Alberto
TONI

Alberto Toni è nato nel  1954 a Roma, dove è scomparso nel 2019. I suoi libri di poesia: La chiara immagine (Rossi & Spera, 1987, Premio speciale opera prima L’isola di Arturo – Elsa Morante), Partenza (Empirìa, 1988), L’Apparizione (Marina Manzoni Editore, 1992), Dogali (Empirìa, 1997, Premio Sandro Penna), Liturgia delle ore (Jaca Book, 1998, Premio Eugenio Montale), Teatralità dell’atto (Passigli, 2004, Premio Pier Paolo Pasolini), Mare di dentro (Puntoacapo Editrice, 2009), Alla lontana, alla prima luce del mondo (Jaca Book, 2009), Democrazia (La Vita Felice, 2011), Un padre in Almanacco dello Specchio, Mondadori, 2011), Polvere, sassi, oli (Il Bulino, 2012), Mare di dentro e altre poesie, e-book LaRecherche.it in collaborazione con Poesia 2.0, 2013), Et allons (Edizioni Progetto Cultura, 2013), Stone Green. Selected Poems 1980-2010 (traduzione di A. Crowe Serrano e R. Duranti, Gradiva Publications, 2014), Vivo così (Nomos Edizioni, 2014 (Secondo premio Pontedilegno 2015), Il dolore (Samuele Editore, 2016), Non c’è corpo perfetto (Algra Editore, 2018), Tempo d’opera (Il ramo e la foglia edizioni, 2022, introduzione di Roberto Deidier). Ha inoltre pubblicato di narrativa: Quanto è lungo il sempre (Manni, 2001), L’anima a Friburgo (Edup, 2007); di saggistica: Con Bassani verso Ferrara (Unicopli, 2001), Livorno (Unicopli, 2016); di teatro: Gabriele! Gabriele! e Donna su una poltrona rossa.

https://it.wikipedia.org/wiki/Alberto_Toni

POESIE

da TEMPO D’OPERA

*
Voi che siete già, voi, dunque, gli smarriti al dubbio,
alla pioggia, alla neve, al sole timido di primavera.
L’arte che infine consiste nel muto universo parallelo,
e il documento, la mano che accarezza il sogno,

mentre tu guardi la scrittura, il segno che decifra,
tramonta all’ultimo di un giorno vuoto e perso.
Potreste forse dire che il nostro agire vi spaventa?
Conforta? Tiene fede alle promesse fatte, come

l’impronta mia sulla fronte ogni volta più dura?
Troppo nel gioco in giostra che fa felice l’infante,
troppo anche il dire, e converrebbe non contarli
più gli anni e fingere sentimenti nuovi e belli.

Tenevamo gli uni per gli altri? Fino all’ultimo
ho sperato, imparavo, c’è tanto da imparare
nell’immediato, tanto da ritrarlo a volte
nei colori più accesi a un passo, solo a un passo
dal vero. Tutto perché ci sia luce e verità,
qualcosa che ci dica dov’è il luogo e che luogo,
se la strada, se un albero, se soltanto l’acqua
del trasporto, del bere, del corpo lavato e puro.

Mi porterò avanti in tutto questo, ma soltanto
con il pensiero e la domanda, figura del prendere
o lasciare. Del resto non c’è altro, niente che
oggi sia già dato, anche la mia misura all’occhio

che a guardare forse non ha guardato, e non sa.
Potremmo non disperderci mai. Resta per ora
un morso che stringe, un nodo, la postura di chi
tenderebbe la vista, se soltanto sapesse farne uso.

E dove allora? Con quali parole, se la misura
che incide non ha presa. Porta nell’ultima radice
una pura intuizione, bellissima fede: un cielo.

*
Se è tempo d’opera, che immagine è dalla vetrina,
così cara, che mi sfugge alla presa, all’abbraccio,
che dovrebbe non ritrarsi. E tu non senti, non vedi
quanto affanno? È sulla soglia, in quell’intanto
ascoltami, solo direbbe, ma non sento, non vedo
più di ieri, più dell’abbraccio che appena ricordo.
Mia futile pretesa, altro non resta che un riflesso,
là sull’orchidea e sull’esile fusto che la regge.

Potresti splendere come stella, emblema,
ma non vedo, non sento più forte il calore.

*
L’estate della betulla, un buon inizio nella veglia,

quello che mi è passato per la testa, un istante,
lei si è decisa a stare ferma, immobile alla fotocamera,
lei che muove solo lento il braccino al vento.
Ma non c’è vento e sta ferma, solo un po’ per l’acqua
improvvisa venuta giù a diluvio l’altra sera,
o stamattina presto ancora dentro il sonno.
Tengo caro il verde del giardino da quel lato
e nessun torto a questo dal mio studio,
già troppo celebrato, e il leccio capirà
che c’è un tempo per tutti e il tempo è caro,
l’amore muove il tempo, muove me,
muove la pace già precaria dello stare
e se leggo il giornale già il mattino
scivola via tra un assedio e un tremore,
già il tempo che misuriamo a luce
frana e si sfalda in infinite ombre.

*
Su un tema di Andrea Zanzotto

Sii, mondo, esisti e basta.
Esisti per noi e per me, apri,
apri la tua grandezza di costellazione,
trema, ripaga, custodisci sogni
e misteri in confabulazione.
Come una sfera che appaga
in luce e in penombra, nel
mio ragionamento adesso.

Tutto adesso, perché giusto
è il tempo. E non c’è tempo,
se non nel restare, mondo.

Trema dunque al partire per mare sconosciuto.
Musica del mare fatta
improvviso silenzio.
Su, non partire, ti dico,
se non per puro caso.
Su fallo per me, per noi.

—————–Su, Stockhausen.

*
E come all’ultimo balzo del mattino sparisce
la morte del diluvio notturno. È tutto un rifiorire,
tremare in tua presenza.
E mi alzai, con la convinzione di me,
del tuo ramo al mio innamoramento.

Scendi, fai, e che la forza mai non manchi,
fai, poi rispondi al tuo calo di forze.
Mai noi potremo dire abbiamo solo
per poco, solo per poco rinunciato
a vivere. Mai che la vita non sia

o ci abbandoni.

*
———————-bella per sempre.
———————-[…]——
———————-Chi son questi venienti al sacrificio?
————————————–John Keats

Osservo il corniolo, prendiamone una foglia,
uno sfumato, un verde Bonalumi del ’79,
striato e compatto. A che mi serve? Torna
per te, per sempre, se ora che il tempo mio
mi sfugge più lieta ti mostrerai, di me,
di tutti. Come di notte nel profondo sonno.

Nel giorno aspetta che sia chiaro e
più silenziosa la tua mano e la mia.

Allineati al fresco della sera, l’ombra
che non sopporto e brucia solo per me,
nel battito cardiaco, nella tenuta che
per un momento, solo per un momento
mi distrae da te, non dovrebbe, ora va
via, lascia il campo libero poi torna.

Saluta e se ne va poteva almeno dirlo,
ma è troppo tardi per dirlo, per tenere,
riprendere il filo del discorso. Sulla tela
ora cambia il colore, un blu ancora più
compatto, si prepara, vuole per un po’
rimanere, spiegarmi con ultime parole

com’è la vita.

*
———————-Sappiamo che repentine
———————-accadono le Cose
———————————René Char

Le Cose, dovunque sia il loro peso ci precipitano,
e là sotto è difficile pensare, lo sapeva o scoprì
che il salvabile è nell’immagine tesa di un mattino,
nel raggio che rincuora o filtra, si teneva, o provava
a tenersi, lei dall’altra parte e loro che provavano
e riprovavano col pensiero buono. Guardami, se puoi,
siamo nell’aria nuova che solleva il respiro, ansima
e rapida la sequenza del giovane che era e diventa
in un attimo visibile. Per questo accadono le Cose,
trasformano tutto in un istante ciò che è stato,
aprono porte e finestre, rompono il muro dei suoni
persi e ritrovati, una feritoia al suono, non è dietro
né avanti, ma nel presente vivissimo, troppo vivo.

Poi si alza, è già ieri, chiuso in fondo pensiamo.

*
Potrebbe essere solo una differente visione delle cose,
la vita sonora degli oggetti, Battistelli ’81, o quello che
di un giorno qualunque appare, ti vedo, lo vedevo
senza sapere, senza nemmeno il nome per nominarlo.
E adesso fuoriuscito allo scoperto mi cammina accanto.
O non si muove e sembra pietra, battere del martello
e il vuoto che lascia l’ombra e sono io che muovo
di nuovo il corpo, lascia che si muova ancora,
lascia la possibilità di dirlo, cercarlo quando
si muove per dimenticare. Tu lascia
che si muova alla sua velocità, senza
fingere e che conosca la sua felicità.
Sarà nel documento permanente
di un pensiero fisso. Poi nella sera
quieta si allenta e pensa: balsamo
il buio, l’intimità che è tutta la nuova
gioia ritrovata, le mani mie
che scivolano liete.

E le tue.

*
Me lo trovo davanti all’improvviso
l’accesissimo Guttuso del ’41, Crocifissione,
lo spazio così affollato, violento, le braccia, la caduta
nervosa, e tutto è nudo nell’umano, qualcuno chiama
prima dell’uscita dalla Galleria. Chiama in quello spazio,
200 × 200 cm, lo spazio ultimo che assorbe, avanza
fino al cuore che è sorpreso. Lo dicevo che nel tempo fermo
basta un niente, ricomincia lontano un sentimento
che mi porta indietro. All’uscita l’amico che entra
e mi saluta non sa, non può sapere. Diciamo,
per lui che è un esperto in materia, non ora,
non soltanto,
il quanto di energia, la memoria da dove viene.

*
La postazione è la stessa, con piccole oscillazioni
appena fuori dalla caverna. Dovrei rientrare a quella
luce che mi guida. Ero in posa proprio sulla soglia
con una prospettiva nuova. Ti sento parlare al telefono,
andrà meglio dopo la sosta. Apprendo solo adesso
che il vero, il tuo vero che è la forza del giorno
è anche il mio vero, istantaneo e antico
che perdura. Lo ritrovo, eravamo insieme,
siamo usciti insieme allo scoperto. Solo
i tratti oscillanti del sorriso appena scesi

a terra.

*
Con le mani rivolte al cielo.
Era un giuramento o che?
Spieghiamoci, a volte, la nudità
del cuore, le trappole canine,
Cerbero, difficile da superare
il tempo vuoto dell’assenza.
Stava sotto, e loro in alto in
quella miniatura dal Salterio
di Oxford, graziati e barbuti,
i due santi Pietro e Paolo
in mezzo a Cristo. Almeno
ora facciamo delle nostre
mani la prima immagine di noi
nuovamente sorpresi. E con quelle
fare tutto, stringere, lavorare,
aspettare che finisca il discorso
qui iniziato. Una specie di icona
mobile, blu e rossa come quella,
la fissità dello sguardo
e la coscienza
di una rinnovata fragilità.
Mandami i tuoi messaggi
con le mani, saprò che sai,
che hai capito con me. E
che sotto sta ciò che
non mi devi dire.
Teneva anche Cerbero fissa la terra ai suoi confini.

*
C’è un gran parlare intorno. Rotella, Afro, voi
che mi chiamate dal tempo dei tempi e che girate
da queste parti, ancora non è finita la storia
dello strappo e del colore, voi che spargete
e seminate. Décollage e informale, ma non è
lo stesso strappo di una parola a stento ritrovata?
Lascia la luce il giorno come si fa con le cose
perdute, e sempre la speranza di un ritorno
che non viene. Ma poi c’è sempre un incontro,
voi state sicuri, perché solo per noi è l’annuncio
e guardare in movimento dentro la vita che va
veloce.

*
——————————-a mia sorella Alba

Scrive.
Con il cuore, l’altro tempo su fili di ghiaccio
come Živago o la Cvetaeva o la Achmatova.
Poesia come un albero, se parliamo della Guidacci,
o come il giallo verticale di Serpenta su fondo verde
della mia amica Teresa in Galleria al Ferro di Cavallo,
l’86 per Bellezza vivo, sarebbe morto dieci anni dopo.
A tenerci per i nostri novembre, gennaio, Amelia
a casa nostra con una fetta di torta in mano, Giovanna
in via Galazia, Elena, Rosella,
e se vogliamo, Marina, Beppe
sul 46 in piattaforma a parlare,
lui proseguiva e l’incedere
nell’impermeabile crema.
Va bene, dico, se su noi restano frammenti, la vita, insomma.

*
——————————-qui volgere le spalle
—————————————–Andrea Zanzotto

Chissà come sarebbe
guardare il giardino da un’altra parte, dall’angolo
più estremo, dalla rete di recinzione, in posizione
obliqua, vedere e non vedere se non un insieme
dalla distanza, una distanza che è tempo, non solo
spazio. Mi resterebbe un passo di verde antico,
perso l’orientamento, o mai stato, come presenza
non presenza a ciò che era. Con un’idea di assenza
e rimarlo, rifarlo in uno stato nuovo e accettabile.
Sarà che ogni fine è quel dire: mi allontano e se
torno è per cancellare tutto il cancellabile. Vedo,
sì, tornano verde e foglie e rami nel folto della
nuova stagione; tu mi resti accanto a ricucire,
a riprendere in mano il filo nuovo del discorso,
a stare.

*
—————–Nessuno ci vedeva e noi vedevamo tutto
—————————————Mario Benedetti

Difendimi dal sospetto che la mente indaga.
Difendilo, è quell’antico riprendersi dopo la fatica,
è il destino dell’opera che supera ogni incertezza.
Vita, una vita senza riposo, toglieremo il superfluo
per sostare a lungo di primavera in primavera.
Come oggi. Che sia la prima aria fresca del mattino
e il canto gioioso degli uccelli, la natura
quando conversiamo e che resta.

Ci sono negli altri misteri insondabili. E noi,
mi dedicava un po’ del suo tempo, quanto basta
per dirlo amico, lui, lo riconosciamo perché
la parola è l’incanto che resta. Difendiamolo,
i miei viaggi di parola, qualcuno lo diceva
e i suoi.

Siamo dentro un mistero antico, non soltanto
il viso caro
che perdiamo.

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