Enzo
LAMARTORA
Enzo Lamartora è nato nel 1965 a Napoli, dove vive.
Ha studiato Teatro a Roma, frequentando l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”, e collaborato come aiuto regista con Alfonso Liguori, Roberto De Simone, Renato Carpentieri.
I suoi libri di poesia: Nel corpo tuo rimorso (Crocetti, 2002), La dimensione della perdita (Crocetti, 2012), It Was (La vita Felice, 2017), The Autumn of love (traduzione di Michael Palma, Gradiva Publications, 2018), Disamore (La Vita Felice, 2018), Das Ausmass Des Verlusts (traduzione di Hans Raimund, H. Verlag, 2022), Attendersi di là (La Bussola, 2022), Rosso. Interludio (Raffaelli, 2022), The dimension of love (traduzione di Michael Palma, Fomite Press, 2024). Ha tradotto opere di Ghiannis Ritsos, Dominique Grandmont, Philippe Sollers e Arthur Adamov. Dal 2002 al 2007 ha diretto la rivista di Arti, Culture e Riflessioni “Passages”, un quadrimestrale edito da Crocetti Editore, prima, e da Passigli Editore. Collabora con le riviste “Poesia” (Feltrinelli), “Anterem” (Anterem Edizioni), “Micromega” (Micromega edizioni), “Mission” (Franco Angeli).
POESIE
da NEL CORPO TUO RIMORSO
I
Giorno dopo giorno
l’immenso che sprofonda in gelida fessura
il sibilo che usura l’interno e che effondeva…
II
Stabat mater bellezza e ombra della follia
e specchio giunto era il tempo che io nascessi
al lontano cammino dal lontano dove
ricurva e dolente inghiottiva l’orizzonte
ma inoltrandomi a notte e nel remo la paura
che il respiro della laguna sperdesse la rotta
colmasse la misura
III
Non posso fermarmi mi dici a una stazione
perché è a ritroso il mio viaggio già state
cucine semibuie seminferme corride di grida
latranti liturgie e dentro lo spasmo convulso
del sangue nel giugulo nel morso l’agonia
no non posso fermarmi voltarmi a ricordare
dare nome all’inaudito meglio per me l’amaro
masticare di chi non errando giudica l’errare
meglio l’amore quello normale ossia
tradire discutere se sei solo mia
e insieme accusarti del limite morale
tu stesso diviso tra bene non male
ridotto a puro avverbio il dopo e il prima
IV
Proprio vero è l’inganno il tuo logorio
verità o bellezza bellezza o verità
dimmi le cose che conoscere dovrei
e che nuda mi stringono al segreto degli altri
con cui te ne vai me in corda
alla fonda di ogni tuo umore
ma troppo sei bella ch’è alibi e dissuasione
quando il conto degli anni mi chiedi
con me sprecati tra omissis e viltà
e le altre maldicenti quella puttana
che pure col mestruo lo fa’
pardon la tua giovane età
V
Per quel poco che mi dai quanto ti perdono
ciò che insieme coniughiamo
figgere croci attender punizioni e ancora
ambivalere non vocare non potere non mai profferire
che amarti avrei voluto per le strade d’ogniddove
solamente accarezzarti e dal fondo dei tuoi occhi
col respiro dei tuoi giorni una volta adolescente
divenire indecente confinato all’infinito del tuo prato
né rimpiangere quanti anni ci dividono in coscienza
o nel corpo tuo rimorso tuo tutto presente
l’antica che inabissa e che riemerge
ventura prigionia in cui mi tenevo
una volta amore vero
VI
Misera insostanza del dolore rasternato
se al raptus ex o propter uno è sospinto
oppure se all’equivoco che crescere comprendere
il dolore del mondo significhi risolvere la colpa all’incoscienza
assolversi che il male con gli anni appena segna
ed è già via già l’oltre-galleria
quando al vero ritorno di questo viaggio
fra cose secondarie e necessarie
non dipinto né racconto solo viva continua
recitata malattia di un tempo di vergogna e di follia
quando il corpo profanato giovanile…
ma eccoci in stazione – mi distolgono le hostess
in completo verdeblu sempre pronte al bel sorriso –
sì grazie un caffè riprendo un giornale
che non leggerò
VII
Così così lontano dalla casa impossibile
nel corpo di passione irremissibile bellezza
ben oltre il confine di materia e di giudizio dirti
semplice banale mia stessa giovinezza
vorrei che le ferite più dei versi dicessero
che per te me ne andrò quando tu te ne andrai
invaso il cuore dai tuoi fantasmi
lasciate le dimore che avremmo abitato
e questo diario che tu scrivi non per me
e che io insanguino per te
Il viaggio in Normandia
Per noi che partivamo
lungamente sospinti a una prossima estate
dalla neve sulle giacche dal vento dal sale
per come era pesante la schiena
e incurvata dal passo in solitario
già il nome Normandia invitava al sorriso
stringeva di speranza la mano al finestrino
Appresi alla cornetta il tragitto del viaggio
dal Nord alla Baia affondando per vigne
come dire negli anni un ritorno di affanni
un ripetere a memoria una storia d’appendice
che in qualche scaffale
e insieme annotare quanta infanzia era invissuta
quanto è inutile sorprendere ogni angolo
che s’abbia di case di pietre
tra fumi di stalle e vapori di falesie
se insieme ci si allena e ci si tempra al disamore
Ma era questo il sottinteso
completare il sussidiario con te che non parli
e che pure non ignori il vuoto spalancarsi
l’angoscia di fissare infantile in qualche foto
tutto il mondo inafferrato
che pure e ancora amiamo
Due possono viaggiare se possono incrociare
chi il cammino fa in ritorno,
i visi patriarcali silenziosi ma felici
magari aspettando che l’umido si levi
del dopo temporale
Guardavo al mattino l’orizzonte di Etrétat
strette cale d’inverno dove il freddo si scioglie
sui ricami all’uncinetto dei vetri d’albergo
sul profondo tuo dormire – pensavo
sia felice almeno questo –
e finalmente ero sereno
finalmente ero un gabbiano svernato
in quell’oceano
La donna della vita rincorsa
per le strade tra Caen e Rouen capelli biondi o neri
– è chiaro ha già sorriso è proprio qua vicino
e noi che la guardiamo ebetiti immaginando
soltanto per scherzare non certo per guastare
quel viaggio in Normandia di amaro e nostalgia
che in fondo ci piaceva
e che tutte le sere a tarda sera terminava
tra sbuffi di Gauloises e stecche di biliardo
su cosa s’è sbagliato e poi chissenefrega
E il viaggio il miraggio tutt’era inconfessato
pareva uno spettacolo spianato
giallograno verdefoglia rossoterra
e infine quel mare dove un giorno arrivammo
l’insegna del Martini la piazza la spiaggia
e lei che m’attendeva
guardando l’immenso l’azzurro
del mare di Denneville
Mesi e mesi di amore scavato nella carne
ero forse un passante nel tuo giro di morte
fingevo ma ti amavo davvero ti amavo
quando all’angolo del bar tremando mi dicevi
je sais qu’on s’est passé quelque chose
qu’ici s’est partagé…
quando a un mare lontano
e forse non a caso ti ritrovavo
sulla mia strada
Capace amico di incoscienza
sii testimone di questa ricerca
sassi raccolti su scogliere di granito
fari notturni alghe di scarpe
reti da pesca e ostriche e vetrate di bar abbandonati
maree e ritirate di spiagge e di falesie
sii testimone di quanto ho annaspato
del lavoro operoso senza salario
cazzate e risate e imbuti improvvisi
di scale e di silenzi
Tu eri là
incarnata libertà che avevo sognato
e che il mare levigava
senza il coraggio di avvicinarti
ma nel cuore la certezza che giammai
avrei scordato qual mare di Denneville
dove l’ultima volta ti avevo amata
e lasciata nel tuo male
al mio ritorno
L’uomo che ha deciso di condannarsi
così riparte
con quel poco di dolore lasciato
a un’altra volta e quel poco di gioia
– vedrai le scriverò
né spezzerò questa corda di vene che ci unisce
e poi potrò tornarci se una volta è già stata
Così la Bretagna e la Bassa Normandia
invitavano al calore del ricordo
fissavano un estremo al ritorno da grandi
con mogli sicurezze e l’incerto retrogusto
di un vino mal scelto
Ciò che andava cercato era tutto
raccolto in un angolo di casa dal tetto spiovente
di travi e di abbaini
sotto un manto di coperte
nel sonno che sorprende
mentre si ride si parla e un po’ si straparla
di donne e di avventure
E noi eravamo noi proprio i pellegrini
senza fiato a piedi nudi nelle sabbie di Genêts
traversanti la Baia che invece a un monte
sospeso guardavamo come all’ultimo traguardo
al vero da capire
un poco ingannandoci
tenendoci per mano
La notte che eterea effonde
La notte che eterea effonde
creando e disfacendo il calice del mondo
l’infanzia che incombe ricorre nell’ombra
eppure non s’arrende davanti al tuo portone
il giudice che addita
la croce e la delizia del paradigma
non dolo non volo eppure bisogna
Bisogna glielo dica – solo questo aspettavo
mentre lasciavo la soglia della casa
l’interdizione antica stampata nella carne
che il figlio non possa più in alto del padre –
e lei che così morbida vestita nel bianco
assolato dei vent’anni che ormai da più giorni
all’uscita di scuola aspettava l’estate
del primo bacio dei pugni chiusi – pensavo
Signore quale distanza commette l’amore
me così in guerra lei così serena
Mio amore mio nel sogno
ho troppe e troppe cose da dirti insospese
sul filo dei secoli che ho dovuto annodare
viaggiare più veloce delle cose che sfuggono
di te che scendevi nell’ileo del sogno
di me che sul bivio ogni volta esitavo
chi sono o chi ero ma se uno all’inizio
sei felice – avesse chiesto – ch’ero troppo e leggero
e che un giorno avrei pagato
La tua follia dischiusa al sorriso
improvviso che uno al primo amore
dimostra incosciente paradiso di colori rosso giallo
e l’umido tra i petali che s’aprono sbocciata svelata
in quel lenzuolo sulla spiaggia che morbido avvolgeva
tutto il bello del mondo
e più non c’è altro bisogno né credo
sei tutto il cielo – avevi detto
le braccia levando mentre ti stringevo
mangiandoti a sbafo sentendoti gridare
affermare al tuo culmine
La tua follia di quando correvamo
vogliosi ed impazienti le scese del tuo parco
e sotto la cerniera fremente del tuo Levi’s
dicevi – non c’è niente baciamoci per strada
nel cinema all’aperto in un angolo alla metro
bagnati di pioggia d’estate ed avventati
dimènticati il padre qualunque cosa sia
è nostra la vita
la nostra follia sfilata sui sedili
la gonna e la camicia l’esposta frenesia
tu nuda e sfinita bellissima e nudata
di che l’amore sporca
di scrupolo e vergogna
ch’è adesso che ti amo e sei tu la mia gioia
presente mia storia che in te si rinnova
per cento e mille notti
ch’è adesso che ti amo
mia terra e paradiso soffiato tra i capelli
tra i seni e le ginocchia
che sfioro discopro risalgo in cui mi perdo
e tutto era insieme tua gioia mia gioia saziate
ugualmente ché ancora ti amo davvero ed ignaro
se per il tuo nome di interno berlinese
o per la mia attesa che ti aveva creata
segreto immarcescibile di colpa e di pulsione
vita aggressione
La tua follia scappare via
che importa a Milano che sia il teatro
sia la poesia sianche il diavolo
ma lasciami un figlio che almeno ricordi
che porti i tuoi occhi
Mio amore disperato e tua follia
non ero più niente eppure esistevo
per tante e tante lettere per ore al tuo telefono
– anche l’amore vi avrei fatto –
anche l’orrore l’amputazione di camere ostetriche
l’incesto la dilazione del padre della madre
qualunque copione che tu mi cucivi perché ti divertissi
perché corrispondessi a come mi volevi
– l’avessi potuto mi sarei annullata
anche per te avrei pianto
quando mi tradivi iniettandomi veleno
quando pure ogni tuo bacio per me era il primo
il giorno dopo al mattino
se solo mi chiamavi e mi prendevi
ma lasciami un figlio che viva per sempre
e che ci sia
La tua follia normale incontenuta
che il tempo annullava che il corpo e la vergogna
che infanzia infondeva per sempre ed ancora
era quello che cercavo io ero tu eri
mito incarnato riscattata morte
Franzi mio amore
non posso arrestarmi di chiamarti di sognarti
non posso che amarti in ogni terra sconsacrata
cui il vento mi spinge di insania di nevrosi
in cui ti cerco stesso corpo stesso nome
metro di misura di altro amore
pietra miliare sulla strada che ho corso
creando e disfacendo ciò che è stato interrotto
dalla tua morte e più non so vivere
il mondo è svuotato la pagina bianca
penosa ricerca il lavoro ben fatto
inutile un’altra
impossibile amore
Se uno muore è già morto
se uno ama è già amato
ma i miei giorni passano nel dubbio
che forse avrei dovuto rincorrerti all’altare
rincorrerti a scuola rincorrerti ancora
e non questa corsa finita nel mezzo degli anni
del corpo mezzo dentro mezzo fuori
nato morto morso rimorso
gioco dovere l’asfissia l’aria
tu ed ogni altra
Se ci penso quale condanna
farti fuori per amare
dover scrivere per vivere
da LA DIMENSIONE DELLA PERDITA
Si incamminarono al mattino presto, prestissimo.
La notte era fonda.
La baia da traversare estesa, pericolosa, profonda.
Il mare li sommergeva quasi.
Non c’erano guide, né rotte sicure.
Nessuno ci aveva ancora provato.
Camminavano lenti, ciascuno con le proprie angosce,
col proprio minuscolo uomo da trasbordare.
Camminavano in silenzio, ciascuno da solo con se stesso.
Avevano cercato tutto, tranne la felicità.
Avevano trovato tutto, tranne l’amore.
Soltanto l’uomo profondamente solo può viaggiare
nel treno di notte, senza prender sonno,
passando le ore a guardarsi nello specchio,
andare avanti e indietro nel vagone letto,
sobbalzando ad ogni scambio di rotaie,
e quando è l’alba scivolare in silenzio dal finestrino,
inghiottito fra cielo e mare
La bella estate è finita.
Come finisce uno sguardo, un sorriso, un bacio
—–prima dell’addio;
come si spegne il televisore sul mondo in festa,
come si chiude una finestra, silenziosa, dietro le spalle.
La bella estate dei ritorni dal mare,
degli amori vecchi e nuovi, delle storie inventate.
Se mai un giorno ritorneremo vivi
dovremo cercarle le parole,
per raccontare cos’è stata questa felicità e questa perdita,
dopo la quale non sei più com’eri,
in piedi nel primo mattino del nuovo inverno.
da DISAMORE
Talvolta, nel bel mezzo di una festa,
di un giorno qualunque,
mi coglie la sorpresa di un brivido,
la sensazione di aver concluso nulla.
Mi prende un impulso, oscuro.
Vorrei scappare, sparare, sparire.
E così accade.
Il suono squarcia l’illusione.
Riporta le cose così com’erano,
al grado zero di ogni mattino,
quando mi sveglio, mi stendo,
e con la mano l’avverto che il letto è vuoto,
che tu, l’amore, poesia, la vita.
Tutto finito, consumato.
Risolto.
Come tutti, io potrei ammazzare.
Ammazzare in modo premeditato o casuale,
una bestia, un cucciolino, un uomo indifeso.
Come tutti, mi rifiuto di pensare che posso ammazzare,
che riesco a ammazzare.
Come tutti, reagisco con violenza a chi mi addita come un mostro,
dico che mi conosco, non l’ho mai fatto, nemmeno ci penso.
Ecco. È questo il punto, certo.
Non pensarci mai,
non avere mai varcato la soglia della caverna,
dicendosi sicuri di non esser Polifemo.
Chiudi la lampada, mi dico, vattene a letto.
Cerca di raggiungere tua moglie, tua figlia, quelli normali.
È già passata la mezzanotte.
Cosa vuoi che aggiungano due chiacchiere, ancora,
a una vita sbagliata fin dall’inizio, e mai vissuta.
da ATTENDERSI DI LÀ
Uscendo di casa
sentii un profumo fortissimo
fruttato, trascinante.
Gelsomino forse,
un corpo nudo,
il fresco del bucato appena fatto.
Chiusi gli occhi,
feci cadere la risma dei fogli
che avevo tra le mani.
Ero lontano ormai,
leggero, distaccato.
Potevo tornare a sognare,
tornare all’amore, ai vent’anni.
A domani.
Finita quest’estate, dovremo cambiare.
Troppo lungo è l’inverno,
troppo lunga la distanza
tra un viaggio e l’altro,
tra un mare e l’altro,
tra me e te.
Lasciamo perdere le navi d’altura.
Forse le barche potranno bastare,
per essere felici.
da ROSSO. INTERLUDIO
Sono un volatore.
Trasmigro tra le nuvole nere dell’oblò
quando il mondo dorme.
Son costretto a volare, certo.
Presto o tardi, l’inverno ricade sul nido,
e allora bisogna tornare indietro,
trovare un comignolo.
Dire che il viaggio è stato duro non è corretto.
Ma che ad ogni stagione si perdano
voci e baci e incontri, questo è vero,
e non è poco, l’incerto.
Se vuoi trovarmi, cercami dove non sono,
dove non dovrei stare, non dovrei dire,
non dovrei fare.
Probabilmente è lì che mi trovo,
con tutta la verità che nascondo.
Cado. Mi illudo. Cado.
È questa l’altalena della vita.
In questa solitudine continua
mi giro, e non trovo il tuo sguardo.