Ottaviano De Biase presenta il suo poemetto bilingue dal titolo “Ulisse – La speranza il divenire” (Delta 3 Edizioni, Collana Plenilunio, con traduzione in inglese a cura di Antonio Galizia). Sull’onda che inquieta il tramonto incendia, nel caos delle cose e nella incertezza del destino, travolto dal fato e dagli Dei avversi, un Ulisse moderno – che abita la terra ferma, Santa Lucia di Serino, tra le distese dei monti del Terminio – leva il volto al cielo. Da qui il pensiero fugge nella rotta incisa dal respiro, quasi umano, del vento che sferza l’animo ed il cuore verso un porto calmo che anela come acqua nel deserto, per raggiungere una quiete che, nella divagazione della vita, sembra solo un miraggio in lontananza. Un canto di sirena, che nelle sembianze sembra quella che spicca sullo stendardo del Comune, avvolge e travolge le emozioni. Non è il mare a chiamare, né la costa lontana, ma l’eco di un suono che, dalle parole riabita l’invisibile, la radice, quella promessa fatta alla nascita del corpo sulla terra ferma, che brucia come cometa e divora l’anima spesso inchinata a pretendere una risposta, complessa. Allora, ogni remo che taglia l’acqua è un passo oltre il confine del mondo, ogni tempesta è un frammento di ricercata verità, sussurrata da divinità capricciose e silenzi che rendono infinito l’orizzonte. Le sirene cuciono, nelle note dell’ugola il desiderio, i flutti nascondono gli inganni, ma Ulisse non cerca la certezza della riva, il fremito dell’ignoto, l’infinito sospeso. Cerca sé stesso, nel viaggio rincorre l’uomo che si cela dietro l’eroe, e affronta il suo ego ed insieme le sue fragilità, quelle che non vengono a galla immediatamente ma si dipanano nella poetica innovativa del mito che ne fa Ottaviano De Biase. Il poemetto “Ulisse” narra poeticamente, la profondità tematica, carica di complessità simboliche, dell’archetipo Omerico: l’eroe (stavolta) umano, colui che affronta le sfide dell’esistenza non solo con coraggio, ma con una consapevolezza che trascende l’epico per abbracciare il pensiero filosofico e psicologico. Il centro del testo, il flusso sensoriale e cardiaco che ne deriva, non è il viaggio ma l’idea di questo. Non si richiama lo spostamento fisico bensì l’esperienza trasformativa, il nostro Ulisse è umanizzato (dannatamente autobiografico, in un’accezione positivamente complessa). Il mito si smitizza e diventa vessillo da sventolare nella tempesta, simbolo di chi non si arrende alla staticità (catastrofica e antitetica) della vita e sfida il destino (le forze avverse della natura e degli dèi). Il percorso diventa epopea classica e introspezione moderna, una metafora universale: la ricerca di sé stessi, della propria identità, del proprio posto nel mondo. Il richiamo a Dante, con la citazione dall’Inferno (XXVI, vv.139-142), conferisce un ulteriore livello di profondità. L’Ulisse di Dante è colui che osa varcare le Colonne d’Ercole, simbolo dei limiti imposti all’uomo… Eppure in questo poema c’è una diversa sfumatura: non è solo spinta verso l’ignoto, ma anche ritorno, memoria, e riconciliazione con la terra natia, Itaca (intesa in senso ampio). L’eroe diventa un ponte dialogico tra passato e futuro, un simbolo di resilienza e speranza ma anche di cadute e rialzi, di drammi e riconciliazioni. Un elemento spesso trascurato nella figura di Ulisse è il legame con la madre, Anticlea. Invero, in questo poemetto, esso rappresenta quasi un nucleo a parte, quello che si alimenta dalle radici, il richiamo alla terra, al ventre, all’origine. È attraverso di lei che Ulisse (Ottaviano) è connesso al senso più profondo della vita: la memoria e l’appartenenza. La madre è colei che insegna il rispetto per il ciclo della vita e per la luce, “fonte di ogni inizio di ogni fine”. Nel rapporto simbolico con la sua privata “Anticlea”, ancora come se non fosse mai stato reciso il cordone ombelicale, emerge anche un’introspezione sull’ineluttabilità del destino e sull’importanza dell’amore materno come forza formativa e sostegno emotivo. Una figura da cui non ci si distacca, neanche dopo la morte, anzi che rinvigorisce nell’assenza, che può essere letta come un simbolo della necessità di recuperare un rapporto autentico con le nostre radici, culturali ed emotive, il tramite attraverso cui si riscopre il senso della comunità, la trasmissione di valori: elemento fondamentale in un mondo sempre più frammentato. Con uno stile poetico fluido, evocativo, rappresentativo, mescola immagini che aprono varchi in un lessico accessibile, immediato, ma profondo. Le descrizioni, a cavallo tra il realismo e l’onirico, creano un’atmosfera sospesa tra realtà e immaginazione, e fanno emergere un richiamo, mai scontato, al simbolismo di poeti come Ungaretti e Montale mentre la struttura della narrazione epica si rifà a Omero, con una sensibilità contemporanea che permette di attualizzare la figura di Ulisse. Il riferimento poi, alla donna della sua vita, alla madre dei suoi figli, a Penelope, rende l’afflato poetico assoluto dell’amore (carnale e spirituale insieme) dell’uomo per l’essenza femminile che lo accompagna sia nei carmi del presente, sia come fiore di luce nel buio del passato, in cui ha rovistato il dolore e ne ha fatto parole, tracce di senso, versi. Si tratta di una dialettica profondamente simbolica, multidimensionale. Questa rappresenta, prima di tutto, una figura di resistenza e di “attesa trascendentale”. Penelope è descritta come una “madre germinale“, un archetipo estremamente affascinante di origine e speranza. La sua attesa diventa un atto di creazione, una forma di “gestazione” che trascende la semplicistica pazienza. Filosoficamente può essere vista come una riflessione sul concetto di tempo, su come il vissuto si intrecci con l’attesa e il desiderio, su come la vita si sviluppi nella tensione tra il passato e il futuro. La sua attesa non è passiva ma è una forma di creazione continua, una lotta tra l’assenza e il ritorno. Come scriveva Heidegger, l’essere umano è intrinsecamente legato al tempo, ma il tempo non è solo un continuo scorrere, bensì un’esperienza esistenziale. Penelope, in questo contesto, è un simbolo della connessione tra il tempo (carne) e l’esistenza stessa (mente), della costante tensione tra attesa (desiderio) e realtà (presenza fisica), tra passato e futuro, tra l’eterno ritorno di Ulisse e la solitudine presente. Poeticamente, poi, assume una forza evocativa che fonde l’amore con la sofferenza, l’aspettativa con la disillusione. I versi parlano di un amore che “ha reso grande questa casa”, di un sentimento che ha dato vita e sostanza a un luogo che ora è, stato, spesso desolazione e attesa. La casa dei camini, simbolo di calore e accoglienza, è ora una casa “senza mai chiudere le porte”, ma questa apertura si fa simbolo di una solitudine che non trova pace, nonostante la speranza. La donna, trasfigurata in Penelope, diventa, quindi, una figura che vive in una tensione continua tra l’amore che è stato e l’amore che può essere. La sua solitudine diventa poetica perché è il contenitore di tutte le emozioni che un tempo hanno riempito la sua vita, ora lasciate in sospeso. C’è una qualità quasi “mistica” nella sua attesa, un rapporto profondo con il “mondo intorno” – l’acqua, il pane, il fuoco – che diventano, attraverso il suo sguardo, elementi che si combinano e si connettono a lei in una dimensione che trascende la realtà materiale. In una lettura più moderna Ottaviano l’interpreta come il simbolo della donna che, pur nell’attesa e nella sofferenza, non si perde mai, ma continua a dare forma alla propria esistenza. La sua figura si trasforma in un simbolo di resilienza e di consapevolezza. L’attesa non è più solo quella di una donna che aspetta il ritorno di un uomo, ma diventa quella di una donna che si trova a fare i conti con se stessa, con la propria identità e con la propria esistenza: quasi come se ci trovassimo di fronte ad una riflessione sul tempo dell’individualità, sul trovare il proprio posto nel mondo nonostante le difficoltà. Penelope non è più la semplice moglie di Ulisse; è una donna che si interroga sulla sua identità, sul senso della vita e sul suo ruolo in una società che a volte sembra ignorarla. La sua frase “fammi questo dono / parlami per come sono” suggerisce un desiderio profondo di essere compresa, accettata e vista per ciò che è, al di là del posto tradizionale che le è stato imposto. Penelope diventa, così, un simbolo della donna moderna che chiede di essere ascoltata e che, nonostante la sofferenza, trova la forza per rimanere viva, per rinforzare la propria esistenza in un mondo che cambia. In questo poema il viaggio non è solo un percorso mitologico o esistenziale, ma si intreccia con le cicatrici storiche e collettive, come quelle lasciate da eventi tragici che hanno segnato la vita di Ulisse (Ottaviano) nel senso più altamente autobiografico del termine (anche perché la storia di chi scrive è fatta di mare e di marina militare insieme). Ed ancora il riferimento è esplicitato ad un senso di ingiustizia, ad un mondo che cambia continuamente, senza offrire risposte concrete. Il “decadimento continuo” e “il repentino mutare dei tempi” sono metafore della crisi sociale, simile al caos che Ulisse affronta nel suo viaggio. Qui, però, l’autore connette il viaggio interiore del singolo alla tragedia collettiva. La “censura imposta dai media” è un richiamo alla distorsione delle informazioni, proprio come nel caso di eventi come il disastro di Ustica, dove la verità è stata a lungo nascosta o manipolata. In questo caso, il viaggio diventa anche una lotta per ottenere ristoro, risposte, una giustizia che tarda ad arrivare. La “povertà” che “disdegna scrivere il suo nome sui muri” può essere letta, invece, come un riferimento ad una società che sembra ignorare il dolore collettivo, che non affronta le ferite del passato. La povertà qui è simbolica: non solo materiale, ma anche spirituale, una povertà che germina carestie nella memoria, che non riconosce le sofferenze storiche, come quelle legate al terremoto in Irpinia, che devastò intere comunità nel 1980; o forse potrebbe alludere al fatto che la società spesso preferisce dimenticare piuttosto che fare i conti con il passato? Come nel viaggio di Ulisse, dove le cicatrici della guerra e della sofferenza sono sempre presenti, anche la società moderna porta con sé un peso di storie non raccontate, di tragedie non risolte. In questi versi, “il mare” rappresenta non solo il viaggio fisico di Ulisse, ma anche il cammino dell’individuo (di Ottaviano) e della collettività attraverso le difficoltà e le tragedie, diventa distesa d’acqua che custodisce sofferenze collettive, dei disastri che colpiscono la società, ma anche speranza, una possibile redenzione. Non solo simbolo del caos, ma possibilità di navigare attraverso le difficoltà storiche, come quelle di Ustica in cui “i timonieri” e “nostromo” sono le figure che guidano questa nave collettiva, che non è solo la nave del singolo, ma quella di una comunità che lotta per trovare la sua rotta in un mondo segnato dalla sofferenza. Non manca anche un riferimento alla “casa lorda di fumo” e alle “ferite dei nostri antenati” che mettono in evidenza un legame assoluto, quasi indefinito, con le tragedie storiche che attraversano le generazioni. La “casa” diventa simbolo della memoria collettiva, di quelle cicatrici che non si rimarginano, come quelle lasciate dal disastro di Ustica, dove la verità continua a sfuggire e la memoria storica è continuamente rimossa o distorta. Le “ferite del Cristo sulla croce” forse diventano simboli del sacrificio e del dolore che l’umanità deve affrontare, e che, come nel caso del terremoto, vengono vissuti come un destino che non si può evitare. Il “lamento di queste mura” è la metafora di una società che non ha ancora trovato la sua pace, che ancora porta il peso delle tragedie passate. Il viaggio di Ulisse, riletto attraverso questi versi, diventa il percorso simbolico di un’esperienza umana universale, che si intreccia con la storia, la memoria collettiva e le tragedie che segnano le generazioni. Non si tratta più solo della storia di un eroe, ma di una famiglia, di una comunità e, in definitiva, dell’umanità intera. Così grazie a Ottaviano De Biase il mito di Ulisse trova nuova linfa: diventa non solo l’emblema dell’uomo che affronta l’ignoto, ma anche delle sfide contemporanee: migrazioni, crisi identitarie, cambiamenti climatici. La riflessione sul viaggio di Ulisse mi invita a considerare il mio stesso percorso: quali sono le mie Colonne d’Ercole? E cosa significa per me Itaca? Domande che ognuno di noi dovrebbe porsi, lasciandosi guidare dalla luce della memoria e dal coraggio del cambiamento. Un cameo la traduzione in inglese a cura di Antonio Galizia che rende fruibile il testo anche oltre oceano, con l’augurio che il viaggio di questo Ulisse prosegua in altre terre.
Prefazione