Clara
SERRA

Clara Serra è nata ad Agropoli (SA) nel 1948 e vive a Torino. Ha pubblicato le raccolte di poesie: Trama e Ordito (Manni Editore, 2007), Di Bronzo E Fiamma (Genesi Editrice, 2010, con presentazione di Giorgio Barberi Squarotti), Bestiario delle rime imperfette (Genesi Editrice, 2010, con presentazione di Sandro Gros-Pietro), Paesaggi dell’anima (Raineri Vivaldelli Editore, Torino, 2017, con prefazione di Dario Voltolini e postfazione di Angela Donna), Questo luogo del cielo è chiamato Torino. Poesie 1972-1978 (Passione Scrittore, Torino, 2025). Ha inoltre pubblicato i saggi: Serra Clara [a cura di] Rosa & Azzurro. Genere, Differenza e Pari Opportunità nella scuola (Rosenberg & Sellier, Torino, 2003), Tra Re e Regine… Del Leggere e dello Scrivere in un Laboratorio di Scrittura Creativa (Editore Guida, Napoli, 2004). Come narrativa: Papà, ammazzarti avrei dovuto (Passione Scrittore, Torino, 2023, Premio di scrittura femminile “Il Paese delle Donne, 2024”, promosso dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma), Mi chiamavi la mia grande (Passione Scrittore, Torino, 2024, poesia e prosa).

clarindisa@gmail.com

POESIE

da TRAMA E ORDITO

IX
Dipano un filo lungo tanti anni filo ritorto filo d’oscuro
nitore latente del cuore che brama e
rinarra nel tempo nel libro intessuto di sogni
e splendori. Una coperta grande colorata per
l’uomo che ho amato coperta magica fatata
che ritorna più di quello che hai dato coperta
di fili d’argento e d’oro per il principe che m’ha voluta
signora per un giorno del favoloso regno del Mahi.

Quadro n. 9
Novella Shahrazâd, se  vuoi, ti racconterò di me donna  che infiniti fili hanno intessuto della mia pelle d’albicocca che si stende in pianure e valli in monti anfratti e promontori ti narrerò dello sguardo che t’ha avvinto nel sortilegio incantato  mentre ti perdevi nell’iride verdazzurra del mare su cui posano ciglia di velluto e ti dirò del fianco snello e sodo la curva perfetta della schiena che digrada e s’avvalla liscia e sinuosa  sensibili articolazioni d’una tastiera che tu sai suonare – ti dici maestro e  precettore –  e le mani sorelle gemelle? Così fini articolate flessibili così docili e arrendevoli due colombe candide e un po’ maldestre tiravano i tuoi baci come sorrisi. Potrei continuare l’inventario e sul banco mostrare cosce forti e tenaci seni audaci e acerbi un collo d’avorio e … Mio uomo impastato d’acqua e d’argilla! Dietro il paravento delle ciglia dove s’affrettano leggeri i miei pensieri non guardi i bagliori di fuochi e accampamenti non curi le mie avanguardie – tu Signore del Regno. Ora che dormi ti narrerò di me donna che nel chiuso delle viscere intesso fili d’oro e d’argento e conservo il fuoco dono degli dei. Di vita e di morte ti parlerò, del sangue rosso che cola lungo le cosce, di incursioni e occupazioni di una carne che s’accresce dentro il buio oceano dell’universo.

da LA STRADA

Autobus 58
È il 58 un bus che varia in 58/ sbarrato
da corso Tazzoli a via Bertola percorre
con inutile osservanza agli orari in tabella
questa bretella questa arteria di cemento
bigio e scuro fiorito di canine deiezioni
è di quelli ecologici a gas metano
è di quelli con le scritte sulle fiancate
casa di laminato e di plastica già corrosa
macchie d’unto irrancidito e gli odori
di stantio di soffoco di fiati arroventati
di pestilenziali zaffate sulfuree esalazioni corporali
nel ventre che s’indura e appesantito raccoglie
asmatico e rantolante gli «utenti» – fauna di 
burocratica ufficialità – come una biella
una puleggia un pistone la coppa dell’olio
che nelle viscere di ferro vanno ciecamente.
Pigiati inzeppati stivati come polli in batteria
corpi confinanti nello sfioro se l’ora concede
la distanza minima allo sguardo senza uscita
altrimenti tibie peroni permutano s’immischiano
in gomiti piantati nelle reni a modo di fucile fanno
leva su gambe torte e torve piantate come torri
che si barbicano si abbarcano colmando
ogni pertugio foro crepa o fenditura s’appalesa
nello spazio saturo di marcite evaporazioni.
A ore otto a branchi quelli dell’Alberghiero
falange temuta munita di zaini e scarponi
s’aprono un varco d’ariete gli intoccabili
nel sorriso chiodato nel brufoloso acerbo dello sguardo.
A ore nove sporte e borse conducono per mano
donne popolane come casamenti di periferia
di poca attrattiva di già molti anni se le nocche
delle dita brandiscono violacee e ruvide e le
bocche stringono a culo di gallina.
A ore diciotto riede alla sua parca mensa
il manipolo in rotta da fabbriche e uffici
bonsai asfittici larve di liminali percezioni
pesci storditi dai botti e tra questi inermi
lamnidi s’aggirano inavvertiti.

da DI BRONZO E FIAMMA

Reduce dal giorno
Reduce dal giorno m’acquieto nella notte antica e certa se inevitabile
allontana l’osceno sguardo degli umani – illividite marionette sul vieto
palcoscenico d’un tempo fumoso e incerto – e nulla tiene della giornata che
trascorse stantia e vecchia Ora più prossime le cose al respiro singolare e
uguale delle stelle si dispongono benevole a me d’intorno Il bracciolo della
poltrona mi cinge con premura attenta e fiera e i miei due piedi stremati
dal troppo camminare trovano ricovero gradito nelle pianelle ardite gemelle
colorate Sul fornello borbotta la cuccuma per avvisarmi ch’è pronta solo che
io voglia e la lampada sta discreta in disparte per non disturbare Un libro m’attende
paziente Ne sfioro il dorso ne saggio il peso l’annuso e quando l’apro mi si offre
intero pane e vino Il foglio bianco prima deserto accoglie cedevole le mie parole
sorelline industriose e un po’ bislacche sia che facciano ressa sia che disertano
Accenno appena un saluto alla cassettiera blu cobalto la mia preferita e alla libreria
fitta e stipata come un uovo Alla fine la fedeltà delle cose ci apre gli occhi su noi
sul nostro disinganno – mai innocenti già dimentichiamo l’offesa che il fratello
fece al fratello che l’indifferenza ferisce più che lama di coltello.

L’orologio
Ho comprato alfine l’orologio a muro e l’ho appeso alla parete
del tinello Ora posso ascoltarne i battiti che mi accompagnano
come il lento gocciare nelle vene quando deserto il tempo sbiadisce
sulla soglia Di tanto si sono spogliati i giorni miei e brune ombre
hanno invaso ogni canto in visibile attesa Talvolta vengo a singolar
tenzone con quella che sogghigna impunemente e vanta privilegi
d’antica schiatta L’usbergo s’è usurato ammaccati gli schinieri e
nelle mani nessuna lancia in resta o sulla bocca parola che ferisca
Le più volte scendo a patti per una tregua una provvisoria pausa
d’oblio e l’orecchio rivolgo ai segni della presente stagione e al suon
di lei Lo strepito che ne fuoriesce scava trincee nella mente stordita
riempie i fossi e le caverne del corpo con lo scempio degli occhi
oscuri terminali del tubo catodico Tace ogni ragionevole intesa e nel
turbine dei giorni dura cosa è sopportarne l’anima rincagnata e
avversa Pulsa e trema la mia umana sostanza senza riscatto o altra
redenzione che il sonno che disseta.

Dedicato
———–(a Giorgio Barberi Squarotti)

La sua lettera Caro Professore m’è arrivata
Con la posta del mattino – col freddo pungente
Del mese di novembre

Solitaria una gazza saltella ai piedi dei miei sette pini
E ignara traccia con la sua livrea bianconera 
Segni d’indecifrabile lettura

Tempo dei morti e delle cerimonie questo
Che ci rammenta volti altrimenti dimenticati  
Non fosse un giallo cespuglio di crisantemi

Se appena socchiudo la finestra un odore penetrante
Di foglie marcite – già florida livrea della stagione
Più rigogliosa e lieta

Inspiro ed espiro a prova che oggi ancora vivo
e lascio i miei pensieri divagare – liberi alfine
dalla prigione del lucido ragionamento

La sua scrittura dai tratti così minuti e sghembi
Quasi un aquilone che abbia ricevuto un colpo di vento
Mi scorta allora ai luoghi della mia frequentazione

Quel vizio inconfessabile che m’ha corrotta
e resa forestiera
(Torino 3 novembre 2009)

da PAESAGGI DELL’ANIMA

La nebbia si stacca sfrangiandosi dai tetti
La nebbia si stacca sfrangiandosi dai tetti
Dei palazzi – illividito il cielo teme un muto
Sbattere di falene

Di prima mattina la vita emerge da abissi
Insondabili – ristà pendula come una goccia
Di pioggia immobile sul ramo

Sulla tavola la tazza il latte e il pane creano
Il sibilo inclusivo della caffettiera – uno spazio
Tranquillo di pura limpidezza

Lentamente mi vengo elaborando – sonnolenta 
Una luce di sasso colora la polvere paziente
Di un’aria sinistra e inospitale 

Ora vedo cose che mi fanno piangere – un’ascia
Ha squarciato l’albero fino al cuore ma al dolore
Mancano le parole

Arriva l’uomo nero dai tuguri della Rognetta
Con la rabbia improvvisa della fame e della sete
La cieca disperazione di identità non riconosciute

La pianura del nord continua a restare deserta ma è
Al sud scuro e duro che guarda la fortezza Bastiani
Del nostro timore

Bisognerà avere pazienza e una cura infinita – restare
In ascolto di ogni voce o suono anche quello più lieve
Dell’ape sui petali di un fiore

Perché la paura sia soffiata via come il fiocco di lanugine
Del cardo.

Paesaggi dell’anima
Il giardino si sveglia quieto nel mattino
Che conserva l’umido della rugiada della notte
I miei passi esitanti sul tappeto dorato delle foglie
Trovano i sensi vigili e accorti

Procedo lenta e turbata nella cattedrale solenne
Degli alberi dove il silenzio della preghiera acquista        
Accenti profondi e dimenticati e i tonfi gravi delle
Castagne rendono testimonianza – che lì agisce il caso  
Quel grano di libertà che ci riguarda

So che il giardino ha confini certi e stabiliti che
Non ci è dato oltrepassare la soglia che non sia
Nel sonno quando i sensi s’allentano e danno inizio   
Alla sedizione dei sogni

Di questi me ne resta solo qualche brandello di
Rutilante bellezza visionaria una finestra aperta 
Sui paesaggi dell’anima numinosa quegli oscuri
Recessi che dimentichiamo

Mi lascio piano piano coprire dalla coltre delle foglie
Sempre più fitte e copiose in questo mattino aurorale
Si disfa il contorno della carne si liquefa la pelle
Come cera e mette a nudo le viscere dove senza onore
Dimora la poesia – quel ronin accattone e miserabile
Che mi divora.

da MI CHIAMAVI LA MIA GRANDE

T’ho partorito fanciullo e amante
Io donna di fuoco e carne
Ho inscritto nel tuo ventre molle
e piatto muschio denso e vorace
vertigini d’altezze e innevati picchi
di desiderio ho creato geometrie
di colori inesistenti ho bevuto
umori e sapori alla tua pelle

T’ho partorito fanciullo e amante
mio gioco e mio diletto
e non eri che desiderio
confine e limite di me a me stessa
sfinimento di pensieri

La pena
Noi siamo
E questo nulla d’arcani
Sogni che a riva spinge
Deriva di un battello
Azzurro e l’ombra
Quieta dell’alberatura
Piega acque di calme
Superfici assorte
L’ora tarda si contenta
D’un accenno di luce
All’orizzonte – plana
Lento un gabbiano
Non un beccheggio
Il battello
Sì fermo resta
Il durare d’un attimo
Di pena

da QUESTO LUOGO DEL CIELO È CHIAMATO TORINO

Torino
Ora che la notte
perlustra le cieche
occhiaie dei palazzi
Ora pulsano le arterie
al neon in un ansare
pallido di sogni
guasti sotto i portici
lungo i cavalcavia

Duro cuore il tuo — città —
non lascia un ultimo
riposo il tram — lontano
geme il lavoro e le rughe
del tempo sottili viluppi
delle nebbie ai palazzi
di Piazza Carlina — male
degli uomini 

Ora anche il Po tira a riva
le sue coltri di brume
forse e sul banco d’una
piola trema ancora un ultimo
bicchiere Il tuo sonno
bestiale ha pur un’anima
che pesa inerte sul mio petto
rivale la mente che…

Ora mi sovvengo del tempo
deserto di presenze amiche
Ora conto i respiri che mi
separano dal domani quando
il sole disselcerà glabri sentieri
tuoi lucenti asfalti e miei

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