Roberto Pazzi è nato ad Ameglia (Sp) nel 1946, vive a Ferrara. Le sue raccolte di versi sono: L’esperienza anteriore (I dispari, 1973), Versi occidentali (Rebellato, 1976), Il re, le parole (Lacaita, 1980), Calma di vento (Garzanti, premio Montale, tradotto in francese nelle Editions de la Différence), Il filo delle bugie (Corbo, 1994), La gravità dei corpi (Palomar, 1998, tradotto in tedesco da Tropen e in turco da Estetik Us), Talismani (Marietti, 2003) e Felicità di perdersi 1998-2013 (Barbera, 2013). I suoi libri di narrativa: Cercando l’Imperatore (prefazione di Giovanni Raboni, 1985), La principessa e il drago (1986), La malattia del tempo (1987), Vangelo di Giuda (1989), La stanza sull’acqua (1991), Le città del dottor Malaguti (1993), Incerti di viaggio (1996), Domani sarò re (1997), La città volante (1999), Conclave (2001), L’Erede (2002), IL signore degli occhi (2004), L’ombra del padre (2005), Qualcuno mi insegue (2007), Le forbici di Solingen (2007), Dopo primavera (2008), Mi spiacerà morire per non vederti più (2010), D’amore non esistono peccati (2012), La trasparenza del buio (2014) e Lazzaro (2017).
Wikipedia http://it.wikipedia.org/wiki/Roberto_Pazzi
INEDITI
Mi guardo allo specchio e cede
qualche crepa del suo congegno,
passo un panno sulla superficie
ma non è una macchia,
non va via,
è davvero una vena del vetro
sorella di alcune crepe del pavimento
nel salotto, di tanti piccoli terremoti
mai percepiti
che hanno assestato la città
fondata sull’acqua.
I campanili qui pendono tutti,
il Po ha lasciato un letto
sotterraneo
che non può sostenerli
e li invidia e se li mangia.
Opera vana e coraggiosa
alzarsi in questa città.
Quando sono con te non servono
più gli occhiali,
la vita mi bacia
ad occhi chiusi,
non vedo più
chi m’ inghiotte,
dente e boccone insieme,
amato e amante,
rima più baciata
del tuo nome
non si scrive.
Il treno delle quindici e cinquantasei
partirà in ritardo, di venti minuti,
qualcuno stasera in una stazione
sotto i colli Euganei,
bestemmierà l’attesa,
qualcuno invece grazie al ritardo,
prima del Po,
riuscirà a prenderlo, quel treno,
e salirà trafelato e contento.
Per molti amati prima dei trent’anni
sono già defunto,
non li rivedrò mai più.
Per molti che mi vedranno fragile
vecchio non sono ancora nato,
devo ancora spuntare all’orizzonte.
Per altri, e sono i più,
non c’è nessuna linea,
nessuno orario da consultare.
Quel non essere per loro
è già la mia eternità.
Degli uomini mi piace apprendere
il numero delle scarpe,
i vini preferiti,
gli anni che avevano
quando han fatto l’amore
la prima volta e se ricordano a che ora,
la posa in cui s’ addormentano da soli,
dove rammentano di essere stati felici
tanto da non voler più uscire dalla stanza,
che eroe della Storia vorrebbero essere
recitando una parte,
che nome darebbero al loro cane,
se temono di rompere gli specchi,
se quando guidano troppo forte
e passano col rosso,
ricordano mai se hanno lasciato istruzioni
per mettere o non mettere
alla loro salma le scarpe
di cui mi hanno rivelato il numero.
Delle donne invece mi piace sapere,
se cantano volentieri da sole,
che cosa cantano di solito,
se ricordano gli oggetti della stanza
dove hanno fatto l’amore la prima volta,
con quale attore della storia del cinema
avrebbero voluto passare una notte,
se la bugia che le ha salvate da un guaio
ora me la potrebbero raccontare,
se amano il loro nome
e come avrebbero voluto chiamarsi,
se a loro non è mai piaciuto.
E se vorrebbero la borsetta nella bara
– delle scarpe non chiederei nulla,
non mi parrebbero necessarie
come agli uomini, per frenarne l’impeto
di correre nella morte,
le scalze farebbero meno rumore e meno paura
tornando una notte a casa,
dove le amano ancora,
senza semafori e limiti da violare.
Oggi verrei a casa tua,
farei
questo lungo viaggio
solo per infilare questi versi
nella
fessura sotto la porta,
non potrei rompere
il divieto di
rivederci.
Niente, vorrei dirti,
solo questo niente.
Fu
detto già tutto.
Da quando ci siamo separati
sopravviviamo,
siamo la rovina di quel tempo.
Ma questo mio
niente dopo di te
mi sostiene e si rafforza,
cresce bene con
gli anni,
si fa grande, muta la voce,
non vuole più stare con
me,
esce sempre più spesso
a cercare altro niente,
inutilmente
bello come fui.
I nostri occhi han fissato il sole,
non
guardano più,
ricordano di aver visto.
A che servirebbe
rivederti ?
Perderei il mio niente.
Di tutte le cose che
potevo fare
ho sempre scelto una sola,
monco di troppe vite non
fatte
tu sei il Niente che mi ha scelto.
E ti appartengo
sempre.
Non ero nato per vivere
nell'ombra,
ho dovuto subirla,
ma di quali doni ricompensa
splendere
nell'oscurità !
La gioia della meraviglia
se qualcuno mi
scopre
e si prende il merito della scoperta,
il sollievo di
aver già in partenza
deposto l'affanno di salire,
la risorsa
di uno spreco delle ore
da gran signore del tempo,
la libertà
di camminar fra chi corre,
la leggerezza di saltare corsia
non
appena scorgo la fila
del buon senso,
lo spettacolo della vita
da fuori campo, fuori linea,
eretico da niente,
che gioca
coi segnali delle parole,
e inaugura mondi
con gli alberi
dalla chioma
sotto terra e le radici per aria,
a prendere
confidenza
con gli errori del vecchio Dio,
che non ci vede più
bene
e si lascia suggerire
dal diavolo le forme che non vede,
( il diavolo sono io ).
Sotto la terra bianca
come il
cielo
c'è il mio pane della gratitudine
per la via percorsa,
per i temuti pericoli,
le paure e le lunghe attese che
svanirono
consumate tutte a poco a poco,
le carte del mazzo
tenute nelle mani,
ormai già tutte in ordine sul tavolo,
una
mano già nuda.
Quel paesaggio sono io,
assaporo la panoramica
dall'alto
di me così piccolo diventato grande,
restano solo
poche stazioni,
posso guardarmi attorno con calma,
perdere
tempo, ne ho vissuto tanto,
a ripensare tutto quel bianco
che
oggi mi abbacina gli occhi:
il mondo con la mia vita dentro
mi
aspettava a occhi chiusi.
E chiudendoli così s'assapora
d'un
nuovo amore il bacio,
da una bocca bella e tremante.
Il tuo tempo è diventato
il va
e vieni del prigioniero nella cella,
l'attesa del pendolare
che
ogni giorno spia la fuga
nell'orologio grande
allo stesso
marciapiede.
Ritorna sui numeri dei binari
un'antica matematica
di arrivi e partenze,
è ancora un gioco
contare i minuti per
le coincidenze,
da bambino sempre sognavi di fuggire
da
Ferrara per tornare al mare.
Era la via della felicità
il
viale della stazione.
Nato sull'acqua
oggi ti parrebbe di
tornare laggiù
ma non sai se i ritardi
siano fame di arrivare
o paura di scoprire
che tutto quell'azzurro è evaporato
e
il mare non c'è più.
Sempre mi tremano le mani
quando
curo la barba allo specchio.
Non solo per la difficoltà di
guardarmi
capovolto e spingere le forbici
a medicare il
cedimento all'informe
oltre i luoghi possibili,
dove non sarò
mai,
ma per il gesto che di nuovo mi tradirà,
perché la
guancia che a destra m'appare
la ritroverò con la barba curata a
sinistra.
Allo specchio non serve la memoria,
si cura di un
altro volto
che non è più questo.
Il viso che fu amato per
sempre una volta
lui lo sa, lui lo è,
e non lo rivelerà,
in
ogni luogo della terra
porta male romperlo.
La sua strenue
fedeltà prepara la mente
all'ultimo ritratto,
dolce vendetta
delle specchiere
- avran mutato sesso intanto quegli specchi
per
meglio amare il volto amato -
Specchi
dove non mi stanco
di guardarmi sono
le stazioni di
provincia,
i vagoni di seconda classe,
i vecchi che trascinano
sporte a rotelle,
i depositi di biciclette incatenate a pali,
la
gente che aspetta in coda un autobus
e intanto scruta lontano
e
non vede nessuno arrivare.
Ma a volte mi sorprendo a guardarmi
in
specchi diversi e più antichi
quando rileggo un verso
che mi
folgorava trent'anni fa,
"Felicità
raggiunta si cammina
per te sul fil di lama"…
Ecco, a
cinquantasette anni
la
vecchia voglia d'incanto mi riprende
di chiamare e dirteli quei
versi
che mi fanno ancora tremare,
ma sarebbe lo stesso
errore
anche con te,
non aver ancora imparato
che fugge la
gioia dal tuo nome
e non si cattura la tua ombra.
Dio, oggi non ho nessuna
voglia
di
sentirti scorrere nel sangue,
e faccio di tutto per non sentire
come pulsi alle orecchie,
vecchio sangue del mio Dio che
s'attempa,
e si fa sempre più stanco e lento
finché un
giorno cadremo insieme.
Levarsi la mattina e levarti con
me,
accudirti, rivestirti, profumarti,
questi gesti di antica
confidenza
di carcerati in così poco spazio,
lisi come abiti,
frusti come parole
d'auguri ai compleanni,
le stesse che
useremo capovolte
come stoffe per condoglianze,
che fatica si
fa a tenerti in piedi,
mio vecchio Dio incolpevole,
viziato,
capriccioso, sempre più sordo,
che non s'accorge di
ripetersi
o forse finge e a volte riesce
a farsi credere unico
e fedele,
deciso a restarmi accanto
per amore solo per amore,
e non perché non sa dove andare.
Ma intanto mi lasci qui a
ricordare
il giovane Dio che eri,
che non aveva caldo né
sete
e pattinava leggero sul ghiaccio
del Nulla cantando
senz'ombra,
senza colpe da temere,
né premi da attendere,
il
bel niente che eri
senza eco di me,
immune da questa
leucemia
dell'eternità che mi beve il sangue.
Sei la mia
subdola malattia, Dio mio,
febbre e nebbia che sale
dall'argine
consumato del mio tempo.
Una volta, io lo so,
qui c'è stata la gioia.
L'aria ne trema ancora.
Ancora non si è spento lo stupore
della valle
a vedersela un giorno andar via.
Quando venivi a casa mia
dimenticavi spesso qualcosa
- un pettine degli orecchini due anelli -
Ma mi mentivi sempre,
la tua non era volontà di rimanere:
tu volevi andartene sì,
ma tenendomi nel giro del tuo corpo.
Eri eterna allora.
Se aprivo un cassetto
o spostavo una sedia
Mi volevi circondato dalle tue apparenze.
Solo così potevi correre dall'altro,
dirgli "amo solo te".
Fu così che la tua menzogna
santificò questa casa,
perché ora che sei come morta
tutto cambia,
tu che mentivi ora sei
quella che ha sempre detto la verità:
per gli oggetti si passa da questo mondo
al nulla, a colui che ora
porta alle dita i tuoi anelli,
che ha nei capelli il tuo pettine
ai lobi i tuoi orecchini spaiati.
Giocavo poco fa coi tuoi oggetti:
stavano in una mano,
non hai più altezza misura
non sanno più dire dove sei.
Per loro saresti l'aria il vuoto
se non ci fossi io a tradirne la fiducia
per trafugare un giorno
la sua immagine per te.
Perché tu allora romperai
l'incantesimo,
restituirai te stessa
agli oggetti a questa casa a me.
Le isole Falkland
Sfogliando il giornale
c’è una pagina che parla
delle isole Falkland;
ma dove saranno le isole Falkland?
Stanno nell’Oceano Atlantico,
han millenovecento abitanti,
hanno un governatore inglese ch’è sir,
non ci sono giornali nelle isole Falkland
c’è solo una radio, ma dove saranno le isole Falkland?
Da questa parte di mondo, alle isole Falkland
arriva un battello ogni tre mesi
e un aereo ogni settimana,
ma dove saranno le isole Falkland?
L’Argentina è in lite
da cent’anni col Regno Unito
per la sovranità delle isole Falkland,
hanno ricchi giacimenti sottomarini
le isole Falkland, sono ricche felici lontane,
hanno un nome bellissimo,
forse m’aspettano le isole Falkland,
avrebbero potuto essere il futuro
mancato per una sola pagina,
fu così che si perse il grande Napoleone
scrivendo da bambino “Sant’Elena, piccola isola”,
mentre io posso farcela ancora,
dunque aspettano me le isole Falkland,
ma dove dove saranno quelle isole?
A me la mia vita non piace
e non posso cambiarla.
Mi sforzo allora di farmela piacere
e qualche volta mi dimentico,
dico che la vita è bella.
Ma la vita degli altri
mi sta sempre davanti
e mi viene una gran malinconia
perché nessuno riesce a mentire
davanti ame che so mentire qualche volta
così bene da dimenticare
che mi sto inventando la vita.
Andrà a finire che perderò
il filo delle bugie, delle verità
e una cosa nascerà simile
alla necessità di odiare qualcuno che amo
nella speranza che male e bene
non mentano più e smettano
di sembrare diversi.
Il mio amico Bruno se n'andava
da bambino in bicicletta cantando
in una lingua che non c'è.
Gli piaceva che la gente che passava
lo credesse sempre uno straniero.
Io, con la gran coperta del letto dei miei
sulle spalle, da bambino mi credevo re,
in cucina ricevevo personaggi,
decidevo le guerre e le paci,
facevo politica mondiale.
Questa storia è andata a finir bene
perché non è finita: non abbiamo
più smesso di giocare.
Quando ho sete faccio scorrere
a lungo l'acqua, vorrei poterla
bere più fresca, sempre più fresca.
Mi è capitato di non potermi decidere
e rimanere col bicchiere vuoto in mano,
pensando all'acqua che berrei
se attendessi ancora un po'.
E' una differenza così leggera,
da riempire il mare nell'attesa:
c'è qualcosa di così mortale
nell'acqua, che ieri ho tremato
sentendo un bambino dire "ho sete".
Signore - se credessi in Dio direi -
Signore, fammi il mondo
una cella così perfetta
che possa starci solo
la mia anima.
Signore, allarga la mia anima
al mondo,
fa ch'io ne esca solo il giorno
in cui non potrò
più incontrare altri che te.
Signore, prendi il mio sesso,
fa che né femmina né maschio
possa più capire,
nascondimi, fammi solo
parola di Dio.
A sera a me la barba
è diventata dura e nera,
i tuoi capelli di zucchero filato
invece non si sono mossi,
non li spettina il vento,
chi sei?
Tante sono le lingue del mondo,
solo il silenzio non c'è;
tu sai che poeti e peccati
saranno rimessi,
sono io, aprimi!
Dio non parla,
è un poco divino
dimenticare una lingua.
Pane. Chiamami pane,
pane, pane, molte volte
dimmi pane.
Perché tu sia a folle in me
la moltiplicazione
dei pani.
Se fossi donna non amerei che me stessa
nell'acqua,
se fossi uomo non amerei che la donna
che si ama nell'acqua,
se fossi acqua sarei l'acqua dlla donna
che si ama.
Ma l'uomo è fuoco e soffre,
non è amare d'acqua il suo che basti,
non è l'Oceano che abbraccia la Terra,
alito delle foglie marcite
che nutre le foglie vive.
La donna saprebbe non morire,
non può compiere la sua volontà
perché l'uomo la vide bagnarsi
con le sue compagne, scherzare,
non aver fretta, non percepire il tempo,
non aver bisogno di niente,
non chiedere altro che quello che ha;
e l'uomo fu sbranato dai cani
per averla vista nuda giocare
un giorno sull'acqua.
Perché l'occhio che guarda e s'interroga?
L'uomo è un intruso,
venne con lui il desiderio,
l'acqua e la terra non lo sapevano
quando venne sul vento il fuoco.
Alcune volte ho pensato all'anima
che trattengo come la sabbia
nel risvolto dei pantaloni,
come la terra che non si stacca
dalla suola delle scarpe,
come una macchia di frutta
di stagione: la fragola
non va più via, nemmeno le ciliegie,
ma la più terribile è la pesca.
Anche i cachi, le mele e le pere
facevano impazzire mia madre,
ma solo l'erba era come la pesca.
Ci si può macchiare anche di pioggia,
rimane l'ombra dell'acqua,
una piccola zona più scura.
Dei colori solo l'acqua
diventa odore di muffa:
le stagioni non laciano odore.
Ho cercato d'immaginare
quale parte del viso porteremo,
come sarà fatta l'anima,
se avrà un naso, degli occhi, una bocca.
A che serviranno gli altri sensi,
se restano solo colori?
Metteva nome Stanley a fiumi
che nessuno conosceva.
E sulle carte vergini dell'Africa
città e cascate apparivano
evocate da quell'esperto di nomi.
L'esploratore non rivelò mai
la formula delle sue evocazioni,
ma a volte, alzando il capo
in città a leggere i nomi
delle vie, in me rivive
quell'amore per gli sconociuti
prigionieri nel sonno delle pietre,
nell'incoerenza dell'acqua.
Sono qui, Signore, qui,
mi troverà il tuo coltello?
Gli occhi invecchiano
prima delle mani,
le ambizioni dinastiche
dei sensi cedono
alla signoria della notte
come se materia e forma
trovassero l'araldica
conciliazione di uno stemma.
Così negli occhi Dio governa
il mondo, motore immobile,
tregua fra oppositori e fedeli
alla signoria di Amore,
alto sulla vetta
dei corpi che vanno già
vestiti di cenere.
Gli stili delle epoche, i sovrani
che non mutano nome ma numero
nella successione al trono,
sono gli anni del corpo.
Le prove del sarto ritagliano,
su stoffe che non copriranno
per sempre, il disegno d'una
figura incapace di pose
per l'artigiano severo
che fascia e cuce e rammenda
i guasti del tempo.
C'è, dentro quell'irrequietezza
davanti allo specchio, il sogno di un'eleganza
definitiva,
liberata dalla civetteria
della storia.
Per otto anni il mio orologio
ritardava un minuto e mezzo
ogni sette giorni.
Poi una mano lo aprì, e ora
anticipa di un minuto e mezzo
ogni sette giorni.
Risanato cammino, operato
invece che al cuore, al tempo.
E' una convalescenza da tutti
i ritardi sommati nelle mie arterie,
gli antipodi forse camminano così.
Si è spostato l'asse celeste del
cervello, di qualche grado in meno
inclinato sul piano della morte,
gioca con orbite di stelle più lontane.
Per fare i conti di quanto
debbo restituire di anni rubati,
scrivo queste operazioni.
Quanti sonni consumati
in queste stanze...
Poi un giorno le stanze
passeranno, ne costruiranno
altre, ma solo i sogni resteranno.
C'è il mandorlo,
l'albero che fiorisce
appena qualche giorno
e poi si spoglia del colore
per i frutti,
come tutti gli amori mortali.
C'è l'albero del fico
che non mette mai fiore,
è subito frutto,
come la madre di Dio.
C'è il ciliegio giapponese
che quasi non conosce frutto, è solo fiore,
come l'amore di Dio.
Quando canti sento il mondo
Tutto aperto entrarmi dentro:
minacciato da un dolcissimo male
si rifugia intero nel mio corpo.
"Vattene, vattene via..."
gridano gli anni,
ma è tardi, il canto è entrato
dentro fino al cuore.
Tu sei i miei occhi,
io sono la tua voce,
oscura è la storia dei corpi
fioco rumore di anime
sfogliate come pagine,
non successivi capitoli d'una leggenda
di giorni nell'orbita
del sole e della luna,
ch'io non sono ancora
e che più tu non sei,
nomi di lingue morte e spente letterature,
voci di pastori d'Asia e di angeli
in lotta nell'oscurità per venire alla luce
della mia e della tua volontà
di stringersi a questo tempo
nell'attimo in cui lo sguardo del sole
e della luna in eclisse
si amarono e irruppe ladra
la morte sulla pelle
per il nostro vagabondaggio
in questo giardino dove nessuno
coglierà frutti, amore fiore,
desiderio perpetuo
di Adamo che dorme e Dio lo guarda
e pensa alla donna.
Mi hai chiesto al telefono
perché non vengo ad abitare a Roma,
che ci sto a fare qui.
Ma qui si guarisce più in fretta,
si vede la vita calare a vista d'occhio.
Sapessi come occorre poco, un niente,
per una così lunga malattia,
sapessi come passa presto una giornata di nulla
davanti a un cortile dove non passa mai nessuno,
con le acacie i colombi i camini le statue ...
(vivere è superare un esame,
accumulare giorni bianchi,
le prove dell'innocenza).
Santo santo santo è il silenzio
amore tre volte purificato
dal fuoco dal vento,
frutto del deserto
maturato dalle tenebre
per mani chiuse in cerca dell'alba.
Due orologi battono dalle torri
le stesse ore a prudente distanza.
L'inutile ripetizione cerca
l'orecchio più duro
per convincerlo che il tempo
passa davvero
o è l'orecchio
che distorce il tempo e ripete
l'ora nella camera vuota della mente?
La mattina non è ingrata,
difficile è la sera
addormentarsi senza qualcuno
che racconti e negli occhi
risusciti il risveglio
della mattina.
E questa voglia antica
che mai si spegne
col passare degli anni,
come farò come farò domani?
Chi di un vecchio ancora ragazzo
perdonerà l'antica brama?
E nasce un tempo nuovo
Di quest'amore nascosto
come un pesce sotto i ciottoll
nelle pozze d'acqua fino a sparire.
Là sotto la voglia di tradirti
è solo la forza di saltare
da una pozza d'acqua
a un'altra, verso la perduta
corrente, nel fiume grande
dove c'eravamo trovati.
Potessi risalire la corrente
riuscire a una sorgente...
Sono un pesce di fiume
che teme di perdersi nel mare
e ne ode lontanissimo il destino.
O vita mia che ti vuoi restituita
Solo a forze consumate,
vita che mi conduci veloce al finale,
alla rovina del mio corpo,
vita che mi hai chiuso in questa carne,
ti guardo da questi occhi,
nel mio odore di uomo
che occupa un'aria leggera
e lascia nel vuoto la forma
di un desiderio.
Passo dove passarono i corpi
Che formano quel vuoto,
aspiro l'aria che fu loro,
sono io, ora, il loro deposito
da consegnare
a chi non conoscerò.
Così intimo è il contatto,
così impudica la successione
negli atti, testamento mai scritto
di beni che non rimarranno
a nessuno. Perché alla fine
nessuno mi erediterà, nessuno
avrà i beni del primo
di questa catena di lasciti,
tutto ritornerà al primo possessore.
Siano rese grazie agli dèi
Che mi vollero sterile,
ma brucia la volontà di consistenza,
la fame di porti e di ospitalità
in enciclopedie dove i nomi
scorrono in successione diversa,
come re di Francia spossessati
del nome per un numero,
come l'aria che si sposta
al mio passaggio, ma non mi tiene,
non mi lega, non mi stringe,
mi lascia al male e al bene
del mio svanire.
Impara da me, così veloce
A catturare la preda;
vivi due volte,
il sogno della cosa
e il gesto della presa
- all'atto di stringere però,
avrai già un principio
di affanno, lasciala... –
Mi sveglio e dall'altra parte
del mondo se ne vanno a dormire.
C'è sempre qualcuno in viaggio
per entrare dove sto uscendo,
come la compagnia di musicanti
che ho sognato, dal Nord
in cammino verso il Sud.
Appena li ho salutati
la dolcezza della lingua
mi ha tradito:
ero il paese dov'erano
felici di svegliarsi
insieme a tutti i paesi
addormentati di questa
metà del mondo.
Sono una cava di sogni
ancora da sfruttare
per i lavoratori della notte,
un campo di grano
per chi questa notte
ha fatto il pane.
Se la morte fosse la mano gentile
che chiude gli occhi,
la coperta che avvolge un corpo
e lo protegge dal freddo,
un gesto rubato di assenso,
un sì lasciato cadere
a una muta domanda,
un patto privato, un passaggio
segreto, una tregua
rinnovata di anno in anno
fino a dimenticare l'esattore
distratto che non s'accorge
se convenga risvegliare la creatura
che gli si era affidata,
se la morte fosse un visita,
un viaggio, una vacanza,
traditi da un'amnesia
delle parole per tornare a casa,
un passaporto scaduto,
un'autorità che non firma
permessi, né rinnova visti
per una rivoluzione che ha sospeso
la legge, se la morte non fosse
cattiva, se fosse buona,
la morte?
Chi mi cerca, chi?
Corro su e giù verso la porta
Ma non c'è nessuno.
Eppure suona ancora,
lascio che si tradisca
in una voce, non mi muovo.
Chi sei?
Avevo paura di saperti
Di là dalla parete sveglio,
a spiarmi, da bambino.
Oggi sono io quel che eri tu,
mi sono messo una barba
bianca al collo,
un bambino truccato da vecchio
ti aspetta,
ma non resta molto tempo,
spegni il mio orgoglio.
Ho passato la vita a sognare
L'incontro che la spezza in due,
ecco che suoni ancora alla porta,
cosa faccio?
Se ti corro incontro non ci sei,
se attendo qui fermo
non ti accorgi di me,
Dio, apri la porta,
non tardare
(tanto so che sei tu)
Roma, giugno 1997.
Mi mancano le ali
eppure l'ansia di riaprirle
m'accompagna notte e giorno.
M'insidia il desiderio,
mi cattura sul ramo più basso
dove matura la mia vista.
Sogno il nido laggiù,
l'uscita, il varco, il ritorno.
Le parole sono piume disperse,
antiche prove di volo,
invidia delle creature terrestri.
Qualcuno le spaventò,
disse che il canto le caccerà
non appena mi ricresceranno
le mie ali.
Ho nostalgia dei numeri dimenticati
nei conti minuti della spesa
da conservare nelle tombe dei vivi,
delicati deperibili segnali,
meridiani e paralleli della sete,
geografie della fame,
proiezioni di Mercatore
e linee di data del caldo,
fine del freddo,
calcoli di sonno e veglia,
temperature di febbre,
metrica di accenti e sillabe
da togliere alla carne
per darla al numero,
osso spolpato che rimane
ma posso dimenticare
il suo colore degli occhi,
il suo timbro della voce,
lassù in alto
dove i capelli scherzavano
al vento sulla testa.
Roma '97.
Se la vita sta finendo
è una strana allegria
che mi cattura,
le cose da fare saranno
ancora per oggi infinite,
già domani si conteranno,
poi, dopo domani verrà
dato l'orario delle partenze.
L'ansia di fare la valigia
la conosco dagli inizi
del viaggio, quando si partiva
per il mare,
combacia la valva che s'aprì
col coperchio solo un poco consumato,
e forse troverò due parole
in rima per chiudere la mia vita.
Ah, preziosa calma
di questi giorni,
ci si può riposare
guardando la via percorsa
e far somme e sottrazioni
di anni, e godere
delle date misteriose stelle
di un cielo che ruotava
senza che sentissimo il vento
degli astri.
Girando con la terra,
senza sosta, occupati a riempire
la durata del viaggio,
non porgevamo orecchio
alla musica e al silenzio,
del cosmo non avevamo sentimento.