VOCI DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO 2 saggio di Paolo Ruffilli

VOCI DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO 1 Betocchi, Caproni, Cattafi, De Libero, Erba, Giuliani,
Guidacci, Rebora, Sereni, Sinisgalli

VOCI DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO 2 saggio di Paolo Ruffilli

Balestrini, Bellezza, Bertolucci, Bevilacqua, Fortini, Gatto, Giudici, Loi, Luzi, Moriconi, Ottieri, Pagliarani, Pasolini, Raboni, Roversi, Sanguineti, Spaziani, Zanzotto

BALESTRINI

Quella di Nanni Balestrini è una poesia di ricerca verbale, oltre la comunicazione, sulla pista del gioco ma come trasposizione in atto ludico della contraddizione drammatica della realtà di un’epoca attraverso il suo linguaggio. La sua esperienza ha trovato il versante espressivamente significativo tra ordine e disordine linguistico, tra pieno e vuoto, tra presenza e assenza, non come frutto del caso o della stravaganza, ma per un vincolo necessario e sufficiente proprio perché ogni epoca si esprime in modo specifico e la nostra appare dominata dall’insignificanza. Ecco il salto in avanti, e insieme l’atto eroico, di chi imbocca una nuova strada per la scrittura, in aperta polemica con la letteratura ufficiale degli anni Cinquanta, e la persegue con estrema coerenza fino alle ultime prove soprattutto in poesia (anche oltre  “Antologica”). L’ultima produzione sta a dimostrarlo nella sua evidente spazialità sincronica o, volendo rovesciare i termini, nella sua diacronica simultaneità puntiforme. L’inflazione della parola è il cuore della strategia del consumo: l’uso, ad altissima frequenza, di pochi termini che hanno perso il loro significato e confuso i sensi possibili finisce con l’accreditare arbitrariamente la supremazia della componente sociale (o presunta tale) oggettiva su quella psicologica soggettiva. Per questa via, di allentate capacità di controllo, passano i messaggi banali della nostra società, elementari nella loro struttura formale e grossolani nella definizione di un senso manipolato ma capaci di incidersi, col contorno del referente più patologico, in modo definitivo e di alterare irreparabilmente le potenzialità positive del parlare tra gli uomini. In contrapposizione a questo processo di deterioramento del linguaggio, senza continuare a navigare alla deriva nelle nebbie della balbettante farneticazione e senza aggrapparsi per altro agli esili contorni degli oggetti, la poesia di Balestrini sceglie la pronuncia atonale della propria interna e assoluta impassibilità. Lo stilema, in questo seriale percorso sincopato, è una lingua che si arresta nel momento in cui si apre e si diffonde. La sua potenza espressiva è l’esplicitazione, per continue implosioni, della grande violenza che il nostro tempo e il nostro mondo esercitano all’insegna della loro urbanità e sotto l’egida della libertà e della democrazia. E l’intero “novissimo canzoniere” che Nanni Balestrini ha composto negli anni, usando un passo suo dal coro di Elettra, “è quasi un diario di appunti / che da soli o proprio perché tali / obbligano a riflettere a interrogarsi / a ricostruire una geografia mentale / oltreché fisica in cui pian piano cominciare / a trovare la forza delle risposte / recuperare i luoghi farli rivivere / usarli in modo diverso”.

BELLEZZA

Non si è mai parlato tanto di Dario Bellezza come nei due mesi che hanno preceduto la sua morte, trascurando tuttavia il suo lavoro di scrittore e sfruttando cinicamente il suo caso umano. Lui se ne rammaricava con gli amici, consapevole della responsabilità di aver alimentato negli anni il suo personaggio disegnato dentro una condizione maledetta di stampo tardo-romantico segnata dalla “dannazione” (sua parola) dell’omosessualità. Proprio in quella circostanza, Bellezza aveva previsto il silenzio più assoluto dopo la sua morte. Come puntualmente si è verificato, in un’assenza critica tanto più evidente nei confronti del suo lavoro di poeta perché avvenuta a fronte di esaltazioni pseudocritiche, in quegli anni, di poeti inconsistenti o molto meno consistenti di quanto fosse lui. La mancanza del suo nome e dei suoi testi rende monche e ancora più inutili alcune antologie, perché la sua poesia segna un momento importante nella vicenda poetica del secondo Novecento, il cui quadro complessivo perde rilievo senza l’energia drammatica della sua esperienza. L’ultimo libro di Dario Bellezza, uscito postumo, “Proclama sul fascino” (1996) chiude il cerchio della sua ispirazione tornando ai motivi e all’ansia di ricerca dei suoi inizi, di libri come “Morte segreta” (1976) e “Io” (1983). Insomma, nella sua ultima produzione il tema dominante di Bellezza torna ad essere la morte. Non tanto la morte come evento ineludibile della vita nelle conseguenze del quotidiano, quanto piuttosto come tentativo mistico, dantesco, di superare la carne per attingere le vette della solitudine e dello spirito. Nell’ultimo libro come negli altri due già citati, si parla molto di Dio e trova quasi approdo di pace quel bisogno religioso che attraversa e tormenta l’intera opera di Bellezza. C’è sempre stata nel fondo della poesia di Dario Bellezza una disperazione sorda e lontana, che trovava solo parziale soluzione nella consapevolezza della libertà assoluta delle proprie scelte.  Perché l’autore, mentre si scopriva quasi con rammarico escluso dalle gioie degli altri, aveva la coscienza di non riuscire a vivere fino in fondo le proprie gioie di diverso (“Invettive e licenze”, 1971). L’urlo, lo sgomento, la rabbia, salivano a tratti e venavano di ribellione anche la tenera memoria, rimasta l’unica àncora di salvezza per un animo devastato a morte. C’era, in quella poesia, l’ansia di una immortalità da ricercare a tutti i costi, perché sembrava inaccettabile rassegnarsi al cerchio stretto della vita, ai suoi confini angusti, al suo precipitoso declinare (“Fugace è la giovinezza / un soffio la maturità; / poi avanza tremando / la vecchiaia e dura, dura / un’eternità”). E balenava, al poeta, la salvezza possibile: Dio (“dolce parto di assoluzione”, “riscatto di ogni cosa atroce”). Ma Dio appariva e scompariva. E, di eterno, restava solo la morte, “sortilegio del nulla”, assoluzione e riscatto. Gliene veniva il desiderio; gliene rimaneva, nonostante tutto, una voglia segreta. E, intanto, il poeta si affidava all’artificio e alla finzione, al gioco degli specchi. Era questo il segreto scopo della sua poesia, esorcismo per eccellenza: annullare, componendo qualche segno di illusione, la consapevolezza dell’illusione stessa. Per Dario Bellezza, il problema più assillante a livello esistenziale, è stato la morte. Il suo pensiero era che, per ciascuno di noi, la vita sia la ricerca – come si diceva una volta – della buona morte. Insomma un fatto metafisico, come per la poesia. A leggere per esempio “L’avversario” (1994) si ha l’impressione di un “congedo” annunciato (e ce n’è proprio uno finale con tanto di titolo); come se l’autore si accingesse a deporre la penna per sempre e volesse prima testimoniare il messaggio estremo della sua esperienza di poesia. Probabilmente anche perché per lui ogni libro era una scadenza decisiva: nella necessità di fare i conti con se stesso e con la vita e nel timore (esorcizzato attraverso la poesia, appunto) di non essere più in grado di ripartire da capo, dopo il punto. Come accade esemplarmente nel “Libro di poesia” (1990), dove Bellezza ricapitola i suoi motivi e le sue ossessioni dentro quell’accensione verbale che ha sempre contraddistinto tutte le sue prove. Un’accensione verbale in cui la natura magmatica della scrittura trova una sua paradossale rastremazione, in un barocco un po’ lunare e contratto, cifra coltivata e perseguita in modo coerente fino alla fine. Ma per Dario Bellezza, la stessa poesia era una “condanna”, una “maledizione” e, in ogni caso, qualcosa che lui sentiva venirgli da lontano: come un’oasi, come un luogo dove ancora l’umano festeggia i suoi momenti più alti. Sia pure in una visione di impotenza; perché la poesia non serve, non cambia il mondo e, tutt’al più può cambiare alcune coscienze individuali. Ed è stato l’interprete privilegiato di questa idea di poesia, riconfermandola e sottolineandola con partecipazione totale ad ogni uscita di libro, dal primo all’ultimo. Ecco i prodromi di ciò che poi è stato: “Così aspetto di capire chi sono, / o meglio chi sono stato o diventato, / …ora malato / malato della malattia della morte”. E la netta evidenza: “Sono diventato un perfetto / casalingo, chiuso in casa, sognando / Dio o il misticismo”. Con la scelta o la conseguenza inevitabile: “La Santità: ecco il mio approdo / o la partenza definitiva. Nient’altro / voglio o aspiro”. Così si chiude l’ultima poesia, ritornando come si diceva alla prima; e lo stesso Bellezza ne ricapitola lucidamente il percorso in chiave religiosa (eretica, se si vuole, ma religiosa): “Non si muore subito. / Si muore poco a poco / in ogni giornata, / impercettibilmente / in attesa di Lei / ci si copre la testa / per entrare nella Chiesa / in espiazione di peccati / mai commessi o tentati”.

BERTOLUCCI

Se c’è un poeta che nel nostro Novecento ha sempre avvertito il pericolo della così detta “poesia pura”, questi è Attilio Bertolucci. Un atteggiamento tutt’altro che marginale ai fini della sua stessa poetica, decisamente originale e perfino peregrina, in una situazione più generale dominata dall’aulicità e dal prezioso a tutti i costi. Del resto raramente l’opera di un poeta ci appare così irriducibile alle ideologie letterarie, così libera dagli artifici posticci di cui la parola si ammanta quando abbia perso il contatto con la vita, come la poesia di Bertolucci, che invece alla vita è sempre rimasta abbarbicata per istinto e per convinzione. I molti saggi di Paolo Lagazzi bene individuano come da “Sirio” a “Fuochi di novembre”, dalla “Capanna indiana” alla grande epopea domestica della “Camera da letto”, tutta la produzione poetica di Bertolucci si svolge nel segno di un profondo colloquio con l’esperienza nella sua totalità, all’insegna di “una stretta di mano”, come Paul Celan definiva la poesia. Secondo Lagazzi, l’ispirazione poetica di Bertolucci è governata dalla “rêverie”, cioè dalla fantasticheria, “perché l’immaginazione è l’unico viatico a noi concesso per poter leggere la nostra quotidianità come destino”. Aprendosi alle più varie fonti di ispirazione, e dunque anche alla retorica, l’opera di Bertolucci risulta assolutamente antiretorica, nel continuo sforzo di adeguamento della voce alla verità. A conferma di questo quadro critico erano venuti, nel 1993, “Verso le sorgenti del Cinghio” e, nel 1997, “La lucertola di Casarola”, libri compositi che recuperano testi giovanili accanto a componimenti più recenti, fornendo così i tasselli per completare l’insieme. E fin dai titoli ci si apre a quella quotidianità di cui si è detto: Casarola è la località dell’Appennino parmense dove la famiglia si spostava d’estate, e il Cinghio è il torrente accanto al podere dove c’era l’abitazione dell’infanzia di Bertolucci. Siamo nei luoghi cari al poeta: la campagna parmense, la Padania sentita e vissuta come terra avventurosa, come spazio di conoscenza non troppo lontano dalla propria casa, allo stesso modo che nella “Capanna indiana” o nella “Camera da letto”. Sono pagine da cui emerge l’evidenza sottolineata dal primo acuto critico di Bertolucci, Pier Paolo Pasolini, che si tratta di una poesia non idilliaca e il senso del passato che Bertolucci ha è totalmente privo di nostalgia. È un senso del passato-presente, cioè rivissuto al presente, materializzato “qui e adesso”. La famiglia, la moglie, i figli, la terra: tutto passa attraverso un amore della vita che è energia e sostanza del presente. È proprio questa assoluta pregnanza del presente che allontana Bertolucci dalla poesia novecentesca, che è l’erede del grande simbolismo francese, e ne fa un esempio di originalità isolata nel panorama di riverberazioni colte e “letterarie” dell’esperienza italiana. Un’originalità che, fraintesa o sottovalutata alle prove iniziali, appare sempre più macroscopicamente portante nella poesia italiana di quegli anni e addirittura una sorta di stella polare in grado di ridare l’orientamento a molti altri poeti disorientati o sperduti. E, nella poesia di Bertolucci, il ritorno della memoria è come fulminato e reso immobile nello spazio fermo di una rappresentazione degli oggetti del reale quotidiano. L’immagine della memoria riflessa sullo specchio è, in fondo, una sorta di indicazione di marcia sulla quale si distende il filo del racconto poetico. Già prima della “Camera da letto” l’autore insegue nei suoi versi un progetto di comunicazione. E il puro peso della comunicazione non inibisce alla parola le virtù liriche, fantastiche, evocative e mitiche che sono proprie della poesia, piuttosto le accoglie e le subordina a un’intenzione diversa, di discorso interlocutorio tra sé e gli altri. Il giovane Bertolucci, eccitato dai romanzi di Salgari (come lui stesso confessa), cerca le sorgenti del Cinghio, alla scoperta dell’ignoto. Lo muove l’ansia dell’avventura, ma insieme l’esigenza di non andare troppo lontano, di ritornare sempre a casa. È il motivo che, dai versi degli anni Trenta in poi, attraversa tutta la poesia di Bertolucci e la sostanzia. Nell’intenzione continuamente ribadita di recapitare ad altri le risultanze della propria vita, fornendo la traccia per un vicendevole riconoscimento.

BEVILACQUA

La “curiosità” è certamente una delle molle di conoscenza, oltre che una delle qualità artistiche, della natura anarchico-padana di Alberto Bevilacqua. La curiosità come interesse generalizzato per la vita, per tutte le sue manifestazioni e situazioni; e la curiosità come principio di superamento, di slancio in avanti e di rimessa in gioco, dentro e oltre il rischio della compromissione. Non per niente la curiosità allarga il suo spettro d’azione dalla superficie della pelle fino alle profondità dell’inconscio e il suo riscontro di sensorialità diffusa e vigile finisce col coinvolgere, nel cerchio di una sensualità sempre potente, la fantasia e l’intelligenza. Ecco, nello spazio ogni volta sondato del mistero, le caratteristiche della poesia di Bevilacqua: “L’indignazione”, “La crudeltà”, “Il corpo desiderato”, “Legame di sangue”, “La camera segreta”, raccolte tutte di grande rilievo. Il retroterra naturalmente è sempre autobiografico, a tal punto forte che tutto si affida all’invenzione totale e per ogni fatto e per ogni figura l’autore si sostituisce completamente alla realtà. E la realtà così reinventata si rivela nel suo possibile significato al soffio di una poesia leggerissima che è tale per un effetto musicale: una sorta di polifonia interna, “modulata tra abbandono emotivo e tensione ragionativa”. La leggerezza, nella sua trasposizione filtrata di una materia densa e sanguigna, è rivelatrice di quello stato di grazia che caratterizza un autore al culmine della sua maturità espressiva, al quale Giorgio Caproni riconosceva la coincidenza di “lucida intelligenza” e “umana pietà”. Nei versi di Bevilacqua c’è sempre una fortissima carica umana, una verità assoluta, qualcosa che ispira al lettore adesione immediata. E tutto si circoscrive ai confini della sua terra amata: Parma, città incandescente, e i suoi dintorni, la campagna, le acque del Po. Un universo perfetto, la cui vicenda umana e sociale e i cui incantamenti continuano ad essere, per lo scrittore, una fonte inesauribile di ispirazione, per quelle radici profonde che lo legano a luoghi e cose del suo passato anche remoto e perfino ancestrale.

FORTINI

Il poeta italiano in qualche modo emblematico della sofferta e stratificata scelta dell’engagement è Franco Fortini. La sua produzione poetica, pur essendo quantitativamente limitata, è importante e si colloca, nella più complessa sua esperienza critico-narrativa, dentro la prospettiva di una denuncia drammatica della realtà sottoculturale del mondo borghese italiano. L’impegno di Fortini nasce da un versante propriamente di consapevolezza intellettuale. Ecco perché, al di là dell’idea di poesia come “strumento di lotta” e di intervento reale, l’esperienza del poeta Fortini affonda le sue radici nell’autenticità, in un nucleo problematico che è quello della tensione interiore. Di lui ha detto Andrea Zanzotto che “troppo profondo è il suo impegno per ridursi soltanto a una delle varianti del famoso o famigerato engagement e le sue parole sono troppo intense perché si limitino ad essere solo comuni parole, per quanto efficaci. O meglio, al di sotto di quel suo dire che si vuole azione, all’interno di esso (e perfino contro), nasce il dire che è atto poetico, invenzione di forma”. Il discorso, insomma, va portato sulla qualità stilistica della sua poesia, che è senza dubbio una qualità alta, non solo intensa, ma perfino sofisticata, nel senso di elegante e raffinata. Il centro stimolante e contraddittorio di questa poesia è il rapporto tra natura e storia, riportato allo specifico della quotidianità del suo autore, cioè alla realtà del suo vigile lavoro intellettuale (che Fortini sia stato una delle poche serie coscienze critiche del nostro tempo lo ammettono, oggi, anche i suoi nemici). Il rtiferimento è sempre drammatico e va alla presunta ricchezza spirituale e morale di quella società che, sulla pelle dei più, costruisce le proprie cattedrali. E il grido che si leva è di indignazione, per l’indifferenza tragica in cui si consuma il gesto continuo di chi non solo è defraudato, ma tenuto ai margini di quella considerazione e di quella giustizia che sono (o sarebbero) la sostanza rigenerante per tutti. Si leggano le raccolte “Giovanni e le mani”, “Poesia e errore”, “Una volta per sempre”. A Oreste Del Buono che gli chiedeva quali fossero le sue più care verità, Fortini ha risposto: “Un rapporto tra gli uomini in una prospettiva che dovrei chiamare comunista. Siccome oggi viviamo una grottesca liquidazione del passato, riaffermo ciò che conta. C’è un Piave. Io sono su questo Piave, pur sapendo che nessun redentore, nessuna rivoluzione cambierà l’intero mondo e neppure qualche sua parte”. Il suo ultimo libro di poesie si intitola “Composita solvantur”, cioè “si dissolva quanto è composto” e insomma il disordine succeda all’ordine, un verso tratto dall’epigrafe per il filosofo Francis Bacon che richiama una memorabile esclamazione del Mefistofele di Goethe: “Gli elementi congiurano con noi / e tutto corre ad annientarsi”. Può darsi che sia stata un’allusione di Fortini al dissolversi della sua stessa salute: una precognizione della fine e della morte. Ma, come è in tutta la sua produzione, il pessimismo riguarda solo l’intelligenza e non già mai la volontà, secondo l’affermazione di Gramsci che gli era cara. E, anche nelle ultime poesie, la consapevolezza della luce che si attenua di fronte alle tenebre non cancella affatto il desiderio (o il sogno) di una lotta senza quartiere per salvare il salvabile, cioè sempre “tutto”. Nella volontà, sempre e comunque, di non arretrare mai da quella linea del Piave evocata nell’intervista di Del Buono.

GATTO

L’ultima raccolta di Alfonso Gatto, “Desinenze”, è uscita postuma, curata da Ruggero Jacobbi e Paola Minucci. L’ordine dei versi, in gran parte deducibile dalle annotazioni dello stesso poeta, si fa più incerto per le “Ultime poesie”, ma in ogni caso l’incertezza dell’ordine non muta la sostanza. Questo libro, rispetto alla produzione precedente (“Amore della vita”, “Il capo sulla neve”, “La forza degli occhi”, “La storia delle vittime”, per citare i titoli più significativi), conferma gli stessi moduli stilistici, gli stessi spazi ritmico-musicali, le stesse rarefazioni lessicali, lo stesso giro sostenuto del discorso. Gatto, che ha mantenuto e anzi privilegiato con maggiore sottigliezza la sua vocazione musicale, continua a credere nell’autonomia della parola poetica e nei suoi canoni di “assoluto” e di “puro”. A individuare il suo ermetismo, basta quell’analogismo vertiginoso delle immagini (sottolineato, tra gli altri, da Contini) che si dichiara ovunque nei suoi versi. Ma a definirlo nel senso di una originalità marcata, vanno richiamati, da una parte, la pregiudiziale musicale che decide della sua poesia e, dall’altra, l’uso tradizionale e senza devianze che Gatto fa del metro e della rima e, a ben guardare, delle stesse strutture sintattiche. Si può dire che, nei quarant’anni di lavoro poetico, sia rimasto fedele fino all’ossessione ai propri temi e modi, chiudendo la sua poesia nel cerchio limpido e perfetto di un ermetismo senza soluzione, giocato per vocazione “nella melodia infinita” (per usare una definizione di Luigi Baldacci), cioè nell’orchestrazione e nell’accordo musicale. Tenendo ancora per buono il piano, o sogno, ermetico di salvare nelle perfette geometrie del linguaggio l’imperfetto stato del mondo e le sue scorie, Gatto ha applicato a motivi e situazioni anche di attualità strumenti formali che con quelli realizzavano un “connubio” spesso stridente. E, rendendosene conto, è tornato da sé dopo il 1965 in maniera definitiva a quel canto dolente di natura esistenziale, dove ogni referente è occasione subito remota, che resta probabilmente nelle prove dei diversi interpreti l’unica esperienza letterariamente riuscita dell’ermetismo. Il canto dolente di natura esistenziale nelle “Desinenze”, involontariamente testamentarie per la morte accidentale del suo autore, si pone come scelta discriminante oltre che come vocazione, si fissa come dichiarazione meditata di un cammino senza ritorno in cui i gesti non possono che essere sempre e solo definitivi. Così, dalle riflesse immagini delle donne amate, dalla presenza ricomposta delle figure care, dall’inventario delle vicende minime d’ogni giorno, dalle cronache dei morti onnipresenti, dai paesaggi ripescati in fondo all’anima, viene il grido  ̶  alla fine, ben più avvertibile che nelle poesie iniziali  ̶  del riconoscersi come già “trascorso”, come già “vissuto”. Condizione che leggiamo anche metaforicamente in certi suoi versi: “Sembrava che la vita / non bastasse ad emergere al respiro / di quella luce chiara. / L’estate è già finita…”. O ancora: “Nella china rissosa, nello sdrucciolo / d’un grido solo, ma lontano, il tonfo / del baratro si chiude”.

GIUDICI

Dagli anni Sessanta in poi, la nutrita serie delle raccolte di Giovanni Giudici, ben dodici, è venuta a consolidare l’originale esperienza di uno scrittore che ha superato nelle sue prove la crisi del linguaggio poetico di una generazione e di una età. Coetaneo di Pasolini, di Roversi, di Zanzotto, Giudici ha scelto la strada di una poesia come racconto critico di sé, secondo un taglio ironico (che è soprattutto autoironico), della pura intonazione. Un racconto della identificazione progressiva, che è poi dell’approssimazione per difetto, disteso in una specie di “canzoniere” moderno e affidato al recupero di usi lessicali e sintattici diversi, assunti al livello di letterarietà. C’è, dentro la poesia di Giovanni Giudici, un movimento per il quale l’io-poeta da protagonista si è progressivamente decentrato, individuandosi sempre più come uno degli oggetti della poesia. Ed è da questo punto di vista che, ad onore del vero, quelle che erano sembrate ad alcuni critici tracce di neocrepuscolarismo si rivelano invece segni del costante processo di autoridimensionamento a cui l’autore ha sottoposto il suo lavoro poetico. L’io-poeta è controbilanciato sempre più, nel prosieguo della vicenda di Giudici, da altri io-estranei, interlocutori rivalutati a ruolo di coprotagonisti. E, di questo andare ironicamente contro se stesso, ci sono spie stilistiche e spie grammaticali. Innanzi tutto, colpisce in Giudici la contrapposizione al tono alto, elevato, del grigio della materia. Il linguaggio mediano della quotidianità viene recuperato ad un’area linguistica preferenziale che è al grado alto sintattico. Il fenomeno era già macroscopico nelle prove del passato, poi si è gradualmente affinato in una trama sempre più sottile, in cui risalta di riflesso il gioco delle figure retoriche: l’inversione, l’anastrofe, l’iterazione. La predisposizione drammatica di Giudici cede a tratti, come nella partitura di un recitativo, all’inno. Ma un inno del tutto particolare: quello, appunto, che deve assicurare un’intonazione solenne alla materia trita e quotidiana e quello che, come possibile o presunta regina delle convenzioni metriche, garantisce dell’ordine nel disordine. Il fenomeno si è evidenziato in “O Beatrice”, e si è sempre più raffinato, attraverso “Salutz” e “Lume dei tuoi misteri”, fino a “Fortezza” e nell’intera sua produzione di “Tutte le poesie”. Di che cosa parla la poesia di Giovanni Giudici? Parla, nel suo svolgimento, dell’inurbamento, della società neocapitalistica, del lavoro nella grande industria, della vita d’ufficio, delle convenzioni familiari, della massificazione, del consumismo. È un racconto della vita quotidiana in cui più stridente, nella riduzione alle misure minime, si fa l’accenno alle aspirazioni e agli ideali. Un racconto non in chiave oggettiva, realistica, o tanto meno memoriale, di confessione e di rimpianto, ma secondo deformazione e sfocamento: lo spaesamento dell’io nel delirio quotidiano, nelle allucinazioni della casa e della famiglia, in mezzo ai fantasmi dei media di massa, nell’alienazione del lavoro. E, oltre a tutto questo, uno spaesamento dell’io che proietta a se stesso l’immagine delle strutture labirintiche del suo cervello. Bisogna parlare anche di onirismo o, meglio, di interferenze oniriche a proposito della poesia di Giovanni Giudici. Ed è un’indicazione che va sottolineata alla luce di certi sviluppi della fase ultima, per quel modo di guardare alla realtà (e al mondo) dal suo rovescio. Come appare, esemplarmente, in molte delle poesie del “diario in versi” di “Fortezza” o di “Quanto spera di campare Giovanni “o di “Eresia della Sera”.

LOI

Secondo Franco Loi, il grande avvento della poesia in dialetto degli ultimi decenni si comprende meglio se si accantona per un momento l’immagine storica di un mondo in progresso e si riascolta la lezione antica che vuole il mondo come decadenza e perdita, e la lotta degli uomini contro la decadenza e la violenza per la conservazione dei valori. Gli stretti legami tra una filosofia del “paradiso perduto” o della “cacciata” e il cantare poetico, che in sé presuppone la nostalgia e la memoria, sono facilmente rilevabili, se appena si pensa all’infanzia e alla sua irripetibile pienezza e forza evocativa nella vita di ogni uomo e di ogni popolo. Il dialetto, erede delle tradizioni orali, è (particolarmente in Italia) più della lingua nazionale, formatasi dal perdurare di una tradizione scritta tra le classi egemoni, idoneo a farsi tramite del sopravvivere nell’uomo di quella visione antica e di quei nessi perduti. In ogni caso, come diceva già Graziadio Ascoli, l’unità italiana e l’accesso ad una lingua nazionale non può che essere il frutto della conservazione e della crescita dei dialetti o, per meglio dire, delle varie lingue regionali. Infatti, se la lingua è legata alla coscienza degli individui, come si può immettere una vera coscienza nel patrimonio nazionale negandone le lingue? La funzione del dialetto da questo punto di vista – in riferimento anche ai poeti che in contemporanea a Loi scrivono in friulano, romagnolo, lucano o calabrese – può essere rivoluzionaria, se si pensa alla situazione di depersonalizzazione in cui vive la nostra società, dominata dall’uso del computer e dal ricorso ai messaggini del cellulare, attraversata insomma da gerghi minimali che sono lo specchio dell’impoverimento della lingua. E la vicenda poetica di Franco Loi è esemplare di quella crescita per cui il dialetto è tornato negli ultimi cinquant’anni a farsi lingua “totale” della poesia, abbandonando cioè gli aspetti “coloristici” o l’uso alternativo rispetto all’italiano. È un’esperienza portante e decisiva, in una serie di raccolte esemplari: da “I cart” (1973), passando attraverso “Stròlegh” (1975), “Teater” (1978), “L’aria” (1981), “L’Angel” (1981), “Bach” (1986), “Liber” (1988), “Memoria” (1991), “Umber” (1992), “Amur del temp” (1999), “Isman” (2001), “Aquabella” (2004) e fino a “I niul” (2012). Di famiglia sarda e nato a Genova nel 1930, Loi è vissuto a Milano da sempre e ne ha adottato il dialetto. Per quanto, occorre dire che il suo linguaggio poetico nasce dalla mescolanza di elementi linguistici di varia natura (gerghi, idioletti), d’area proletaria o contadina, spesso reinventati per esigenze espressive proprie. Insomma in una miscela personalissima che testimonia, oltre tutto, della natura “sperimentale” e innovativa dell’autore. A suo tempo, Pier Vincenzo Mengaldo, nella sua famosa antologia della poesia italiana contemporanea, riconosceva in Loi “la personalità poetica più potente degli ultimi anni”. Un’indicazione critica che continua a valere a maggior ragione, alla luce della produzione successiva e più recente. La forza espressiva dei testi di Loi attinge energia molto in profondità, si direbbe quasi alle radici stesse dell’esistenza. Oltre e attraverso le abitudini, gli oggetti, le convenzioni, gli anni e i mestieri di una vita ingombrata e oscurata da scorie e incrostazioni, il filo del pensiero, rifuggendo da ogni astrazione, si incarna appunto nel flusso dell’esistenza, nei gesti, nelle scelte, negli incontri e nei rapporti, di cui la poesia si fa registrazione “di essenza” per mezzo della lingua. In Loi, la gioia di vivere trascolora ogni volta, più o meno di colpo, nella malinconia. La cosa si accentua in “Amur del temp”, insieme con il grado di partecipazione all’intensità della vita. Vita riportata al suo stadio “miracoloso” di epifania e di attraversamento estatico, in un’esperienza di celebrazione addirittura sacrale. E sempre si stacca, sul fondale della scena, il profilo delle cose durevoli, delle presenze che si rinnovano e continuano, il senso di una “gente” sempre viva e destinata a sopravvivere come realtà culturale e di sentimenti dentro (oltre) i legami d’amore e di sangue.

LUZI

Nei versi di Mario Luzi c’è molto il senso della vita, quasi un’idea entusiasta ed estatica del vivente, il quale non può che essere esaltato (e non invece mortificato) dal senso della sua caducità, della sua fine. Perché l’impressione è che quello che viviamo qui altro non sia se non un aspetto di una vita più durevole e che nel cosmo ci siano delle corrispondenze nelle quali potremo riconoscerci, cioè dei luoghi in cui la nostra esistenza ha il suo corrispettivo. Tornando a sfogliare il volume di “Tutte le Poesie” è subito chiaro che Mario Luzi vive la sua esperienza di uomo, prima che di poeta, nell’ottica dell’anelito spirituale, in una chiave di cristianesimo luminoso e geometrico che può avere la sua corrispondenza simbolica nella facciata del Duomo di Firenze, città che è poi il luogo di riferimento profondo ed assoluto per l’autore, non scenario o complemento, ma sostanza di vita. Per la sua prima produzione, credo fosse calzante la definizione di “simbolismo estetizzante ed edonistico” che ne aveva dato Gianfranco Contini. È vero che allora Luzi si riferiva in senso stretto all’idea di poesia pura che potevano aver avuto un Mallarmé e un Valery, nel segno di una poetica della parola iper elegante. Ma, a partire dalla raccolta “Un brindisi” (1946) e soprattutto da “Primizie del deserto” (1952), il simbolismo estetizzante si stempera in una “misura riflessiva e discorsiva” (l’indicazione è sempre di Contini) e successivamente, a partire da “Nel magma” (1963), nella misura dialogica dell’azione drammatica (sviluppi anticipati già in un nucleo di poesie degli anni 1956-1960, poi inserito in “Dal fondo delle campagne” pubblicato nel 1969). L’idea simbolista resta tuttavia il fondamento della poesia di Mario Luzi, che ha continuato a tracciare i segni di quel tanto di più profondo e misterioso che si cela al di sotto del mondo fenomenico, offrendoci dunque solo l’apparenza del maggiormente conoscibile. E il piacere della lingua ha continuato ad organizzare in ritmo un lessico ancora sceltissimo. In quell’elegante “dire e non dire” che Giacomo Debenedetti ha definito: “menzione relativamente chiara di qualcosa di cui si può stabilire l’esistenza solo al di fuori del linguaggio chiaro”. Nelle sue costruzioni polifoniche, un tempo segnate dalla regolarità dell’endecasillabo e poi preferibilmente affidate alla frantumazione degli “incisi” e dei versi asimmetrici, la poesia di Luzi è tesa ad indagare il perché dell’esistenza, in forma interrogativa. E questa voce che interroga non è retorica, non nasce dal soffio romantico del sentimento, ma è dialetticamente il mezzo con cui si esercita il dubbio di fronte alla complessità del reale, martellando l’enigma per estrarne la verità segreta. In una situazione che può ricordare la pittura metafisica di Giorgio De Chirico, dove all’evidenza delle parti corrisponde l’enigma dell’insieme con la sua rete di simboli e rimandi. Per Mario Luzi, la poesia è qualcosa che viene dal fondo, un’onda che sale su e che porta in superficie una sedimentazione ricchissima, emblema della continua universale metamorfosi dalla quale scaturisce la vita. E non è un caso che rispetto agli atomi leggerissimi del fuoco, presenti in gran parte della poesia di Luzi con la figurazione della loro carica combustiva, abbia assunto nell’ultima produzione il valore archetipico primario un altro elemento: l’acqua, collegato con la simbologia della maternità e della vita. Il tema del contrasto tra tempo ed eternità, consegnato metaforicamente alla combustione gassosa, ha trovato superamento nel tema della continuità della vita, che allo stato liquido appunto e alla sua “fissità nel movimento” si affida nella poesia come nella realtà.

MORICONI

È stato definito «il poeta più originale del nostro secondo Novecento» (Cesare Segre), che «sfugge a ogni possibilità di inquadramento nel panorama della poesia novecentesca» (Elio Gioanola), la cui «sperimentazione di grande originalità nel panorama del nostro Novecento non ha molti esempi che le si possano avvicinare» (Giorgio Patrizi) e il cui linguaggio «ridefinisce i confini del genere “poesia”» (Niva Lorenzini). Alberto Mario Moriconi, che è scomparso nel 2010 a novant’anni, ci ha lasciato in eredità un’esperienza straordinaria e inimitabile di poesia che mescola la più viscerale stratificazione colta a umori solfurei nella formula di una luciferina energia intellettuale di matrice illuministica. Un procedere ironico che si può vedere nelle righe che dedica alla sua vita di poeta (in “Vita becera del poeta”, da Un carico di mercurio): “Meno / la vita becera / del poeta, / mi tengo il ceffone / o mal lo rendo, / tento / schivare il briccone e m’industrio / briccone, / scendo / nella mia stima, patteggio, mi / svendo. // Oh ma a quel nono patto / mi rizzo, rilutto, m’impunto: / strappo il contratto. / Sì sì, riscalo / la china. / Miserabile, porto / quel mio gesto d’oro in regalo / ai miei. / Con gli occhi a una cima, / rimbocco il mio sozzo / angiporto.” Alberto Mario Moriconi è stato un “incendiario della poesia,” secondo la definizione di Giuliano Gramigna, già a partire dai tre libri maggiori dei suoi inizi: “Dibattito su amore” (1969), “Un carico di mercurio” (1975) e “Decreto sui duelli” (1982), che erano stati pubblicati da Laterza ed erano da tempo esauriti prima che Tullio Pironti (l’ultimo editore di Moriconi) non li riunisse nella  “Trilogia tragicomica”, edizione rivista e accresciuta di numerosi inediti a cura di Armando Maglione. E la trilogia di Alberto Mario Moriconi è una grandiosa mise en scene, tragica e comica, con stupende invenzioni contenutistiche e formali, con vicende esemplari e personaggi-simbolo, di ogni tempo, di ogni luogo, di ogni genere, illustri e anonimi, della fantasia e della realtà, degni di una aggiornata “encyclopedie,” un personalissimo “dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers” in versi. Come il resto della sua produzione fino a “Il dente di Wels” (1995), “Io Rapagnetta Gabriel – e altre sorti”(1999), “Non salvo Atene” (2007), la Trilogia contiene e drammatizza tutti gli attraversamenti della vita di Moriconi, a partire dalla sua iniziale professione di penalista poi docente di Letteratura drammatica all’Accademia di Belle Arti di Napoli. Acuto osservatore e commentatore in versi delle vicende letterarie e no, tutt’altro che tenero con se stesso e con gli altri, colleghi e concittadini.

OTTIERI

Il protagonista dell’insolito poema “L’infermiera di Pisa” di Ottiero Ottieri è un “rifugiato” in clinica, dove si abbandona all’affabulazione e alla scrittura per reagire a insofferenza e noia. “Aveva fatto della clinica un mondo, / del mondo una clinica” dice di lui l’autore, “sognava libertà ad occhi aperti / libertà da tutto.” Spinto all’azione dai medici, il protagonista è recalcitrante e incline, piuttosto, alle divagazioni della mente. Una mente che a tratti è assalita dalle ossessioni, nell’incapacità di superare i traumi del passato, e in una sorta di condanna inevitabile, dalla quale l’io riemerge per intermittenze, lusingato da vanità dongiovannesche (le avances nei confronti della bella infermiera di Pisa), catturato dal sogno di consegnare alla scrittura la propria salvezza, ripescato da un insospettato rigurgito vitalistico. Già prima (“Il pensiero perverso”, “La corda corta”) e di qui in poi (“Il palazzo e il pazzo”, “Diario del seduttore passivo”, “Il poema osceno”) il poeta Ottieri si alterna fino a sostituirsi al narratore Ottieri come cantore della depressione, del disagio psicanalitico, del trionfo della carnalità. L’attraversamento dell’alcol come rimedio alle sofferenze dell’animo, la pronuncia del sesso come costante pratica della trasgressione, la consapevolezza della divaricazione incolmabile tra il desiderio della mente e la realtà dei sensi, tutto questo ed altro si dichiara potentemente, tra soffocanti stanze d’ospedale, corridoi di fuga verso l’oltre-clinica, salotti buoni e meno buoni, camere da letto sognate e praticate. È la registrazione quasi in presa diretta (sul nastro di un magnetofono) delle riflessioni di chi ha conosciuto tutte le malattie della volontà e ha provato tutte le possibili cure, quelle costruite “all’europea” sulla parola e sull’anima e quelle fondate “americanamente” sulla chimica e sul corpo. Le stoccate comiche e le impennate tragiche si alternano continuamente in questa dissacrante e autobiografica confessione di Ottieri, in un viaggio al termine della notte dal quale la mente riaffiora insieme ingenua e navigata, pura e corrotta, lucida e tenera. E la voce non ha più incrinature e riesce a pronunciare senza timore anche l’impronunciabile, che è poi il vuoto assoluto in cui galleggia la vita del poeta-protagonista.

PAGLIARANI

Come si vede bene nell’antologia “La ragazza Carla e nuove poesie” curata da Alberto Asor Rosa, Elio Pagliarani ha continuato a marcare un territorio personalissimo che è sostanzialmente quello già tutto dichiarato nel potente straordinario poemetto del 1962 che porta appunto il titolo “La ragazza Carla”. Tra i Novissimi, Pagliarani si differenzia sia da Sanguineti (che tenta una raffinata ricomposizione del linguaggio poetico), sia da Porta (che ha progressivamente ordinato la sua tensione oggettuale, la scansione martellante degli eventi, su una direttrice psicoanalitica o psicopatologica), sia da Giuliani (che ha privilegiato nel tempo la sistemazione pratica dei ritagli di vita, del desiderio del pensiero, dell’immaginazione, del sogno), sia da Balestrini (che, dalla poesia elettronica alla poesia visiva o visuale, sembra essersi assestato infine sulla linea del collage secondo le tecniche del montaggio pubblicitario). Pagliarani elabora e sviluppa una sua convinzione della poesia come luogo dell’opposizione, del positivo/negativo, della distruzione e della ricostruzione, del rifiuto e del progetto. È l’aspetto che ricollega la poetica di Pagliarani a quella sostanza ideologica marxista che contraddistingue l’intera esperienza dell’avanguardia. Nella sua convinzione profonda, il poeta, al di là di ogni connotazione particolare, ha risvolti e, in fondo, funzioni sociali, nel senso che contribuisce con il suo lavoro sulla parola non solo a salvaguardare il linguaggio ma a vivificarlo. E qui bisogna subito aggiungere che Pagliarani è convinto che questa operazione di vivificazione è possibile solo “dentro” la produzione collettiva e che insomma il lavoro sul linguaggio del poeta sia solo di proposta e resti vincolato alla decisione della convenzione comune e sociale. Asor Rosa parla di intenzione “retorica” a proposito dei procedimenti strutturali della poesia di Pagliarani, nel senso di un’attenzione più marcatamente spiccata nei riguardi dell’organizzazione strutturale della poesia, piuttosto che dell’ordinamento stilistico puro e semplice. Cosa che si può facilmente verificare sui testi, a partire soprattutto dal citato poemetto “La ragazza Carla”, attraverso la raccolta “Lezioni di fisica & Fecaloro”, composta di versi che vanno dal 1960 al 1968, e fino ai successivi componimenti del “Doppio trittico di Nandi” e a “La ballata di Rudy”. Certo proprio “La ragazza Carla”, poemetto più complesso di quanto appaia e molto articolato per innesti e sovrapposizioni, è particolarmente indicativo sul piano della sua organizzazione strutturale e “retorica”, al punto che vi si possono individuare, nell’analisi di Asor Rosa, almeno tre livelli paralleli: 1) la narrazione di una storia, 2) il commento dell’autore alla storia, 3) il contorno situazionale alla storia. Ma il poemetto dà anche, con evidenza, il senso complessivo della poesia di Elio Pagliarani. Come ebbe a sottolineare nel 1963 Giovanni Raboni, “La ragazza Carla”, del resto per riconoscimento dell’autore stesso, è “poesia prevalentemente pedagogica”. E infatti il tipo di poesia didascalico-moraleggiante ha un’incidenza significativa nella produzione di Pagliarani, al punto di segnalarsi almeno come tensione anche in prove successive, neppure più dirottata da un interesse di sperimentazione linguistica nel senso avanguardistico. Tenendo presente che, quando si parla di carattere didascalico-moraleggiante, non si intende definire una limitazione, ma un riferimento indicativo a tutta una tradizione di poesia che ha alle spalle la consapevolezza di prove come quelle di Majakovskij e Brecht, Eliot e Pound, oltre che della linea italiana dei nostri Parini, Porta e Jahier, da Pagliarani più volte citati come riferimenti decisivi anche se, naturalmente, da aggiornare al presente e alla contemporaneità.

PASOLINI

Ai suoi inizi (“Le Poesie a Casarsa” riscritte poi in “La meglio gioventù”, con la traduzione in italiano), Pier Paolo Pasolini individua nel dialetto la lingua intatta dalle contaminazioni della letteratura e della vita borghese, la lingua materna pura ed estranea alle forme moderne. Consapevole della consunzione della lingua poetica del Novecento, il poeta intende recuperare “il valore semantico e mitico della parola orale e non scritta rappresentativa di una comunità che nel dialetto riconosce se stessa”, rivendicando con un gesto anche politico il friulano come lingua a tutti gli effetti. D’altra parte il fine intellettuale che convive con il poeta si rende conto, già in corso d’opera, della precarietà di un codice linguistico destinato al condizionamento della fragilità di quel mondo arcaico dal quale lui lo ha attinto e “sul quale incombe un presagio di morte e corruzione”, la fine inevitabile per quanto deprecata della civiltà contadina. Sarà dunque altrettanto inevitabile scegliere un’altra opzione per la lingua volendo continuare a scrivere una poesia a cui affidare contenuti che sono ormai anni luce lontani da quelli dell’idilliaco mondo friulano, dentro la nascente società dei consumi con la sua mercificazione e i suoi poteri occulti, l’omologazione culturale, l’impoverimento delle classi lavoratrici, l’alienazione. Sono i temi sui quali Pasolini va riflettendo in una serie di interventi, confluiti poi in “Passione e ideologia”, e sono gli anni della polemica antinovecentesca attraverso la rivista “Officina”, fondata con Roversi e Leonetti. Già “Le ceneri di Gramsci”, la raccolta uscita nel 1957, sembra chiudere definitivamente una stagione della poesia italiana, come osserva Carlo Ossola. Poi “L’usignolo della Chiesa Cattolica”, “La religione del mio tempo”, “Poesia in forma di rosa”, “Trasumanar e organizzar” attestano compiutamente un modo altro di fare poesia: la drammatica vitalità dell’autore trasferisce nei versi il suo senso del sacro. La poesia diventa specchio della vita attraverso la parola incandescente che emerge dal profondo e ricade sul suo autore in un fall out che ne fa esperienza ormai  translinguistica. Per gli sviluppi e l’importanza della sua poesia, il critico statunitense Harold Bloom, a torto o a ragione, ha inserito Pasolini  nel gruppo degli scrittori che compongono il così detto Canone Occidentale, l’insieme delle opere che hanno fondato nei modelli e nelle forme la letteratura dell’occidente.

RABONI

È stato Raboni stesso con mirabile esattezza (come raramente accade a uno scrittore che parla, sia pure “in opera”, della sua poetica), a definire il campo della sua vocazione, in uno dei racconti della “Fossa di Cherubino”: «una poesia non serve quasi mai a fare scoperte ma quasi sempre a consolidare in modo obiettivamente straziante alcuni luoghi comuni» relativi a se stessi e alla vita. Come definire con altrettanta forza significante la spinta di fondo, la molla propulsiva, la scelta discriminante dell’esperienza di scrittura di Giovanni Raboni? Possiamo solo aggiungere che come il sentimento e la ragione della quotidianità sono la tensione, così le situazioni psichiche sono la polpa della sua scrittura; sul nastro, intendiamoci, su cui si registra il rispecchiamento mentale di una realtà concreta e misurata dai sensi, ripercorsa in lungo e in largo alla sua decifrazione. Raboni, nel 1988, aveva raccolto quasi l’intera sua produzione poetica nel volume “A tanto caro sangue”: un libro complessivo che lo isola nettamente dentro quella “linea lombarda” del ragguaglio marginale e distratto in cui occupa la posizione preminente accanto a Vittorio Sereni. In un’ancora più evidente coincidenza, con il poeta di Luino, di intenzioni e di dinamica interiore: in funzione di quella specie di legge del contrappasso per cui la conoscenza della realtà è sempre scontata da una perdita di sicurezza e di stabilità. Anche le poesie successive dei “Versi guerrieri e amorosi” confermano la direttrice portante di Raboni in quella sorta di accertamento che parte dalla periferia dell’esistenza e della realtà per conquistare piccole zone. E, se “A tanto caro sangue” realizzava un vero e proprio testamento (con i conti fatti, in attesa della fine, dell’incontro con la morte), i “Versi guerrieri e amorosi” precisano e completano il disegno di una personale eredità da lasciare a testimonianza. C’è una traccia netta che corre lungo tutta la produzione di Raboni, fino a “Ogni terzo pensiero” e “Quare tristis”. Definirla fedeltà intellettuale appare riduttivo, perché in una tale definizione non ha il giusto peso quella verità dei sentimenti che è l’anima della poesia di Raboni. Quel rapporto di rispetto nei confronti della vita, quel tenace e bruciante antinihilismo, che risaltano a maggior ragione proprio nei “Versi guerrieri e amorosi”. Testi dai quali viene la conferma che, per Raboni, la poesia è un terreno in cui si verifica tutto: idee, sentimenti, scelte, e che c’è un rapporto totale che assolutizza il legame della poesia con la vita. Nel caso particolare, nei “Versi guerrieri e amorosi” Raboni mescola due termini, guerra e amore, che si riflettono e si rimandano nel loro reciproco simboleggiarsi. Il tutto nella chiave di un recupero anacronistico e all’insegna di quel consolidamento dei luoghi comuni di cui si parlava all’inizio. Del resto è ancora lo stesso Raboni a fornircene una giustificazione o, per meglio dire, una ragione umanissima: «Da molto tempo pensavo di scrivere qualcosa sulla guerra: la guerra, s’intende, come rovescio, intreccio di riflessi e di nomi, quale può essere apparsa a un ragazzo di dieci dodici anni fra città e campagna, bombardamenti e sfollamento; ma ogni volta urtavo contro un clima e un linguaggio che non volevo, che addirittura mi ripugnava, quelli della memoria elegiaca». Eccoli, dunque, i versi di Raboni: fuori elegia, i rimbombi del tempo di guerra e i riverberi dell’amore. Ancora e sempre di lì in poi, partendo da un margine periferico: dal desiderio, intanto, di non perdersi e da quello magari di ritrovarsi.

ROVERSI

Roberto Roversi, tra gli scrittori del secondo Novecento, è una delle figure più rigorose e coerenti che ci sia dato di incontrare, legata a una sua misura di riservatezza e chiusa nel giro di silenzi e di reticenze che, lontano dall’essere i segni di un aristocratico distacco, sono invece i risvolti di un impegno di vita senza concessioni e cedimenti, sempre rivolto ai temi di fondo. In generale, l’attenzione della critica ha sempre sfiorato la personalità letteraria di Roversi, recuperandola in quadri di insieme in cui emergevano il lavoro di propulsore di riviste come “Officina” e indicazioni di gruppo e di tendenza, trascurandone a mio parere l’esatta personale definizione. È vero che, a un esame critico, acquista subito rilievo un’esperienza collettiva come quella di “Officina” e del suo tentativo di definire una nuova ideologia della poesia, dopo i resti postermetici e lo schematismo neorealistico; esperienza che vide accanto a Roversi nomi come quelli di Leonetti, Pasolini, Romano e poi di Fortini e Scalia. Ma resta il fatto che, dirottata da personalità più estroverse, la critica ha trascurato proprio colui che è stato l’animatore dell’iniziativa. E, non per nulla, prima e dopo “Officina”, la Libreria Antiquaria Palmaverde di Bologna è stata comunque un punto di riferimento culturale dell’intera vicenda intellettuale nazionale, e in particolare per le generazioni più giovani, sia pure nella forma “clandestina” che l’ha sempre caratterizzata. La mia opinione è che la critica non abbia neppure ben valutato la produzione letteraria di Roversi e penso soprattutto alla poesia, che lo rappresenta al meglio, nella sua più compiuta espressione letteraria, rispetto alla narrativa (“Caccia all’uomo”, “Registrazione d’eventi”, “I diecimila cavalli”) e al teatro. Rispetto a poeti suoi coetanei come Pasolini, Zanzotto, Giudici, l’opera di Roversi non ha avuto ancora la sua giusta collocazione critica ed è rimasta ai margini, in ombra, vinta da malintesi e presunte ipoteche moralistiche. La poesia di Roversi, partita da esperienze di realismo lirico, ha ingaggiato ben presto una lotta donchisciottesca con i vincoli dell’operazione letteraria che si nascondevano ancora più subdoli nella poetica neorealista, in nome non più di una generica ragione di vita ma di una pregiudiziale ideologica che da extratestuale divenisse midollo stesso del testo. Già nel lavoro sofferto di “Dopo Campoformio”, con le sue rielaborazioni ed edizioni, si può rintracciare la sintesi di un nuovo modo di fare poesia, nella convinzione per l’uomo di un “cambiamento diverso, senza ricorrere a una guerra di conquista territoriale ma ideologica”. Ma è un approdo che tuttavia non è ancora quello cui mira Roversi, perché restano nel testo i tempi morti di una tensione non sempre condotta alle estreme conseguenze tra la forma del diario marginale di denuncia e quella rifondata di un linguaggio poetico alternativo. È con “Le descrizioni in atto”, ciclostilato nel 1969 per scelta di clandestinità (e di coerenza con la sostanza stessa della sua poesia) che Roversi compie il superamento della “poesia sentimentale” nel segno della “poesia semantica contro”, che è la sua originale e decisiva conquista di poeta. Quella che genericamente è stata indicata come “poesia ideologica” è, se mai, “ideologia poetica”, ricchissima di affondi rivelatori. La fine di un mondo, quello borghese, e della sua “spietata ideologia” canta da sé, con la sua voce strozzata, senza bisogno di tirate moralistiche, di denunce (meno che mai quelle diventate slogan di quegli anni), di considerazioni dal di fuori. Così come il progetto di un mondo nuovo parla altrettanto da sé, con quella stessa voce strozzata.

SANGUINETI

Il Gruppo ’63, evidenziatosi al principio degli anni sessanta dentro l’area marxista, si è mosso nella direzione della rottura plateale con la norma linguistica e con le categorie letterarie, puntando sulla proposta di una “scrittura più impersonale e più estensiva” come scriveva Alfredo Giuliani nell’introduzione all’antologia dei Novissimi, “Poesie per gli anni ’60”. Eppure il Gruppo ’63, pur organizzandosi ed operando come movimento di avanguardia, almeno in parte ha coltivato a sua insaputa i modi e i vezzi di una tradizione evidentemente ineludibile, di una condizione storica ed esistenziale di quel postdecadentismo novecentesco segnato nel ripiegamento, nell’intimismo, nel narcisismo, nel cifrario personale e segreto. Solo che l’operazione letteraria è stata dirottata dal significato al significante, nell’illusione che ciò bastasse a rifondare nella sua verginità, attraverso la pratica poetica, un modo d’essere che ha ben più profondi e complicati collegamenti con la sua trascrizione in “dire”. I Novissimi hanno insomma tentato di riassorbire l’impulso “decadente”, inteso come diversità ed estraneità rispetto alla società e alla pratica letteraria, nella maggioranza dei casi riciclandone le componenti per fragmina intermixta, cioè spezzettando e mescolando. È il caso esemplare di Edoardo Sanguineti, il più raffinato e complesso tra gli esponenti del Gruppo ’63, e se ne può misurare la portata in una raccolta fondamentale come “Postkarten” (Feltrinelli), che presenta le poesie degli anni 1972-1977, riunite nella formula uniforme delle comunicazioni affastellate sulla facciata posteriore di altrettante cartoline postali. “Postkarten” vuole essere un modello di riferimento come trascrizione in poesia delle annotazioni rapide e disordinate, con tutto il carico di impressioni, riflessioni, considerazioni ideologiche, polemiche e indicazioni di poetica, tradotte in versi. Rispetto alla raccolta precedente “Wirrwarr”, c’è in “Postkarten” conferma e c’è sviluppo di circostanze e di modi nella poesia di Edoardo Sanguineti. C’è conferma  prima di tutto di una condizione privilegiata della poesia come rassegna dal movimento, ma “Wirrwarr” è ancora un taccuino di viaggio, anche se risolto autonomamente nella successione delle immagini, nella serie rapidissima delle pose singole, organizzate con sapienza orchestrale. C’è sviluppo nel senso della periodizzazione del movimento, della scelta di pause discriminanti che ritmano le singole “tappe” del viaggio. Come del resto Sanguineti continuerà a fare in “Segnalibro” (che contiene, oltre a “Postkarten”, “Stracciafoglio”, “Scartabello” e “Cataletto”). Per usare una metafora, il poeta non sta più fermo sul marciapiede a vedersi sfrecciare dinanzi un treno che gli appariva prima in successione di frammenti consecutivi, ma si muove lungo il corridoio del treno in corsa, passando da scompartimento a scompartimento. La costruzione dei singoli componimenti ripete schemi fissi, organizzati concentricamente o, per meglio dire, sulla linea continua di una spirale che genera un’altra spirale: dalla periferia al centro e dal centro alla periferia, dentro il modello “rettangolare” della cartolina postale che poi si adegua ad altre forme geometriche, a rombo o a trapezio, in quel repertorio o “raccolta di raccolte” che è “Il gatto lupesco”. L’organizzazione linguistica è sempre quella a collage, tipica della poesia di Edoardo Sanguineti, con tendenza agli inserti e alle “bolle” parentetiche, ma con un uso minore dell’impasto rispetto a prove del passato. E c’è un recupero del tratto linguistico più tradizionalmente inteso, corretto solo da una sobria ed espertissima individuazione prosastica della scrittura poetica.

SPAZIANI

Alcuni critici, tra i quali Marco Forti, vedono grande differenza tra i primi e gli ultimi libri di Maria Luisa Spaziani. A me pare invece che sussista una coerenza di fondo nella sua esperienza poetica. Certo, al principio (come accade a molti scrittori), c’era una patina iperletteraria che è stata via via riassorbita dalle qualità umane. Ma non si può arrivare a dire, come fa qualcuno, che la Spaziani all’inizio era raffinata e postermetica e, dalla raccolta “Transito con catene”, si è fatta prosastica. Nella sua sommarietà, appare una banalizzazione più che un approfondimento critico. La verità è che la Spaziani ha dimostrato una versatilità che, portandola a nuove acquisizioni, non le ha fatto rinunciare alle iniziali caratteristiche colte del suo stile. Curiosa e aperta alle sollecitazioni più diverse, non solo sul piano degli stimoli della vita e del mondo, ma su quello anche propriamente tecnico della poesia, ha toccato tutte le forme metriche, dentro e oltre il verso libero, dall’endecasillabo all’alessandrino, al settenario, al quinario, con uso di terzine, quartine, sestine ed ottave. Si tratta quindi di una “virtuosa” non di poco conto, ma sostanziata, questo è il punto, da un senso delle cose e della vita che non si esaurisce mai negli oggetti o nelle occasioni, meno che mai nella pura sonorità della sua metrica. Da sempre la Spaziani tende a dilatare nei suoi versi l’oggettività dei dati in visione, in sogno, in scoperta magari dolorosa ma luminosa dell’infinito “di più d’anima” che la poesia crea attorno alla crosta materiale delle cose, in una vera e propria proliferazione di implicazioni e suggestioni. Per questi ed altri aspetti, non si può non tenere nel giusto conto la formazione francese della Spaziani, e non solo da buona francesista conoscitrice profonda della tradizione culturale e letteraria d’oltralpe, traduttrice per consonanza di scrittori come Tournier e la Yourcenar. Non per niente infatti la sua poesia ha trovato grande riscontro in Francia, dove è piaciuto quel continuo variare dell’impeccabile eleganza classica che si accompagna al dire epigrammatico e spoglio. Situazione coerente di stile per la Spaziani, e si potrebbe dire ossessivamente e dunque nel segno dell’autenticità assoluta, riassunta nell’ossimoro del titolo di una sua raccolta famosa, “I fasti dell’ortica”, in cui appunto i fasti convivono con l’ortica, nella metaforica compresenza di “nobiltà solenne” e di “verità pungente”, per usare due espressioni dell’autrice. Con un chiaro obiettivo da parte del poeta: “Vorrei mordere il tempo come il pane. / … A portata di mano / mi passa un pesce-favola”. Quel reale corrente e perfino corrivo che rimbalza subito sullo specchio della metamorfosi visionaria.

ZANZOTTO

Ha detto bene Stefano Agosti nell’inquadrare la natura particolarissima della poesia di Andrea Zanzotto, che bisogna valutare in tutta la sua accentuazione il concetto di “esperienza verbale”. Nel senso che, nella vicenda del poeta di Pieve di Soligo, il linguaggio non solo si pone al centro dell’esperienza del mondo, ma diventa addirittura costitutivo del mondo nell’intera sua produzione: “Tutte le poesie” (Mondadori). Certo occorre subito precisare che, affrontando lo straniamento tipico della realtà esistenziale contemporanea, Zanzotto si consegna alla nevrosi del linguaggio e, a decidere della sua poesia, è la parola “nel vuoto”, la parola che “sfonda” e guida il componimento risalendo da profondità oscure, dall’inconscio di freudiana memoria. In questo senso, della ricchezza esorbitante di un mondo interiore impossibilitato alla chiarezza e alla normalità, si può dire che la poesia di Andrea Zanzotto non abbia riscontri paragonabili, almeno in Italia, solitaria e inaccessibile, quasi una sorta di Nautilus in viaggio negli abissi della psiche. La vicenda poetica di Zanzotto, movendo da quella condizione pura esistenziale della stagione post ermetica (“Dietro il paesaggio” è del 1951), è andata poi configurandosi nel tempo come volontà e bisogno di superare una situazione letteraria di stasi.  La sua poesia, facendosi veicolo sempre più consapevole e “scientifico” di conoscenza, ha adottato lo spazio del retroscena. L’intelligenza, scegliendo il linguaggio come strumento operativo, ha lasciato scivolare in secondo piano l’aspetto della comunicazione e ha concentrato la sua forza nella rivelazione attraverso la “pronuncia” della parola. Una parola che aggancia e trascina dal retroscena brandelli, filamenti, frange, di una realtà insieme mentale e fisica, sommersa, galleggiante appena oltre la crosta del nostro corpo, dei nostri visceri. È la posizione di Zanzotto, a partire dalla raccolta “La Beltà”, del 1968. E, secondo Agosti, è il punto più profondo toccato da Zanzotto nel suo percorso poetico. Un punto conclusivo, perché il poeta vi ha raggiunto “verità” divenute un’acquisizione solida e ferma per le successive operazioni. Il poeta Zanzotto di lì in poi si fa interprete di un’analisi biochimica sul linguaggio, condotta con l’intenzione di sondare il campo umano del reale ben oltre le apparenze, manifeste o no, secondo misure che però, nonostante tutto, restano esistenziali e partecipative. Non si potrà, nella poesia di Andrea Zanzotto, mai sottovalutare la portata dell’intelligenza, sia pure nella considerazione che molto in ogni caso sfugge alla consapevolezza Ma la cultura stratificata e la navigata conoscenza degli strumenti sono elementi fondamentali, nella vicenda. In generale per tutti i poeti, che sono razza sempre ipercolta, e a maggior ragione nel caso particolare. Basta andare a guardare il repertorio critico che Zanzotto è venuto, via via, materializzando nel suo cammino. Il “monumento” della sua scrittura critica ha evidenza nei volumi dei saggi come “Fantasie di avvicinamento” (1991) o “Aure e disincanti del Novecento letterario” (1994). La poesia di Andrea Zanzotto sembra, ogni volta, ripartire da zero, improntata ad una inesausta tensione emotiva e mentale. E la ragione è che affonda le proprie radici in un retroterra culturale stratificatissimo, entro il quale convivono in singolare e feconda simbiosi gli eventi laceranti della storia e quelli, non meno drammatici, del personale percorso conoscitivo. Operando da una posizione eccentrica ed isolata, che è sempre per la poesia occasione fondamentale di autenticità, Zanzotto è approdato fin da subito ai risultati significativi e originali delle sue prove.

VOCI DELLA POESIA ITANA DEL NOVECENTO 1

Betocchi, Caproni, Cattafi, De Libero, Erba, Giuliani, Guidacci, Rebora, Sereni, Sinisgalli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Torna in alto