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POESIE
da LA MANTIDE E LA CITTÀ
Giorno
per giorno qualche nome si eclissa
dalla mia lingua e dalla mia
memoria,
usuali parole come sedia
bottiglia
Oh,
trafelate corse per riprenderne
possesso! Annaspo naufrago
in
un mondo che sempre più smarrisce
i suoi eoni, balbetto
come
Mosè presso il roveto ardente.
E con
nervoso tremito pronuncio
casa
farfalla mela
per
esorcizzare la buia notte
che si avanza a grandi passi;
ma poi
casa
precipita,
farfalla
si
polverizza in
porpora,
mela
mi è tolta divorata dal verme
che abita il mio cervello.
Come
mi muoverò, poeta senza
gli amati nomi succo delle cose,
tra i
buchi d’un saccheggiato universo?
In
questo azzurro di settembre che si dilata
oltre il confine dei
miei occhi verso
regioni dove non arriverò mai
ci sono chicchi
d’uva che altre bocche
schiacceranno tra i denti
ignorando
questo mio torrido angolo di sete.
In
quell’altrove fiori d’ombra sbadigliano
alla sera di un’isola
abitata
dai corpi adolescenti di Nausicae.
Non le vedrò dal
mio raro trifoglio:
creste in fiore riarse dalla polvere
grucce
al riposo di magre locuste.
Oltre
il confine dei miei occhi il mondo
per qualche nuova sua
intenzione scalpita
che io non so né mi restano giorni
per
saperne di più. La notte penso
di là dalle mie tenebre una
Circe
che si cala nel balsamo del mare.
da IL FILO DEL DISCORSO
Da
quadro a quadro il filo del discorso seguire
senza che troppa
tensione lo spezzi
o becco ostile lo intacchi
da
sinopia a sinopia
nel pomeriggio di pioggia che fa
alto lo
scroscio
finché
il cielo rispunta dalle nuvole
e ci prende per mano
verso un
viola-melanzana-yaèl
con
passeri sulle torri che rimproverano
gli indugi (vocine squillanti
di collera)
di chi
non vuol muoversi
di chi resta attaccato al soffitto
come un
moscone grasso.
E dal
viola al nero
il filo del discorso ostinati seguire
verso i
fischi di un’alba melone-amira finché
oh,
Har hatzofim!
ali ha ciascuno al cuore ed ali al piede.
Fastidio
certo un paesaggio dal nulla
col Règia
Parnassi
evocare
e
non possedere il divino
istinto che dice con nuove parole
la
luce di settembre.
Evocare
dal nulla
il merlo poliglotta, inghiottire sospiri
per una moto
che romba nel chiaro
e per l’uva, per l’uva
che non ha più
il privilegio
di apollinei palati.
Ma
disamo la morte malgrado
le sinistre sirene di film e poemi
la
disamo e distacco
da un soffio la bolla più pura,
la più
precaria e inutile libero
dalle parole.
E
rataplan
trovare da splendere
su tutto con bolle precarie
e vedendole
alzarsi nel vento
non soprassedere
sapendo che a esse è
negato
di durare oltre l’attimo, cingersi
di alone immortale.
Così
abbagliante ormai
la distesa di neve che la retina non ce la
fa.
Tutto è silenzio dopo la schianto dei rami,
nessuna parola
aveva colto nel segno.
da FUTURIBILI
Forse
perché c’è qualche
parentela tra cicuta e mandorlo
(e lo
conferma in ambedue l’amaro)
mi scheggia l’osso la
pallottola
diretta ad altri. Forse
perché c’è qualche
oscura
connivenza tra la neve e il fuoco,
nel refolo che
passa
sento frusciare i piedi dei vampiri
lungo gli asfalti
della città lontana.
Non ci
sono serrature alle porte
dopo le bombe.
Si può entrare e
uscire a piacimento
c’è un viavai di guerrieri.
Gettano
biglie d’acciaio
contro i vetri superstiti,
saccheggiano,
fanno
all’amore sul pavimento
delle cucine vuote.
Io
vorrei ritrovare la regina Ginevra
ma sono troppo stanco.
Sulla
strada per Gorre è stata violentata
da un birmano e da un greco.
da LAPIDI PER GLI UCCELLI
E
tremo sempre perché sei piccola
e la neve qui intorno così
vasta,
tu fuscello di brina
che a toccarlo si spezza.
E la
neve non sembra nemmeno
sentire il tuo peso.
Ma a
me
ti aggrappi forte, inventi sconosciute
tenerezze carnali
con
una voce d’orca che vorrebbe
spaventare anche i grandi,
ardore
smisurato con zampette d’uccello.
I
Il
disegno del tempo non aveva previsto
i nuovi aspetti della
voluttà
quando la primavera scintilla sui vetri
o in pioggia
si scioglie dentro fogne e cortili.
Nel lampo di cristalli e
allumini
il colore della terra si svela
per indizi malcerti,
sebbene qualcosa
d’insolito urge il sangue. Ora le ombre
si
fanno più distinte nel chiaro,
i rumori delle stanze si
confondono
ai cori dei clacson
e i quartieri tremano al vento
favonio, segnale
della dea che rinasce divum hominumque
voluptas.
Torna il suo soffio vitale e s’impenna
su gasometri
e torri
dentro l’azzurro così vasto e quieto.
Allora
spiegami tu cosa scrivere
se saccheggiato è il mondo e il poeta
una logora
istituzione fra tante.
Bambini,
fuochi-fatui-bambini,
accesi un momento su una terra
di fosfori
e sepolture gridano.
IX
E
tutta questa gente che mi supera
senza voltarsi indietro, non
badando agli ehilà
che grido alle sua spalle
(spalle piegate
in avanti nello
sforzo di andare più in fretta più in fretta).
Non li
ho veduti in viso e non mi hanno guardato.
Erano indifferenti agli
incontri sporadici
ai saluti e agli allarmi
E vanno (me lo
mormora la mia bile crepata)
al posto che anch’io so, che vorrei
anch’io.
Con nuche altere e certezze nel passo
caracollante e
superbo quali
nella mia vita non ho mai osato.
Ma io
non vado verso,
io mi sono fermato,
per questo qualcosa riesco a vedere.
XIV
Lui
non credeva che
fossero morti tutti gli uccelli e i fiori
malgrado
le notizie dei giornali
e il colore del cielo ormai caduto
in
mille pezzi.
Lui
per i monti invasi
dalle vespe in collera del nevischio
vagava
e non aveva per quel mondo
tante volte pestato con
trepida
felicità, non aveva da opporgli
che la noia del
sangue.
E la
neve dove le scarpe
d’amianto stampavano orme
copriva
formicolanti città dalle mille
zampine…
E lei
lontana così lontana
in quelle sue tenebre,
uscita ormai dagli
alberi e dal vento,
si toccava la faccia
per ritrovarsi e
volentieri avrebbe
piantato i denti candidi e minuti
in qualche
gola vivente pur di
riavere ancora nelle vene il fiotto
del suo
bel sangue
e i bioccoli di lana sulle siepi
e i sassi e i
tordi…
e ora
lui nella sua tuta
d’argento per strapparla
agl’inferi
doveva rinunciare
ai mille piani immaginati,
guardare avanti e
non curare il rombo
di sotterranee macchine.
Fendeva il fioco
barlume che un vento
intermittente soffia dal profondo,
e
l’ombra dell’amata lo superava
esile e lunga;
finché
promemoria di un corpo, fantasma
di un fantasma
svaniva
in una nuova densa oscurità.
Alle
spalle sentiva il ronzio
del robot: lento
esecutore dei patti e
custode
di quella morte che gliela faceva
remota, ancora la
relegava
nell’indefinitezza.
Così
pesantemente avanza
senza voltarsi namque hanc dederat
legem
inferna dea,
risalendo da tonfi e da odore
di fissile
polvere, rigido il collo
che al muscolo fiaccato
dal casco di
cristallo era un acuto
dolore. E quando
si fu
girato (ma perché?), al colmo
di un cieco impulso si era girato
(per
vedere cosa?) – solo allora seppe.
Lei gli gridava: “Mi
riportano sotto.
Addio. Ricordami. Non condannarmi se
tendendo
a te le mani non più tua…”.
E
allora seppe quanto
fosse quella galassia desolata.
E lei
che
il sottosuolo chiuderebbe nel suo
impenetrabile grembo
sottratta
alla luce, negata per sempre
al potere della parola
si
allontanava in fretta
verso il rumore della città di Dite.