Antonella ANEDDA
a Ida Porena
Per la notte che cade troppo tardi
per il cielo che rivela i crinali:
il monte nella sabbia, la città disadorna
nel grigio calore dell’estate
per questa paura
dovuta solo alla luce
al rame della pentola, al cibo che scenderà nel petto.
Occorrerà capire cosa insegni la pena
che basta un gesto a scansare
il brivido che ogni giorno posiamo di lato
non sapendo se annunci
o stringa il respiro di altre vite.
Dalla cucina, come nelle notti di neve
dovremo seguire ogni chiarore
fermarci dove si addensa
fino a tessere il grumo dove svaniamo senza un volto
dove perfino chi ci amava
– giustamente – indietreggia.
Da Notti di pace occidentale
gennaio, notte
Notte nell’altissimo anno di gennaio, notte a picco
sotto una sola slacciata campana
e il raggio di ombra giace
nel corpo del piccione
circonfuso di brina
immobile nel suo sogno senza gola.
Ho sognato anch’io con fatica, con pazienza, ora dopo ora, ogni mancanza mia, della vita. Per ogni nome un fossato. Fossi vicini e vuoti, preparati da non troppo tempo, illuminati da una luce radente. Solo alla fine del sogno, nel dormiveglia ho trovato lo scatto di una rivolta e ho disteso l’intero corpo forzando la schiena fino a battere il mento sulla terra. Di colpo io ero al posto di tutto e lentamente con lenta pioggia di terra il mio fosso si colmava placandole, di tutte le pene, di tutte le morti.
febbraio, notte.
Non come spine, ma davvero spine, una per ogni dito, ogni parola una spina, nel mese più breve dell’anno un intero roveto premuto sul bianco della pagina.
Non il regale dolore del pensiero ma un castigo basso e crudo: dieci spine di cardo, dieci brevi losanghe infiammate nelle mani, l’inutile sfida dei ragazzi che al mare portano la scheggia di riccio dentro il piede, la carne trascinata con la sua punta di fuoco nero nel freddo delle alghe.
XVI
Alla fine del secolo: la strada così breve
il tempo così basso – come un cielo –
su una strada angusta. Brillano per un attimo i nomi
poi a un tratto si spengono.
Sono muti sul buio doppio del mille.
Erano nel crinale del tempo
a gonfiare un’attesa sulla carta dei libri.
Alla cima del secolo non resta che lo spazio.
La cima ha fatto spazio
rodendo piano le ere
ha declinato gli anni con un suono di sabbia
grano a grano in un secco ablativo.
30 dicembre del 99: perché esista una rima
bisogna recidere le cifre.
Ajaccio 1993 – Roma 1999
a Mario Mormile
Non è vero che di nuovo la stanza striderà nel vento
come ora tra gli uccelli autunnali
che basterà scegliere i cenni
e oscillando sulla sedia pensare
che la pioggia disperda
il male di un intero pomeriggio.
Non sarà l’assenza di fessure di ogni vita
le foglie moltiplicate sui soffitti
il tremendo ascoltarci chini gli uni sugli altri
mentre rabbrividendo corriamo verso casa.
Nessuno ci farà percorrere di nuovo una ferita
avanti e indietro senza chiuderne il solco.
Dovremo imparare, una volta soltanto:
restare quieti
come quando d’inverno manca a lungo la luce
sapere che non c’è stata offesa
che l’ombra ci ha colpito indistinta
vuota – e senza odio.
marzo, notte
Nel solco di meli duri che scava la settimana di marzo
con lo sguardo al muro di cucina
dove ho inchiodato un verso mai finito che leggo e leggo
trascinandomi acqua sulle dita.
Nell’alba spezzata dalla sete, quando corro sul pavimento
e nell’oscurità non riconosco le stanze ma incido –
con la stessa mano che forse mi sbarrerà l’orecchio nel dolore – lettere immense lungo le pareti.
maggio, notte
a mia madre e mio padre
Vento di maggio da Bonifacio a Corte, maestrale dalle Bocche a ritroso fino a Santa Teresa, e a sud del sud fino al Campidano. Arcipelaghi a stella e furore di bellezza senza dei. Le mucche sfilano per la festa di Sant’Efisio con le corna circondate di fiori, avanzano con il mare luce-bianca sul dorso.
Laggiù — l’orizzonte. Qui – nella stanza – muore il cane più amato con il muso socchiuso alla luce quasi finito da una mano invisibile.
agosto, notte
Dell’incedere a scatti di quell’uomo
che nella strada per Venaco gridava dentro il sole
non si è mai detto nulla
nulla della camicia strappata sulle ascelle
e dei piedi circondati di paglia
né della voce bruciata di francese.
Lo aspettò l’inverno, lo strinse nel ramo di una scala
lo spinse piano col volto tra i vasi dei gerani.
ottobre, notte
Accetta questo silenzio: la parola stretta nel buio della gola come una bestia irrigidita, come il cinghiale imbalsamato che nei temporali di ottobre scintillava in cantina. Livido e intrecciato di paglia, il cuore secco, senza fumo, eppure contro il fulmine che inchiodava la porta, ogni volta nel punto esatto in cui era iniziata la morte: l’inutile indietreggiare, il corpo ardente, il calcio del cacciatore sul suo fianco.
Chiudi gli occhi. Pensa: lepre, e volpe e lupo, chiama le bestie che cacciate corrono sulla terra rasa e sono nella fionda del morire o dell’addormentarsi sfinite nella tana dove solo chi è inseguito conosce davvero la notte, davvero il respiro.
da PER UN NUOVO INVERNO
nella morte di A.R
Se non fosse che questo: giungere a un luogo
esattamente pronunciarne il nome, essere a casa.
Felice inverno adesso che il nuovo inverno è passato
da un inizio per noi ancora senza nome
non diverso dal varco estivo di reti
forse, un cerchio debole di lumi.
Intorno, solo piante
che non avresti fatto in tempo a scansare
acqua soffiata sulle pietre – grandine
che mai sapremo se è arrivata col suono
che faceva sui tetti là nel tuo tempo
nella bianca, umana pulizia dei bagni.
Finora solo passi recisi
che forse ascolti con ardente silenzio
e aria tra gli aranci mossi piano dai vivi.
Vedi qui nulla per la prima volta si perde.
Stamattina hanno battuto la terra
fredda – colma della gioia dell’acqua
ha dimenticato per te
la sbarra della sedia, la nuca rovesciata
il vento del cortile.
Così felice notte ora che di nuovo è notte
e non è vero che il gelo resti
e abbassi piano il pensiero
forse uno scatto invece schiude qualcosa in alto
molto in alto
una nota
oltre il becco oltre gli occhi lucenti di un uccello
una scheggia di collina – quella laggiù
serrata al tetto verde-bronzo della chiesa.
Felice notte a te
per sempre priva di abisso, una steppa dell’anima-sommessa
dove l’ulivo si piega senza suono
Gerusalemme della quiete
della quiete e del tronco che cerchia e incide la morte
che la succhia nel vuoto e nel vuoto la getta
e la macera piano.
Non ho voce, né canto
ma una lingua intrecciata di paglia
una lingua di corda e sale chiuso nel pugno
e fitto in ogni fessura
nel cancello di casa che batte sul tumulo duro dell’alba
dal buio al buio
per chi resta, per chi ruota.
1999
a Flaminio
Cerca tra le cose che ami quale morirà per prima
quale ghiaia innalzare sul secolo che frana.
Non occorre affrettarsi
ma scuotere la testa davanti al due che affiora
fermarsi tra le cifre – un’acqua
che schiuma sulle scale prima di invadere la casa –
fare del mille un monte – modesto – come il Sinai
e dei tre nove: una stella – che arda – da sola
nel buio del mattino.
Non c’è salvezza nell’attardarsi di un millennio
semplicemente i suoni si alzano più fitti dentro il vento
uno stormire di uccelli e di foresta.
Cerca tra la cose che ami quale morirà per prima
combatti nonostante il tremore.
Ma noi parliamo a candele, ad auspici imperfetti
a ombre che abbracciamo con fervore
e la lingua è la stessa che si porta migrando dalle isole:
una nube
in gola
che oscura la dizione degli oggetti.
Note
Quasi tutti i testi della sezione eponima Notti di pace occidentale sono apparsi modifiche sul numero 129 della rivista Poesia (Crocetti editore) nel maggio 1999 con il titolo Versi per una tregua. Di quel titolo resta l’idea di un Occidente circondato da guerre apparentemente concluse e di un’Europa che non vive una pace, ma una tregua atterrita.
Il titolo In una stessa terra è stato suggerito dal racconto Nella stessa terra dello scrittore russo Valentin Rasputin ma anche dalla lettura di un libro di Rocco Ronchi intitolato Luogo comune.
La parola verste a pag.23 è un’unità di misura lineare russa equivalente a poco più di un chilometro.
Il bambino a pag. 32 è Mosé
I testi alle pagg. 11,33,49 sono stati pubblicati con lievi modifiche nel volume Nomi distanti, Empiria, Roma 1998
La poesia Per un nuovo inverno è stata scritta un mese dopo la morte di Amelia Rosselli e pubblicata con il titolo Per un felice inverno nella plaquette stampata a mano in 90 copie da Meri Gorni (En plein, Milano 1997). Nello stesso anno 1996 è comparsa in un testo teatrale di Attilio Scarpellini dal titolo L’ombra e la voce.
Molti di questi versi sono nati in Sardegna e in Corsica: solo stando in un’isola, anzi spesso nell’isola di un’isola – La Maddalena – ho avuto l’impressione di capire lo spazio diverso del Continente e di vedere Genova, dove sono stata concepita e che in qualche modo considero la mia città natale.
da NOMI DISTANTI (ROMA, 1997)
“Fammi cantare del dolore, della mia montagna…”
Marina Cvetaeva Poema della montagna
Dedica
Lasciami parlare del dolore
da te a me: scavato fino al fondo.
Anche questa è altezza
lascia che la misuri, qui, dalla terra
in giù dal cielo al fuoco.
Uguale è il nero squarcio, uguale.
Solo, non un sussulto
ma un brusio di foglie, di animali
giù fino al gelo
per capire, per accrescere il peso.
Questo non è un poema del distacco:
voglio che la montagna stia fra noi
bassa sotto lo sguardo
nuda, con i bassi cespugli
uno spazio che senza ferite ci divida
perché entrambi sappiamo
cosa significhi ferita e quanto breve
lo spazio che le occorre.
Solo dal basso la montagna è immensa
dall’alto non è che terra mista a neve, freddo
pulito di pareti, quasi una casa di periferia
col cielo non diverso da ogni piccola vigna
premuta sui cortili
un’aria benedetta dove l’eco ripete con stupore:
laggiù c’era il sonoro assieparsi delle stanze,
là ciò che in basso nell’ombra per noi non ha difesa.
Una salita, io e te soli con l’aria
spinti dall’aria fino al ghiaccio
– nuvole di conifere –
orme di bosco fra le pietre, poi finalmente
tracciata con un ramo,
semplice come un ramo, l’erre di rifugio e riposo
la erre-radura del respiro.
Per andare via da ciò che è folto, dai molti oggetti
dalle cose che incombono sul petto, basta tracciare un solco
più profondo nella vita di sempre. Dire: saremo coraggiosi.
Se amore davvero è un arco teso, stringere più forte
le dita intorno al legno, chinare la testa contro il vuoto:
questo è il dono nuziale, la corona nuziale per la fronte.
Hai detto: separarsi è un tuono
il tramestio che segue il lampo di ogni luce.
E’ vero, ci si separa solo in basso
giù nel rumore dove ripida è solo l’angustia delle scale
dove le voci battono e s’incrociano – non domestiche – cieche abbreviate nel buio delle stanze.
Ci si abbandona in fretta, per colpi replicati
per secchi colpi distratti, ogni volta per sempre
stando così vicini.
Per questo provo a trattare la vita con lentezza:
una salita
la corda il vento che soffia sulla nuca
camminare alla cieca, e a un tratto sulla cima
riconoscersi da come si guarda nella valle
amarsi con sapienza in quello che si dice
sia l’amore più sterile
il più stanco
quello che a malapena ci consente
di abbracciarci nel buio con cautela.
Questo non è un poema del distacco
solo perché da sempre
la vita ci ha imposto la distanza.
Amaro resta il tempo
anno nell’anno a cerchio sulla rotonda terra in lotta.
Voglio che la montagna resti
come resta un millennio nella storia,
che conservi le ombre di ogni corpo
ferme sotto la neve, che ci siano due lastre
prive di nome, eppure nostre, verticali, leggere
grigie nel bianco, con grigie cifre di lutto.
Sappiamo come ogni cosa si trasmuti
come l’acqua sia forte più del sangue.
Ecco invochiamo la stanchezza
quella che finalmente non separa ma dice alla mancanza:
lasciali, sono soli.
Davvero montagne di tempo ha la montagna.
Potrebbe imparare a chiamarci con pazienza, l’eco
studiato fra le crepe a comporre una frase:
è legame l’amore non elenco
non segnale che avvampa, ma cavo di una mano
dove nascondere la fronte.
Era uno spoglio colle la montagna.
Ricordavo l’altezza, la fatica
il passo smisurato fra le pietre
a misura della maestà di un “noi”.
Questo ha reso invincibile lo spazio
e dato tempo all’anno:
…ancora uno almeno, un altro, da oggi alla vigilia…
non importa che sia veloce come un brivido,
che a scacciarlo basti lo schiocco delle dita
che occorra pronunciarlo di lato, a bassa voce:…dicembre millenovecentonovantotto…
Epilogo
Questo è un monte
dalla nera cima acuta. E’ il monte Cinto dei Corsi
privo di grandi fiumi, di pianure, vicinissimo al mare
davvero cinto soltanto da torrenti.
Stavolta la memoria è netta, non ci sono lacune:
con precisione ricordo, con precisione
come per un triangolo, al centro il vuoto e la punta
verso il cielo: una vetta che dalla terra si allontana
e dentro ha l’astrazione dell’aria
l’intera, bianca vita che tre linee comprimono.
Questa montagna non è il Sinai
né il Parnaso, non ci sono dei o profeti.
Solo, ci prepara al silenzio, alla notte
che lentamente mura e rende roccia il cielo
e lascia che si posi
un odore marino sugli abeti
un desiderio, una musica muta
come forse pensarono
le prime creature della storia.
L’epilogo si compirà più avanti
so come si annuncia la parola “fine”
quale sguardo tremendo
si scavi nel petto di chi tace
e come un’anima perduta
(la terza, la centesima) rintocchi per sempre
in chi abbandona.
Non si vendica il mio monte, non ancora
perché non è ancora abitudine l’amore.
Oggi chiamo realtà
questo irreale essere vicini.
A oriente Roma è deserto senza chiese
qui, semplicemente si addensa un temporale
si addensano le nubi.
l’ombra di pioggia che ora ci confonde.
Corsica, Monte Cinto 1997 – Roma, marzo 1998
da Nomi distanti, Roma, 1997
E guarda viene a me un amore.
Lascia antico amore, amico
vecchio amore
che un altro corpo si stenda accanto al mio
lascia che un’ombra grande abbatta la distanza, lo sguardo
senza sguardo con cui il tempo stretto a te mi annienta.
che ci sia una luce: io, a rischiarare un nuovo desiderio
e amarlo come ho amato il tuo negli anni.
La voce modula la sete. Guarda viene a me un amore
una vita alla vita, inaspettata, là dove severo
cresceva su di noi il passato.