovo scoperta e forse m’ami,
di che stalagmiti sono goccia,
di che struttura le articolazioni,
di che vulcano sono l’eruzione,
di quale genotipo il fenotipo,
di quale big-bang la propaggine,
di quale iceberg sono l’emergenza,
di quale cosa in sé sono il fenomeno,
queste mezze ammissioni?
101 / 370
È buio: io veglio e tu dormi.
Più tardi, al levare del sole,
quando ti sveglierai dormirò io.
Non hai udito il mio grido notturno,
non sentirò il richiamo del mattino.
Come la notte e il giorno,
mi dico semidesto,
siamo incommensurabili,
e ci escludiamo vicendevolmente:
benché l’uno non ha significato
senza dell’altra.
125 / 370
Ma un giorno tutto questo finirà,
e smetterò di dedicarti versi,
e le notti non più saranno veglie
sotto il buio totale della tomba.
E solo tu, allora, vanamente,
cercherai questi appunti in cui speravi
per fare i conti con i tuoi ricordi,
per sapere se tra coscienza e sogno
ti regalai un nome che non muore.
Fu il mio solo retaggio non indegno:
quello che, quando tutto sarà spento,
rimarrà a deporre che ai tuoi occhi
fui un’ombra più solida del bronzo,
io, ridonato al nulla onde emersi.
204 / 370
Ma nella notte, dopo una giornata
spesa a pensarti e a desiderarti,
lentamente mi acqueto, e realizzo
che il nostro sogno è morto.
E quando questo lezzo cadaverico
sarà dissolto anch’esso, resterà
solo cenere, cenere:
l’avanzo naturale di ogni fiamma.
207 / 370
L’infimo stadio di una relazione
è certo quello in cui l’amore cessa.
Ché se crudele è il male che si rende
a chi una volta promettemmo gioia,
più delittuoso ancora
è domare un sentire irrequieto,
per rassegnarsi all’impoverimento
con cui, giorno per giorno,
la morte realizza dentro noi
il suo basso disegno.
212 / 370
L’essenza di un amore è nei ricordi
che gli sono associati e che ridesta
un odore, una musica, un paesaggio,
un sapore, uno sfrego della cute.
Sono i rinvii che lo fanno vivo
e resistono ancora nell’assenza,
come un mattone sopravvive al sole
o l’esca fosforesce oltre la luce.
Ed è questa memoria, catturata
da una folla di specchi rifrangenti
ognuno una monadica parvenza,
che amiamo più della sorgente stessa.
231 / 370
Oggi ho sperimentato,
io che di matematica so nulla
e non capisco un’acca della fisica,
niente niente il concetto di infinito.
Non perché cielo e lago
si specchiassero complici l’un l’altro;
non perché il treno andava
verso destinazioni che ignoravo;
e non perché le ciarle
della tua conoscente occasionale
fossero interminabili e abissali,
ma soltanto perché senza parlare
mi sedevi di fronte, e mi guardavi:
e ciò che si stagliava tra di noi,
quello era l’infinito!
247 / 370
Quando non vedrò più le tue pupille,
sarò meno assetato di visioni;
quando non udrò più le tue inflessioni,
sarò più prigioniero dei rumori;
quando non gusterò più le tue guance,
il mondo sarà fatto inappetente;
quando non toccherò più le tue mani,
ritirerò le mie da altre offerte;
quando non sentirò più il tuo profumo,
l’olfatto sarà saturo di odori.
Quindi, tra l’indolenza
e la morte dell’anima
non resterà che un passo:
dopodiché, soltanto la memoria,
con la sua impietosa compagnia,
si frapporrà tra me e l’altra morte,
definitiva, eterna, della carne.
271 / 370
Non una sola volta la mia voce
si è fatta impersonale in questi versi,
intesa ad evocare gesti e affetti
di un colloquio privato.
Pure, ogni volta che li ripercorro,
è come se una ferita antica
vi sciogliesse un dolore senza tempo:
e tutto quanto abbiamo sopportato,
gli obblighi e le rinunce,
il male che facciamo o riceviamo,
ci accomunassero fraternamente
a tutti quelli, come noi, gettati
in un mondo che offre per negare.
da INCONTRO (CANZONIERE PRIMO)
Ancora chiedo, e ancora! E se stasera
la memoria ridesta lo riscuote
e il fiume ridiscende, fluttuando
tra i sassi che lanciammo, e la betulla
tuffa la testa in mezzo al flutto scuro
che mai non toccherà, ma pure, infranta,
rinasce a nuova vita,
così il pensiero torna ai tuoi contorni
e riprende a crearti: ma, sdoppiata,
un fremito t’ha scossa. E non sei più.
Forse ricordi: scendevamo all’acque
che correvano al mare, nella sera
fumosa per le nebbie, poi dissolte
dalla pioggia leggera. Quell’incontro
era nostro, nessuno ci vedeva:
ma il tempo ci sfuggiva. Ed era ombra.
Così cessava, quasi programmato,
il contratto fugace: e ci attendeva,
dopo l’ora veloce dell’offerta
neppure assaporata, il nulla, lungo.
Ho perduto io solo: questo so.
Tu sii salva: e lo sei in questo andare
confuso, tra le ombre palpitanti
che all’angolo declinano, e non sanno
volgersi indietro. Tu sei salva, forse
complice di un volere che già temo
e ci sovrasta, noi che malamente
saldiamo monche forme di esistenza.
E dove se ne vanno i nostri passi,
e gli addii mai detti, o che verranno,
e gli incontri casuali? Se dovesse
tendere a un grammo di certezza folle,
– no! – esorterei – pensiero: il tuo cammino
sia diverso da questo:
ché tu non puoi produrre
un tuo frutto cosciente, come tuo
non è quel certo scorrere a un ricetto.
Invano getti sassi
a spezzare quel flusso che ti ignora:
ti piaccia il gioco, e godi se altrettanto
lei si diverta.
È più grande di me, di te, pensiero,
quel risucchio invisibile che accoglie
il mio e il tuo respiro –
—————————–E tu che scendi,
rapido fiume in fuga da te stesso,
senza fermarti ancora, tu bagnasti
il suo piede leggero, e tu accoglievi
il suo tacito voto nel tuo letto
che ne turbò il sorriso. E tu ignoravi
il fallimento che determinavi
di ogni affermazione edificante.
Al mare dove corri non perviene
intatta quella forma:
tu la sciogli sul ciottolo raschiato,
la slarghi sul pendio della tua curva:
e di quel quadro d’acqua, in cui rivisse
solo un momento, ma per questo eterno,
chi conosce la formula?
L’hai portata con te, per sempre, al mare
che dissolve l’immagine già rotta
nel suo vasto ansimare: e non ritorna
quel fragile riflesso,
non più l’umida sera che ci tolse
ogni sentire:
e non l’attende il mare, ma l’oscuro
andare incontro al dubbio, in una notte
senza dimora e tempo, senza nome.
Vita che fu! Non ti raccoglie un porto,
né la mano paziente ricompone
il senso del mosaico. È distrutta
quella mia sera, quella tua dolcezza,
quel tuo vivere breve in un sussulto
di nervosi sciacquii, quel tuo arrestare
l’acqua silente in te: se il tempo scorre
e tu con lui fluisci, come il fiume:
stasi, attimo, memoria, essere, nulla!