La Poesia italiana del Novecento - The italian Poetry of the 20th century

Pasquale Di Palmo


 

Pasquale Di Palmo è nato nel 1958 a Venezia, dove vive. Ha pubblicato le raccolte di poesia: “Quaderno del vento” (Stamperia dell’Arancio, 1996), “Horror Lucis” (Edizioni dell’Erba, 1997), “Ritorno a Sovana” (Edizioni L’Obliquo, 2003), “Marine e altri sortilegi” (Il Ponte del Sale, 2006), “Trittico del distacco” (Passigli, 2015, Premio Ceppo Pistoia 2017) e varie plaquettes, tra cui “Addio a Mirco” (con illustrazioni di Pablo Echaurren, Il Ponte del Sale, 2013). Sue poesie sono apparse in numerose antologie e riviste, tra cui «Nuovi Argomenti», «Poesia» e «Paragone» e sono state tradotte in diverse lingue. Ha pubblicato i saggi: “I libri e le furie” (2007), “Lei delira, signor Artaud. Un sillabario della crudeltà” (2011) e “Venezia. Nel labirinto di Brodskij e altri irregolari” (2017). Ha curato e tradotto diversi volumi, tra cui opere di Artaud, Corbière, Daumal, d’Houville, Gilbert-Lecomte, Huysmans, Michaux e Radiguet. Ha inoltre curato “I surrealisti francesi. Poesia e delirio” (2004), “I begli occhi del ladro di Beppe Salvia” (2004), “Neri Pozza. La vita, le immagini” (2005), “Saranno idee d’arte e di poesia. Carteggi con Buzzati, Gadda, Montale e Parise di Neri Pozza” (2006), “Album Antonin Artaud” (2010). Collabora all’inserto culturale “Alias” del quotidiano «Il manifesto».

 

pdipalmo@alice.it

 

POESIE

 

 

 

da RITORNO A SOVANA

 

 

 

***

 

Nel cielo di un’emicrania si propaga

la sirena che fende il panorama

degli alberi rachitici che affiorano

dai calanchi della zona industriale.

 

Si incide sulle vertebre la scheggia

marcita della febbre quando appare

l’eumenide dalla carnagione di cera,

fissandomi con occhi da megera.

 

Dentro le ossa scava questa musica

di unghia che si spezza fra le trine.

Dopo mesi di psicofarmaci imparo

di nuovo a camminare. È aprile.

 

 

 

La visita di Horus

 

 

Non mi ricordo se fosse ad ottobre

– tu non avevi ancora dieci mesi –

che Horus si posò

sul davanzale della mia finestra,

restando immobile a fissare

un panorama di alberi scheletriti e cascinali.

Era un esemplare di dimensioni

modeste, poco più grande dei piccioni

che cacciava lungo campi

e argini di questa ragnatela di canali.

Io mi avvicinai cautamente, rimasi

immobile quanto lui,

forse a mezzo metro da lui,

osservando finalmente il dettaglio

delle sue penne tra marrone e cinerino,

l’occhio rotondo e severo rivolto

per un attimo, unica

concessione del dio, al mio stupore,

prima che definitivamente nel vento

del primo pomeriggio si involasse.

 

 

 

 

 

da MARINE E ALTRI SORTILEGI

 

 

***

 

Quando sto male arrivo fino a qui,

dove il vento delira intorno al faro

di Punta Sabbioni

e cammino pensando

intensamente di essere un ramo

dondolato dal vento,

uno dei macigni che arginano

gli schiaffi di cobalto delle onde.

In questi giorni di fine

gennaio non c’è nessuno sul molo,

troppo forte è il vento

che ti buttera il volto seminascosto

dal bavero del cappotto

con una miriade di piccoli spruzzi.

Quando sto male arrivo fino a qui,

cammino stringendo al petto

un quadernetto di poveri appunti,

e penso di essere qualcosa di inanimato,

sasso nuvola bottiglia

che qualcuno ha lasciato sulla battigia.

 

 

 

***

 

Guidare lentamente lungo il dedalo

di strade che si affacciano sul mare

scontroso di questi mattini invernali

senza sapere perché, dove andare.

Ma basta sentirlo

tra le costole, sul palmo

delle mani come stimmate,

sul volto come l’erba

brucata dalle capre,

questo sole lunatico

che aggira pigramente il versante

azzurrino del litorale

per nascondersi tra i rami

folgorati di quel mandorlo

a cui pende, mano

mozzata, il tenero presagio delle gemme.

Poi piomba sul viso, acceca,

portando con sé il pallore

irriducibile di chi non ha pudore.

 

 

 

***

 

Avanti miei ossicini,

ribadite nel vento

il disegno sbilenco

di un castello anatomico

 

con folgori di vene

azzurre che attraversano

feritoie e orifizi,

lo sguardo impietrito sull’erba

 

di parole bruciate come stoppie,

brucate dalle capre

che arrancano abbaglianti

verso la torre rovesciata del sangue.

 

 

 

 

da TRITTICO DEL DISTACCO

 

 

Addio a Mirco

 

Eccolo mio cugino

che mi cammina a fianco

nella luce ubriaca del primo pomeriggio

e, chissà perché, mi dice: «Lo sai

che quand’eri più giovane

assomigliavi a Pirlo?»

 

Ecco, l’avevo rimosso

questo particolare,

adesso che non posso

più incontrarti lungo il traffico

patibolare di via Colombo

e accompagnarti in macchina

fino alla stazione

perché, a quasi quarant’anni, non hai la patente

e non sai guidare.

 

Ma chi sa guidare

la vita che pregiudica la vita,

se perfino la tua compagna

ti punta alla gola, nel sonno,

il coltello più affilato?

 

Ora che non ti posso

più incontrare vorrei dirti

che non mi eri cugino

che non mi eri fratello.

Assumi, come Pirlo,

le mie sembianze di un tempo.

Rincorriamo nel vento,

felici della nostra infelicità,

la palla immaginaria

che non hai voluto, saputo stoppare.

 

 

 

Via Circonvallazione

 

Qui, dove sorgeva l’ospedale

Umberto I, passeggio ogni mattina.

Al posto dei padiglioni il vuoto

recintato di un cantiere

cadenzato da sbuffi di erbamatta.

Nelle zone limitrofe

sono ancora in attività i negozi

che hanno contrassegnato la mia infanzia:

edicole farmacie

sanitari pasticcerie.

Al loro interno non si vede nessuno.

Molte imprese di onoranze

funebri dai nomi

tristemente famosi: Rallo Sartori

Fratelli Ferraresso Amadori.

Dietro l’area dell’ospedale,

lambito da un canale,

c’è ancora il vecchio

parcheggio, frequentato da bengalesi e pachistani.

Nell’erba si vedono detriti, una siringa.

Il cielo ha un colore schiacciato, di decomposta aringa.

 

 

 

Via Paleocapa

 

Avevo l’età di mio figlio, la stessa sfrontata allegria.

 

Dopo le partite giocate in cappotto

andavo con gli amici in una pasticceria

che risaltava appena nella foschia

di pomeriggi invernali

strappati all’ignominia della vita.

 

Sarà stato il ’71, il ’72.

 

Il pasticciere era un vecchio fiorentino

che si chiamava Marino.

Unica specialità il castagnaccio.

 

La pasticceria si trova tuttora in via Paleocapa

anche se ha cambiato

a più riprese gestione.

 

Ci torno a volte con mio padre

sempre più svogliato

e abbruttito dopo l’ictus.

 

Di castagnaccio nemmeno parlarne.

Mangiamo un croissant, ci guardiamo intorno.

 

Raramente appare qualcuno che conosciamo.

 

Fuori sfrecciano gli autobus,

il cielo si divincola fra i rami.

 

 

 

***

 

La notte prima della tua scomparsa

ho rischiato di investire una volpe

con la mia Opel, in via Ca’ Paliaga.

È apparsa come un lampo

bianco e cremisi, la stessa

improvvisa evanescenza di un fuoco

fatuo nell’oscurità.

È apparsa all’improvviso

come una stigmate su un palmo,

lo sfregio di una lama su un bel volto.

E proprio quell’animale estraneo,

a suo modo araldico,

doveva annunciarmi,

ebbro di sventura, che saresti

l’indomani soffocato

nel bozzolo stesso del tuo fiato.

Chissà se, nel tuo letto di ospedale, 

la notte prima della tua scomparsa,

sempre più piccolo e indifeso,

hai sognato una volpe

che mi attraversava la strada.

 

 

 

***

 

Io, diventato padre di mio padre.

Tu, diventato figlio di tuo figlio.

Ti lavo ti sfamo

ti accudisco.

Mangi, come un cane,

dalla mia mano.

Non articoli che poche

parole intelligibili

scandite in corone

di frasi senza senso.

Parole che somigliano al silenzio.

Mi guardi e ti guardi.

Con quegli occhi

sempre più piccoli e smarriti

mentre la tua voce di nebbia

mi esorta febbricitante a portarti

– «andemo dài andemo» –

laddove non esistono che nuvole

ignare di ogni nostra parentela.

 

 

 

***

 

Papà, adesso che no ti ghe xe più,

vorìa dirte

quelo che no so mai riussìo a dirte

co ti geri vivo

co ti gavèvi bisogno

de na parola, de un gesto de affetto

dai to fioi, dal to fìo più vecio.

 

Papà, adesso che no ti ghe xe più,

vorìa dirte

quelo che non so mai riussìo a dirte

per pudor

per superbia

perché me credevo, mi che leso

e scrivo tanti libri,

de esser da più de ti.

 

Papà, adesso che no ti ghe xe più,

vorìa dirte

ne la to lingua

ne la lingua che ti parlavi ti

fin da putèo,

vardandote fisso nei oci,

«Te vogio ben»

e darte un baso, papà,

su la to fronte granda

scavada dai pensieri

che scampa come bisse sora l’erba.

 

 

Papà, adesso che non ci sei più, / vorrei dirti / quello che non sono mai riuscito a dirti / quand’eri vivo / quando avevi bisogno / di una parola, di un gesto di affetto / dai tuoi figli, dal tuo figlio più anziano. // Papà , adesso che non ci sei più, / vorrei dirti / quello che non sono mai riuscito a dirti / per pudore / per superbia / perché mi credevo, io che leggo / e scrivo tanti libri, / di esserti superiore. // Papà, adesso che non ci sei più, / vorrei dirti / nella tua lingua / nella lingua che parlavi / fin da bambino, / guardandoti fisso negli occhi, / «Ti voglio bene» / e darti un bacio, papà, / sulla tua fronte ampia / scavata dai pensieri / che scappano come bisce sopra l’erba. 

 

 

Alzheimer Centre

 

Now you’re a tree, Da,

one of them trees

as don’t need nothing anymore:

all it takes is a breath of wind

a breath of rain

to live a life

full of shivers,

of nightingales singing full throat.

The leaves have your voice

and when the storm breaks out

you flash with the lightning

crack up with the thunder.

Now you’re a tree, Da,

one of them trees

as gave you shade

in the hospice garden

when me or my siblings

used to wheel you around,

silent, hunched into yourself

– only this summer.

Now you’re a tree, Da,

a great tree

with no name

where wee little sparrows take shelter

when the wind blows

and life forgets about life

and me, I forget

that you are gone.

 

 

II

 

The night before your passing

I nearly ran over a fox

driving my Opel down the Via Ca’ Paliaga.

She flashed before me

like white & crimson lightning, the same

sudden fade-in-and-out as a wisp

o’the willow in the dark.

She flashed up suddenly

like a stigmata in a hand’s palm,

a blade slashing across a lovely face.

And it was in fact that strange animal,

heraldic in her own way,

that announced to me,

drunken with misfortune, that you would

the following day be smothered

in the cocoon of your own breath.

I wonder, the night before your passing,

ever more small and defenceless

in your hospital bed,

did you dream of a fox

crossing my path.

 

 

 

X

 

I, turned into a father to my father.

You, turned into a son unto your son.

I wash & feed you

look after you.

You eat, like a dog,

out of my hand.

Articulate but few

intelligible words

strung into wreaths

of words without a meaning.

Words that resemble silence.

You look at me, at yourself.

With those eyes

ever more small and bewildered

with your voice made of mist

feverishly entreating me to take you

– «let’s go come on let’s go» –

where there are only clouds

unaware of our ever being related.

 

 

 

 

XI

 

You’re going without a word

of farewell, a grimace to take leave

of your children sat around you,

your eyes lost in a whirlpool

pulling you ever down

deeper down

deeper down

deeper down.

By midnight you’ll be gone.

 

 

XIV

 

Now that you’re gone, Da,

it is your turn

to help me from up above.

To guide my steps

like when I was a child,

show me how to walk across the grass.

Let’s start again, hold me

by the hand, allow me to be,

in another life,

your son again.

 

 

 

Da, now you’re no’here no more,

I want to tell you

all I never could tell you

when you wis alive

and needed

a word, a whisp of affection

from your born ones, from your eldest son.

Da, now you’re no’ere no more,

I want to tell you

all I never could tell you

out of bein’ proper

out of bein’ puffed up

because wiv all them books

I read & write I thought mysen

massier than you.

Da, now you’re no’ere no more,

I want to look deep into your eyes

and tell you

in your own tongue

the tongue you’d spoken

ever since a babby,

tell you «I love you»

and Da, give you a kiss,

on that wide brow of yours

hollowed out by thoughts

scampering away like snakes over the grass.

 

 

(traduzione di Cristina Viti)

 

 

 

 

Xolótl

 

Des années durant je me suis demandé pourquoi

un chien noir apparaît

dans cette image qui tant détonne

avec les portraits en buste

de ceux qui sont là et ne sont pas là.

 

Peut-être Xolótl, le dieu-chien, t’accompagne,

avide de cajoleries et de caresses,

le long du chemin aéré qui mène

là où – mais pas pour nous –

la lumière délire.

 

Pour les Égyptiens Anubis

pour les Chinois T’ien-k’uan

Cerbère pour les Grecs

pour les Germains Garm :

 

on sait que les anciens associaient

la mort au symbole du chien.

 

Mais ta mère a choisi cette photo

seulement parce qu’elle t’imagine serein

dans un jardin anonyme

alors que tu caresses le chien

qui à jamais protègera ton sommeil.

 

 

 

 

***

 

À présent tu es un arbre, papa,

un de ces arbres

qui n’ont plus besoin de rien :

il suffit d’un peu de vent

un peu de pluie

pour vivre une vie

pleine de frissons,

de rossignols qui s’égosillent.

 

Les feuilles ont ta voix

et quand l’orage se déchaîne

tu t’éclaires d’éclairs

tu t’éclates de tonnerres.

 

À présent tu es un arbre, papa,

un de ces arbres

qui t’ombrageaient

dans le jardin de l’hospice

quand mes frères ou moi

te conduisions, taciturne, voûté,

dans ta chaise roulante, l’été dernier.

 

À présent tu es un arbre, papa,

un arbre grand

sans nom

où les moineaux se réfugient

quand il y a du vent

et la vie oublie la vie

et moi j’oublie

que tu n’es plus là. 

 

 

(traduzione di J.C.V.)