L’IDEA SIMBOLISTA DI MARIO LUZI

L’IDEA SIMBOLISTA DI MARIO LUZI

Nei versi di Mario Luzi c’è molto il senso della vita, quasi un’idea entusiasta ed estatica del vivente, il quale non può che essere esaltato (e non invece mortificato) dalla consapevolezza della sua caducità, della sua fine. Perché l’impressione è che quello che viviamo qui altro non sia se non un aspetto di una vita più durevole e che nel cosmo ci siano delle corrispondenze nelle quali potremo riconoscerci, cioè dei luoghi in cui la nostra esistenza ha il suo corrispettivo. Tornando a sfogliare il volume delle sue Poesie (Garzanti Editore) è subito chiaro che Mario Luzi vive la sua esperienza di uomo, prima che di poeta, nell’ottica dell’anelito spirituale, in una chiave di cristianesimo luminoso e geometrico che può avere la sua corrispondenza simbolica nella facciata del Duomo di Firenze, città che è poi il luogo di riferimento profondo ed assoluto per l’autore, non scenario o complemento, ma sostanza di vita. Per la sua prima produzione, credo fosse calzante la definizione di “simbolismo estetizzante ed edonistico” che ne aveva dato Gianfranco Contini. È vero che allora Luzi si riferiva in senso stretto all’idea di poesia pura che potevano aver avuto un Mallarmé e un Valery, nel segno di una poetica della parola iper elegante. Ma, a partire dalla raccolta Un brindisi (1946) e soprattutto da Primizie del deserto (1952), il simbolismo estetizzante si stempera in una “misura riflessiva e discorsiva” (l’indicazione è sempre di Contini) e successivamente, a partire da Nel magma (1963), nella misura dialogica dell’azione drammatica (sviluppi anticipati già in un nucleo di poesie degli anni 1956-1960, poi inserito in Dal fondo delle campagne pubblicato nel 1969). L’idea simbolista resta tuttavia il fondamento della poesia di Mario Luzi, che ha continuato a tracciare i segni di quel tanto di più profondo e misterioso che si cela al di sotto del mondo fenomenico, offrendoci dunque solo l’apparenza del maggiormente conoscibile. E il piacere della lingua ha continuato ad organizzare in ritmo un lessico ancora sceltissimo. In quell’elegante “dire e non dire” che Giacomo Debenedetti ha definito: “menzione relativamente chiara di qualcosa di cui si può stabilire l’esistenza solo al di fuori del linguaggio chiaro”. Nelle sue costruzioni polifoniche, un tempo segnate dalla regolarità dell’endecasillabo e poi preferibilmente affidate alla frantumazione degli “incisi” e dei versi asimmetrici, la poesia di Luzi è tesa ad indagare il perché dell’esistenza, in forma interrogativa. E questa voce che interroga non è retorica, non nasce dal soffio romantico del sentimento, ma è dialetticamente il mezzo con cui si esercita il dubbio di fronte alla complessità del reale, martellando l’enigma per estrarne la verità segreta. In una situazione che può ricordare la pittura metafisica di Giorgio De Chirico, dove all’evidenza delle parti corrisponde l’enigma dell’insieme con la sua rete di simboli e rimandi. Per Mario Luzi, la poesia è qualcosa che viene dal fondo, un’onda che sale su e che porta in superficie una sedimentazione ricchissima, emblema della continua universale metamorfosi dalla quale scaturisce la vita. E non è un caso che rispetto agli atomi leggerissimi del fuoco, presenti in gran parte della poesia di Luzi con la figurazione della loro carica combustivi, abbia assunto nell’ultima produzione il valore archetipico primario un altro elemento: l’acqua, collegato con la simbologia della maternità e della vita. Il tema del contrasto tra tempo ed eternità, consegnato metaforicamente alla combustione gassosa, ha trovato superamento nel tema della continuità della vita, che allo stato liquido appunto e alla sua “fissità nel movimento” si affida nella poesia come nella realtà.

Paolo Ruffilli

Il Resto del Carlino

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