Dino
SALVATORI

Dino Salvatori è nato a Roma nel 1936, ha lavorato come avvocato e professore a Teramo, dove è scomparso nel 2011. I suoi libri di poesia sono: Opera prima (Roma, 1958, Premio “Omnia” 1957), Le dimore del tempo (Firenze, 1994), Lo stato delle cose (Ragusa, 1998), Allegro con brio (Ragusa, 2002), Elogio della terza virtù (Ragusa, 2004), Il canto delle sirene (Bologna, 2012); e figura nelle antologie: “Poeti nel mondo, Esemplari del linguaggio poetico contemporaneo” (Ragusa, 1998), “Teorema, Poeti contemporanei” (Ragusa, 2005). Di saggistica ha scritto: Bagatelle. Breve saggio asistematico sulla modernità (Firenze, 2014). Un suo profilo letterario è contenuto in “Contributi per la storia della letteratura italiana, III, Dal secondo Novecento ai giorni nostri” (Milano, 2020). Fin da giovane, fu partecipe della vita politica cittadina, ricoprendo, tra l’altro, la carica di consigliere comunale. Dopo la morte, il suo pensiero poetico preminentemente filosofico e speculativo è stato riscoperto e riproposto da Paola Lucarini che ne ha letto e commentato gli scritti, intrisi di una imprescindibile istanza metafisica che apre le porte alla fede in Dio di fronte al suo “illimitato logos”. C’è, ancora, nei suoi versi, un costante impegno politico, civile, sociale, che trae in parte spunto dalla sua professione di avvocato, spesso rivolta alla tutela dei più deboli, nonché più in generale dall’esperienza politica come indipendente di sinistra.

https://dinosalvatori.weebly.com

POESIE

Memoria (da Opera prima, 1958)
In sì pensoso morire
di luci diffuse,
in sì lieve confluire
di voci recenti lontano,
m’avvedo che il tutto ch’io guardo
s’avvia a diventare memoria.

Suvvia, facciamo di nuovo… (da Le dimore del tempo, 1994)
Suvvia, facciamo di nuovo
l’atto, fisico e mentale
insieme, dell’oblio.
(Com’è ancora oscuramente
reale salvarsi).
Stabiliamo la dolce
fisiologia dell’oblio.
Sia un ordine a tutte le cellule:
lavorate all’oblio.

Una sola parola (da Lo stato delle cose, 1998)
Sfuggirò l’infelice esito dei grilli
e l’arco delle cicale che si consuma
in giorni inenarrabili, d’estate.

Una sola parola ha ciascuno
il resto è di sé vana replica.

Chi illimite pensò il suo giorno?
Improvvisa la sera nei deserti,
d’un tratto, anche il futuro è memoria.

Paideia (da Lo stato delle cose, 1998)
Sulla superficie delle cose
né più sotto né più sopra
tra colori, densità, ritmi.
Qui getterai i tuoi dadi
e non sarà illusione
allo sguardo la scala della luce,
né l’umana via della conoscenza.

Quando dalle stagioni dell’adolescenza
cercherai un’uscita e dal labirinto
dei sogni, qui toccherai
il pieno e il denso. Né più sotto
ove ristagnano grumi,
che alle forme premono, né più sopra,
ove la tua misura si perde,
ove solo Dio dimora.

E non entrano dentro le cose,
non temere. E non fanno male.
Sfiorano appena, come brezza le foglie.

L’essenza delle cose (da Lo stato delle cose, 1998)
Non è l’essenza delle cose
uno stare torpido e greve
nell’essere, ma una costanza,
per tenaci decreti, nel turgore
delle forme, che si piega
se la grazia si smaga, se si perde.

Come l’accolta di cipressi scema
che nel lume glorioso del giorno
svetta, se non sciama la terra
nell’aria, se non preme il cielo.

Come il fuoco vacilla,
che ha forma irta di spade,
se il ciocco consuma
l’ansia di luce che lo muta.

Se nonostante tutto (da Le dimore del tempo, 1994)
Grave, la sua dolce
giovane tristezza di operaio
di giovane uomo offeso e dimezzato.

Vogliamo oggi rivolgere
un pensiero puro
tutto intero e deferente
alla sua mano di operaio
finita in un giorno fuori dalla storia
e nondimeno prassi e storia dell’anno
millenovecentosettantuno
in una macchina impastatrice
con grate di protezione
senza blocchi meccanici.

Su quella mano di cui
fa a meno da un anno
è grave la sua tristezza di operaio.
Fa pensare alla sua mano
sinistra che firma,
così tremante e umana,
più politica di un comizio.

Dopo molto tempo, ho rivisto
la radiografia del suo braccio.
Non ha insegnato niente a nessuno
e noi non vogliamo più cambiare il mondo.

Se, nonostante tutto, l’amico Bilò volesse,
se non stimasse innaturale
(oh, il suo pudore di operaio)
tradurre il dolore in parole;
se, nonostante tutto, la mano
tendesse, come una mano
amica scenderebbero nella sua
questi liberi versi.

Parla il ladruncolo (da Le dimore del tempo, 1994)
A detta di molti è possibile
vengano tempi migliori, ma…
io sono il ladruncolo.
Giro per le strade di notte.
Non cerco tesori. Il poco
mi basta e quel che trovo
lo tengo. Ogni notte mi licenzio
dal mondo e, infreddolito,
dormo nelle stazioni. Guardo
le stelle cadere sull’orizzonte.
Il domani non mi riguarda:
non appartengo alla speranza.

La pietà (da Allegro con brio, 2002)
La pietà declina
in frettoloso liberatorio dare
e più la virtù grave
del ricevere paziente,
porta che s’apre.

Signore dammi il pane quotidiano (da Le dimore del tempo, 1994)
Signore, dammi il pane quotidiano
e salvami dalla rivelazione.
Mantienimi quadrata l’intelligenza,
e brevilinea la volontà.
Negami ad inutili disegni
e a pensieri grandi e vani.
Fa’ che non trovi il mio maestro
e abbia gioia dei miei discepoli.
Conservami alla mediocrità,
che io sia il primo dei mediocri
e senza fatica sarà vasto il mio regno.

Se di mattina butti un seme d’arancia
nella terra umida e calda di Cuba,
la sera trovi un aranceto.
Hikmet

Ricordi di Cuba (da Il canto delle sirene, 2012)
Cuba esportava negli States
ritmi musicali e zucchero,
zucchero di monocultura,
zucchero di oppressi.
Se l’uomo è ciò che mangia,
alimentare chi fa storia,
assicura partecipazioni
ai destini del mondo.
E Cuba partecipava
ai destini del mondo
come cortile sotto casa degli States.

Poi, vennero uomini barbuti,
avevano un’altra idea della storia.
Ci volle del tempo, ma nel gennaio del ‘59
scesero un’ultima volta dalla Sierra,
diretti a L’Avana. Batista era fuggito,
non restava che rispedire gli Yankees a Miami.
Certo, i ragazzi della American City Bank
non la presero bene, si divertivano da matti
nei casinò e nei bordelli di Cuba.

Quattro, sei ore, nuovo e strano ritmo
le parole di Castro. I cubani ascoltavano
felici. Bisogna capire, su di loro
e per loro nessuno aveva mai parlato tanto.
Da allora, Cuba incominciò
ad esportare speranze.

Nel ’61, l’albergo Habana Libre ospitò
Nazim Hikmet, poeta turco, giunto a Cuba
da Praga dopo diciotto ore di volo.
Nazim aveva 59 anni e il cuore malato.
Era innamorato di una giovane donna
dai capelli di fieno e dalle ciglia azzurre.
Nulla è più doloroso dell’amore,
quando il cuore è malato.
Ma Nazim era aperto alla vita,
è una cosa seria, diceva, sul serio
prendila. E poi era felice
per le canzoni, i colori, la gente di Cuba
e per la rivoluzione soprattutto.
Andava in giro cantando:
“Somos socialistas, adelante, adelante”.

Il cuore di Nazim si fermò a Mosca
l’anno dopo. Cuba esportava ancora speranze.

La bella stagione (da Elogio della terza virtù, 2004)
Diffusa nell’alba
tra le nubi rosa,
respira odori sottili
nella deserta frescura
delle piazze. Nel meriggio
dalle forre spia archi
ed ottoni, che il vento
intona nei boschi
scompigliati. Sempre
è raccolta nella luce
e nell’ombra, nelle acque,
nei volumi talora
pensati dell’aria, nei deserti.
Sta il suo pensiero
celato come in polla d’acqua
un segreto fiore di serra.

La voce bella (da Lo stato delle cose, 1998)
…spesso
dell’orco mi canta
che c’era una volta
che la fata un giorno…
Con voce bella canta
e lei solo ascolto
né fate né orchi né maghi
che le chiedo sempre
perché con voce bella
canta. È un cerchio
la vita, un riandare.
Non esco ancora, fedele,
dalla casa del padre
verso linee frante,
non ancora verso
l’ansia di addii.

I pendolari (da Le dimore del tempo, 1994)
Passi frettolosi muovono
I pendolari che partono nella notte.
Stanno insieme in silenzio
con facce di uccelli tristi.
Di rado rompono il silenzio
gli esseri in cattività e le parole
fanno aria fredda d’inverno
intorno. Vecchio, molto vecchio
sarà ogni giorno avvenire.

Il muro (da Il canto delle sirene, 2012)
Troppi muri nel mondo, segnano
l’esclusione. Muri ad Oriente,
muri ad Occidente.
Si addicono alle paure del mondo.

Ma il muro in Vico degli Orti mi è amico,
qui abitarono i miei nonni e mio padre.
Non è, dunque, come gli altri muri della terra.
Un folto intrigo
di foglie rampicanti, coprendolo, lo anima
di tutte le sfumature del rosso
Monocromatismo con variazioni,

diffonde nell’aria di ottobre gli odori del vino.
Ed anche omologhi suoni.
Restano alcuni su toni medi e vellutati,
si fanno arditi altri e, nel pieno orchestrale,
svettano sicuri. Dentro, antichissimo,
un alto noce scavalca il muro
con rami di robusta vecchiezza.

E i giorni… (da Le dimore del tempo, 1994)
… e i giorni, capelli biondi, occhi
azzurrissimi, teneri e generosi,
era l’età in cui ti confondevo
con le spighe, con le chiome
del granturco maturo
con gli alberi fanciulli,
con la pioggia e la tenerezza.
Non carne eravamo, ma terra,
vivo cielo, nuvole bianche,
luce, tanta, foglie estive
gonfie di brezza, infinite…

Torna in alto