Eraldo
Garello è nato a
Ceva (Cn) nel 1953, e vive a Bagnolo Piemonte (Cn). Dopo aver compiuto
gli
studi classici si è laureato e specializzato in Medicina e Chirurgia
presso
l’Università degli Studi di Torino. Parallelamente agli studi
scientifici, ha
da sempre coltivato interessi sia letterari che filosofici. Della sua
esperienza poetica, a parte le liriche dell’esordio, è testimonianza la
trilogia di drammi in versi: “Attis e
Agdistis” (Genesi, 1989, prefazione di Domenico Romano), “Polemotrofia” (Edizioni del Leone,
1993,
prefazione di Alida Cresti), e “Lo
sguardo di Orione” (Bastogi, 1997, prefazione di Maria Grazia
Lenisa). Si
tratta di un trittico nel quale l’autore
ha sperimentato una sua originale visione di “poesia filosofica”,
attingendo a
piene mani tematiche e suggestioni dal ricco repertorio mitologico
greco,
innervandolo, sostanziandolo, contaminandolo con problematiche di
grande
attualità. Nel campo della saggistica ha pubblicato: “Mitofanie”
(1987, prefazione di Giuseppe Addamo e postfazione di G.
Barberi Squarotti), sulla connessione esistente tra mitologia greca e
poesia
filosofica; “L’arco di Apollo” (2000
e 2001, prefazione di Riccardo De Benedetti), rivisitazione e
reinterpretazione
dei rapporti tra il mito e la ratio filosofica; “La caverna
di Ganimede” (2008, prefazione di Stefano Zecchi), sul
pensiero dei maggiori pensatori di lingua del primo Ottocento (in primis, Hölderlin) alla ricerca dell’Ursprache,
ossia del linguaggio
originario, della lingua primigenia ed adamitica.
POESIE
da Attis e
Agdistis
Non più rade come un tempo le acque,
a ritroso percorro la vela sgualcita
degli anni.
In questo sospetto focato
di Primavera ogni sussulto è un grido
di paglia che abbrucia, ogni figura
un tempio che pesa aduggiato l’incaglio
di nuove ombre, affilate come arista.
Non foglia roncinata di parole chiare,
non filo d’erba curva di racchiusa
perfezione, non fertile seme ristretto
nel vento: anche il mio canto si confonde
tra i riflessi rameggianti del dumo,
dirocca il gorgo esangue del suono
come farnia scortecciata dal gelo.
Altrove, il timone impazzito non regge,
il fradicio legno si schianta, impunta
nel venato pietrame d’un greto col nodo
stopposo dell’integrità affamatasi
tra i vicoli bianchi del dubbio.
Un tonfo
sassoso ch’è l’indizio –non ricercato-
di questa nuova sofferenza dei tempi
che ci chiudon le ore in un registro
di pause chiazzate di sangue.
Né serve
il richiamo sbalzato di ciò che a noi
fu caro: miti barbari che più non hanno
la parola sconsacrata della terra.
E non chiedere il raggio che segni
le pieghe granulate d’un ferro,
o nel fondo delle memorie una spirale
di brace.
La
vita vuole essere intesa
senza intermezzi di sogno, nel buio,
fino al limite d’uno strappo di gomena.
..........
da Polemotrofia,
ovvero l’arte di nutrire la guerra
SUPPLICI:
Terra che non è più terra ma untuosa
cenere; acqua dei fiumi che non è più acqua
ma alluvionante rossore di sangue;
alberi che non sono più alberi ma fissità
morbosa di legno combusto; animali
che non sono più animali ma erratico
sfinimento di pellame scabbioso.
Il campo isterilito dal sale rigetta
la semente ancora acerba, il germe squarcia
il velo del follicolo, la stagione
del caldo già imbrina i trapunti algòri
delle invernate, il mare nella pianura
ricaccia l’iperemico flusso del fiume.
Ovunque, è il melato sentore del sangue
che s’agglutina sui corpi, tra la polvere;
ovunque, lo stomacante tanfo del putridume,
la carne che frolla nel verminoso sfacelo;
ovunque, la vampa reprimente dell’aria
che d’una cappa involge la vergogna dell’oggi
-lontano stia il vento, non disperda altrove
il dolore che sotto il sole s’addensa, feroce.
Eravamo uomini e donne, ricchi di passato,
presenti al presente, avidi di cose future,
ma il tempo ha spezzato le sue frazioni,
un’unica stagione di rovina raggruppa
le ore e i giorni, e non vi è più ricordo
o speranza: solo il dilatarsi nell’attimo
dell’annientamento.
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OFFICIANTI:
Il Nulla ha partorito la casa del Nulla,
il Tutto ci ha fatto conoscere il Dio,
il Dio ci ha ricordato che siamo Nulla,
nel Nulla sprofondiamo con diletto,
poiché noi il Nulla ricostruiremo il Tutto.
Il Dio ha fatto dell’uomo il suo tetto,
le frasche coprono il sonno del Dio,
quando aprirà gli occhi sparirà la casa,
amiamo il Dio che porta gioia e distruzione!
Il Dio non conosce le nostre leggi,
le sue leggi sono scritte a caratteri
di marmo sulla tavola ferrosa
dell’eversione; il Dio ci frequenta
per portare lo scompiglio; dal disordine
rinasce l’amore per i vecchi princìpii:
la calma, prima ha sempre conosciuto l’ira.
Il Dio ci libera i sensi, ma non per sempre,
l’amore senza la ragione spaventa il Dio.
Il Dio ama il sangue, ama la spada,
ama la polvere del campo di battaglia;
il Dio nel suo sentimento è sincero.
Noi amiamo la pace del mare acquietato,
il verde ondulante dei campi profumati
di Maggio, amiamo il volo delle colombe;
noi, nel nostro sentire, non siamo sinceri.
Una volta all’anno è lecito insanire:
per una volta sia la follia la nostra
normalità, il disordine il nostro
ordine, la bestialità la nostra
purezza, l’odio il nostro amore!.
.........
da Lo sguardo
di Orione
ORIONE:
Da venti smisurati interminabili
anni, malcerto e sofferente, mi sposto
da un villaggio all’altro, da una casa
fumosa alla pianura sferzante,
dal roccioso sentiero d’un crinale
che il passo ulcera all’arrendevole abbraccio
del mare che di sale leviga la pelle.
Senza una meta e senza una guida, solo
nella mia nera cecità, estraneo
nel percorso al consiglio delle stelle.
Non potevo trovare un rifugio
nel mondo che conoscevo da prima,
negli uomini che m’avevan accecato:
d’una sola radice nascon gli uomini
-la colpa dell’uno diventa anche la colpa
degli altri! Non è tra di loro il Sole.
Mi diressi, così, ai margini del mondo,
oltre i confini della terra e del mare
che nessuno osa trasgredire: conobbi
i popoli gli usi le tradizioni
più strane e diverse.
Soggiornai a
lungo
presso gli Irenèi che sempre vivono
in pace, e non conoscono la guerra;
ma non era nell’amore che io potevo
comprendere il male mio e del mondo:
troppo diversi da noi per essere
accettati, come una luce bianca
che i sensi nostri non sanno vedere.
Con angoscia e paura attraversai
Le terre rossorutilanti dei Polèmi,
avvertii l’odore melato del sangue,
il fracassar delle daghe sugli scudi,
le grida bestiali e sonore d’uomini
che con gioia s’uccidono. A lungo
il frastuono della morte violenta
m’agitò i timpani di metallici acufeni.
Attraversai il deserto di Monos,
dal giorno urente e dalla notte sizzosa,
con la sabbia di vento che la bocca
t’empie d’asfissia: provai la sete
che lo stomaco ti squama, rabbrividii
per lo scorpione imperatore, cinereo,
che sulla mia pelle le velenose
chele trascinava. Più non udii voce
d’uomini, sempre solo con me stesso:
neppure nell’isolamento più pauroso
seppi ascoltare la mia disperazione
…………
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ORIONE:
Tutto s’è trasformato davanti ai miei occhi
sotto l’imperio del tempo! E non sono trascorsi
molti anni davvero. Laddove prima s’apriva
largo e cordiale il sorriso, ora intravedi
sguardi cupi e corrucciati in occhi tetri
e sfuggenti; le mandibole rinchiudono
la bocca quasi in uno stridore di denti,
e nessuno cerca l’altro nel volto; non v’è
più amore, amicizia, solidarietà.
Li vedi di corsa sempre affannarsi, la mente
in mille inutili negozi come affogata;
né li puoi fermare a ragionare alfine
di ciò solo che per noi e per loro
dovrebbe importare: l’avventura dell’anima.
Di nulla hanno cura: abbattono le foreste
maestose per ampliare le città con tuguri
miseri e fatiscenti; innalzano falsi templi
al cielo, ma degli dei hanno perso ogni ricordo;
di tutto hanno fatto commercio e ladrocinio;
idolatrano la ricchezza, il lusso, l’apparenza:
per un pugno di dracme han venduto i figli,
le mogli, se stessi al miglior offerente.
Lungo le strade e nelle piazze dove vedevi
i filosofi dialogare e gli eroi il popolo
ammaestrare, l’occhio si perde in un mare
di mercanzie inutili, senza valore,
e scorgi una folla smaniosa che fa ressa,
che incalza, che reclama per sé un vano possesso.
E poi giovani donne discinte che di sé fan
bella mostra,
con turgidi seni, cosce tornite,
glutei nervosi e scattanti, e non sai se di sé
fan mercato o si esibiscono in una fiera
ostentata di vanità……………………
from Attis e Agdistis, the
conclusion of the fourth Act
SCENE III
(At the far end of the marble hall, where the eye can span the gardens
in bloom, an inusual clamour breaks the noise regularity of the guests’ mirth)
Second Guest.
Megisthes, who is that most handsome man
now crossing the threshold, holding
the syrinx of reeds tied together like
sheperd’s ones? His gait is noble
and light, like a son of the gods;
but his eyes…fearsome to behold,
as those of a beast wounded in its side,,
or a prophet with stern flashing
eye, purged and strained
by the dazzle of the sun on the sand.
I feel he will have something to say to us
all and we shall hark him with respect.
First Guest
Menon dear, you speak thus because
you are so young. A terrible hour has come,
which will make our knees fold up;
the man you see is two-sexed Agdistis:
we all know him, although nobody
speaks freely of him. Never had he entered
our palaces, always living in the forest
like a savage; our fear of him,
his indifference to us we both knew,
but for both it was best to ignore
each other. We have always avoided
a clash tacitly until Attis arrived.
The hour is come, to face not Agdistis,
but what of him still remains in us:
of ancient times, of the long-past
values of the first civilisation
not all has been disfigured.
Zeus has long since been reigning,
but Kronos still rules the beats of the heart.
The cleft has always been within us:
no power will ever be able to repair it.
Agdistis, I await you with the resigned
welcome we give things that must
happen: madness crasch down on us!
SCENE IV
(Agdistis ,by modulating the sound of his syrinx with rare art and ability,
has driven the guests to a sweet but incurable kind of madness. Attis alone has
retained the discerning capacity of reason).
Attis
What do my eyes, accustomed to all sights
see! Powerful Midas languishes
in fuddled amusement; Sangarios
double-faced and usually gloomy,
with harsh peals of laughter now rejoices
in his own oblivion. Shy Dione
lays bare her firm body,
and lustfully ogles the man.
In all there is a strange overturing,
as if each had a double nature
and penchant: one open to most,
welle-known and subject to the watchful
restraint of reason; the other, ever
present, but stifled within us
by fear or some other ban.
This obscure soul has been set free
by the sweet lay of the syrinx,
that sets all feelings loose.
But they do not
appear unhappy, oblivious non absent.
They have found the concave stamp
that hardens out features.
Agdistis,
long I have waited for you, in the triumph
of your return. I expected anger
and violence, mindful of our ancient
covenant. Why did you spurn the blood
bath and choose madness?…me alone
have you spared from dire severing
of the mind. I no longer follow
your reasoning: obscure is now to me
even the eternal seal of friendship.
Agdistis
The events are self-evident; little
can words add to them. In the state
of nature, joining us to the Greath Mother,
strong is passion, sensual love, quiet peace,
but above all else it is blood-links
-by birth or choice- that set us free:
whoever strays from that world is lost
forever. Thus it has been for you also, Attis.
I have not come to set you free, you must
undo the knot yourself.
Mine is a much loftier
task. By the supreme gods have I been sent:
for once, opposite signs have annulled
each other into one sole valency.
I have brought mental ruin to others,
but the most grievous defeat is my own.
The world must be given new directions
not better ones, certainly, but necessary,
unavoidable in their progress.
History has disrupted the state of nature.
I must disappear, too painful is now
solitude for me, hopeless the hours
of my existence.
A task
still remained
and I have fulfilled it with sweet
violence:
into the abyss of annihilation have
I
sucked the eternal adversaries, the Midases
and Sangariuses; their loathing for me
sprang from my same root, the two
surfaces of a trunk. If the world of fathers
has to be, let it not spring from ambiguity!
At nightfall I, too , shall end my task.
Attis
How hard and right your words
are,
Agdistis: greedily do I drink
the sorrow
of this day. But I see clearly within myself,
perhaps for the first time: in
one thing
you are mistaken, even now you
have been
to me a brother, more than in
the past,
for you have led me to the
forking.
( Attis takes of his attire in front of Agdistis and appears in all his
statue-like beauty. Then, unsheathing a curved daffer, he cuts off his mighty
sex with one cut, without betraying any pain whatsoever. Holding it with both
hands, he offers it to Agdistis, speaking with an altered but steady voice).
Attis
For you, Agdistis!…I offer you the envied symbol
of fertility, the part which is our pride.
Thus I untie the knot which for so long
had bound me with its rough coils: this is
my final choice. Time back, with you,
it was an instrument of love, sap binding
me to Nature; with today’s nuptials
I would have made honest Dione fertile
in order to bequeath to her sons the
laws
and links of the fathers.
In the state of nature
and in the state of law the penis is ideology,
it claims faith. I have not been capable of choosing,
this has been my tragedy: the solution can only
a true sacrifice, a lack of
entirety.
Blood
colours
my body and purifies it, from within. A pleasant
heaviness now weighs down my limbs, warmth
abandons my beating heart, my mind is
dimmed in the haze of unconsciousness.
Shortly, I will again be part of the earth,
the debt will be paid, I will again join
the eternal flow of water and the solidity
of things…all in the beginning was the all…
(Translation by Sheila Di Salvo and Eraldo Garello)