Francesco
LEONETTI
Francesco Leonetti è nato a Cosenza nel 1924 e viveva a Milano, dove è scomparso nel 2017. Ha pubblicato le raccolte di poesia: Sopra una perduta estate (Landi, 1942), La cantica (Mondadori, 1959), Percorso logico del ‘960-75. Poema (Einaudi, 1976), In uno scacco. (Nel settantotto) (Einaudi, 1979), Palla di filo. (Poemetto con commento) (Manni, 1986), Le scritte sconfinate (Scheiwiller, 1994), Sopra una perduta estate. Poesie scelte. 1942-2001 (No Reply, 2008). Tra le opere di narrativa e saggistica: Fumo, fuoco e dispetto (1956), Conoscenza per errore (1961), L’incompleto (1964), Tappeto volante (1967), Irati e sereni (1974), Campo di battaglia (1981), Piedi in cerca di cibo (1995), I piccolissimi e la circe. Romanzo-paradosso (1998), La voce del corvo. Una vita (1940-2001) Storie corte con «garbugli» per mano di Veronica Piraccini (2001). Nel 1955 ha fondato insieme a Roberto Roversi e a Pier Paolo Pasolini la rivista “Officina” ed è stato condirettore della rivista “Alfabeta”. È stato vicino alle posizioni del Gruppo 63.
https://it.wikipedia.org/wiki/Francesco_Leonetti
POESIE
Riassunti mondiali
1.
I corpi in trincea a buchi / bombardati da velivoli.
E quindi si solleva in su / la crosta terrena stessa.
È lava rossa, espansa; / è movimento come in noi, si esulta.
Ma per bloccare l’impeto / caldo umano sono scaricati
addosso i massi giù / dai mostri meccanici in cielo.
Oh non c’è un bell’essere / diabolico fra noi capace
di rispondere ribelle e / battere l’irragione al dominio.
2.
Qui c’è solo la cosa del lavoro e la foia.
Ma stiamo per ore allo schermo mirando.
Le giostre, le sfide, con camere addosso.
Da vedenti. Il caracollante occidentale
attacca coi suoi fendenti a spada corta.
L’altro d’oriente col sandalo pesta fango:
per levare gli schizzi fulminei nella cura
di percezione del dettaglio trasversale
durante i sobbalzi dei passaggi continui.
La stilla infine all’occhio acceca quello…
Ma non era che un’ombra, una sagoma esposta:
si ripresenta, duplicata presenza, il cavaliere
dell’occidente e un musulmano è in campo.
Qui si combatte a pezzi per le lunghe notti.
Solo il guardare i grandi ci è concesso.
Ahi mai nessuno muore fra i campioni presto.
3.
Vengono i mali giù dai mostri meccanici in cielo.
Un bell’essere diabolico non c’è più in noi indigeni.
La vecchiezza
Un nome in mente non torna più bene… È scarsa la
compattezza del pene.
Di rado l’escremento mostra valore. Il cuore palpita come
in amore…
Più volte l’udito non sente… Eppure il tutto è ancora
di adolescente.
Come di chi non ha vissuto quasi niente. Anche se insorge il
disincanto:
non si scorge più nulla di grande… Né ci conviene affaticarci
avanti.
Si sa che la vita è un composto di spinte e di parole che sono dita
e un dì si torna alla resa, molecole nel vento, materia estesa.
Oggi il sussulto di male che induce il pensiero mortale
presenta il poi come un humus, con l’antica saggezza: il fiume
oscuro (nulla è detto), il sogno di un fiore, lo smarrimento puro…
Ma non si tocca la rinuncia che è radicale: l’illusione dura.
lo non sono, non c’è il mondo, tutto è un’onda…
Ma mi piace quest’ombra.
Non si alzerà più il sole, se così succede un giorno, se si vuole…
Ma mi piace ancora una donna. Mi curo. E corro;
poi mi appoggio al muro.
E resta che il padrone, che il potere, che l’irragione, vincendo,
mostra che il fiume non è affatto il nostro… Noi peschiamo dentro
il tutto errante, in un insieme – e è questo il solo senso.
Il piede
Questo il mio
bellissimo potente piede;
rotto piagato appoggiato esposto.
Oh che puzzo!
Sono un perdente,
un ribelle infame al dio del denaro.
Amen.
Vengo dal campo dei villani fottuti,
degli insolenti operai, degli intellettuali di merda.
lo con questo,
con questo calciavo all’inferno
i signori e i padroni e i ministri del dio.
E ora, dove è andato il mio piede invitto? Oh meschino!
Non è più grande, non ha un fine,
non ha neppure un seggio.
C’erano una volta i Saraceni, Attila, i Gialli;
ci risaremo noi, ritornati un dì
nel millennio terziario di bancate globali.
Marcia di festa
Miserie non portiamo, ma ragioni
e in mezzo a voi
in marcia vi avvertiamo… È nel salario
una vita migliore
ché dove quello basti
ha questa il suo valore. E della classe
ecco le mire:
essere uguale
e più in alto soffrire, non da vile.
Se ora il turno è più corto
se la giornata non è tutto il giorno;
e se chi sangue trova nel suo sputo,
e chi si strazia, stanco a un ingranaggio,
non deve più offrirsi
al mondo con i cenci per convincere
pietà negli insolenti… non fu grazia
e ricordiamo quanto
occorse affanno, già non si dimentichi!
E si festeggia questo bene scarso,
non un parto regale, od un macello;
e si ricordano
i morti sul selciato
e lentamente
andiamo, uniti, con bandiere aperte.
Noi vi avvisiamo
col nostro passo
che se cercate chi mutando i tempi
il lavoro riunisse all’ubbidienza,
non c’è forca che giova.
È il giorno pieno della nostra festa;
né ci saranno fiumi, né fortezze,
noi v’avvisiamo,
in altra guerra di nazioni; più
a separarci
non ci saranno fossi;
e moriranno i capi, e i loro servi,
che mandano le genti
per un giuoco di terre a fare morte.
Noi diamo alla fatica ogni giornata
dove si batte, lima, sforza, incastra:
ed escono di qui
le sfere, i mozzi, i cavi,
gli spilli con la punta e la capocchia.
E lavoro la vita;
ma chi vanta in un marchio il suo cognome
felicemente iscritto,
accresce con le vendite i suoi zeri;
e quanto gli assicuri
avremo forze
utili il giorno poi, dà tanto a noi…
Tu vieni, docile animale alla fonte del mio sguardo,
e hai il volto limpido di mia madre
nella mia terra! E sorella mi sei, coi capelli dell’infanzia.
Un tempo io volevo andare verso il mare
e morire come un grande uccello disteso sulle ali,
ma ora voglio riposarmi nel tuo grembo,
come un nembo di tempesta sul fianco della montagna.
Prime poesie
*
Tu mi rammenti il tenero latte che sentivo sulle dita
quando fanciullo spezzavo i rami delicati;
e mi sento mancare alle tue labbra.
Io ti stringo fra le braccia come si stringe il fieno
ancora verde e leggero della campagna
*
Vorrei guardarti come la prima volta, quando mi pare di essere nato.
E ora sono ignoto a me stesso, e non so dolermi con la mia voce.
Ma tu che l’anima mi hai dato, perché non mi ascolti?
Ridestami una fonte, dove ridente ti guardi come la prima volta.
*
Di tutti i fiori rimane l’odore nel vento,
e ritornano gli astri nei prati del cielo.
O amata, perché ti tremano le labbra, e i tuoi occhi
copre un velo di pianto? così la morte.
Cresce l’erba nel mattino, fumo nasce, e va col vento;
e sia di noi come del fumo,
e sia di noi come dell’erba!
*
Reclinato il capo sulla spalla,
dischiuse le labbra a un tiepido pensiero,
pallido il volto e pari a un soffio del vento
la morbida veste, e palpitanti di leggeri tremori
gli sparsi capelli, ti vidi dormiente.