‘IL GERANIO SOPRA LA CANTINA’ DI EVARISTO SEGHETTA
Si intitola Il geranio sopra la cantina l’ultima raccolta poetica di Evaristo Seghetta, poeta che conosco fin dal suo esordio letterario, avendo sorretto e accompagnato la sua prima silloge “I semi del poeta” (2012), di cui scrissi quasi di getto la Prefazione. Da allora l’autore ha pubblicato altre raccolte proseguendo quell’attento “osservare” se stesso e la realtà da un’angolatura defilata, quasi sottraendosi o, per usare il titolo di una sua raccolta, “in tono minore” ma sempre con quella attenzione e sensibilità propria dei poeti. Il titolo scelto per questa raccolta è ossimorico: il deciso cromatismo floreale a contrasto con il buio, l’oscurità della “cantina”, sulla quale, comunque, sta “sopra”. Titolo che appare in connessione con la tematica di fondo della raccolta, ovvero il disagio esistenziale sopravanzato da un recupero di valori vitali. Questo appare ancora più chiaro dalla lettura attenta dei testi, divisi in sei sezioni, nelle quali emergono e ricorrono parole chiave e temi espressi in forma essenziale e incisiva. Chi scrive proviene dalla scuola di Giorgio Luti, grande docente universitario fiorentino, che alla visione storicista univa il metodo della estrema fedeltà al testo, perché, come ci insegnava, quando un testo vale parla da sé, basta saperlo leggere o, meglio, latinamente, ‘interlegere’, scavare ed estrarre dalle righe ciò che l’autore – a volte quasi ignaro a se stesso – sente e vuole tramettere al lettore. E se due sono gli aspetti di ogni testo – contenuto e forma o, più dottamente, significato e significante, inscindibili e fusi insieme con arte, in primo luogo emergono i contenuti ossia il vissuto del poeta, i suoi pensieri e sentimenti. Quali quelli di Evaristo Seghetta? In primo luogo il rimpianto per un amore perduto ma non cessato di vagheggiare e risognare, un paradiso perduto, un Eden che trafigge ancora il cuore:” Adesso che il sogno resta sulle / spiagge dell’Eden, i suoi passi sopra il cuore”. (p. 17); “non ho fatto che immaginare te / unita a me. Un pensiero persistente, / inamovibile, sempre costante. / Noi avvinti nell’armonica / unità// che non lascia spazio a dubbi riguardo il divenire. Noi senza avvenire/ (p.19). Versi in cui “all’armonica unità” perduta ma sempre in “divenire” si oppone inesorabilmente un oggi “senza avvenire”. E ancora è evidente il rimpianto per un amore non del tutto vissuto in altre poesie a p.21 e 35. E a pagina 31 si legge: “Privo di accento scavo nella sabbia / un oceano in miniatura, accoglie / tutto di te, dalla tua natura alla / tua assenza”. Questa “assenza” lancinante, questa distanza incolmabile si unisce e si potenzia nell’animo di Evaristo Seghetta con la consapevolezza di essere giunto all’autunno della vita: “sono troppo vecchio per cambiare pozzo o per cambiare luna” (p. 33) e “Scava rughe profonde la vecchiaia//…Scava su me e sulla corteccia degli ulivi “(p.51). Non a caso uno dei mesi che ricorrono di più è novembre: “un novembre con troppe foglie morte (p. 41), “il presente ha assunto la consistenza / variopinta delle foglie cadenti / e alla luce debole di novembre / cessa quel che resta del nostro canto. “(p. 35). A p. 53 il poeta quasi inveisce contro il tempo infausto: “Quanto è pesante questa stagione / con le sue guerre, il suo frigore /…e questo peso in fondo al cuore/ che non va più via …//Perché non mi abbandoni tempo infausto? /Già sono esausto e di cattivo umore”. Alla parola ‘tempo’ si unisce un’altra parola chiave: ‘illusioni’ o, meglio, la loro ‘fine’ (p.33. Di fronte a questo stato d’animo si affaccia prepotente l’abisso del vuoto interiore, della perdita di senso della vita, “la crepa del vuoto”, “il cadere del sogno” (p. 32) e “un vuoto di memoria/ dentro al buio del non senso” (p.33). Più grave ancora è il rischio della ‘disgregazione’ (“così proseguiamo in questa lenta / disgregazione di ciò che è stato / sempre fragile (p. 29), della “frammentazione dell’essere” (p. 64) di fronte a domande esistenziali senza risposta. Si finisce, se si cerca di capire, per “essere cancellati, depennati/ espunti, cassati, soppressi, tolti / abrasi, elisi, estinti” in un climax esasperatamente negativo (p. 66) o addirittura si rischia di cadere nella pietrificazione, di ungarettiana memoria. A questo proposito è chiarificatrice la poesia a p. 37: “Si diventa informi come sassi / sassi svuotati, sassi galleggianti / sassi senza peso sopra il Mar Morto / sprofondato nel mezzo del deserto / senza un approdo, senza nessun porto”. La parola ‘sassi’ ripetuta quattro volte in tre versi e l’anafora di ‘senza’, insieme al sapiente uso della rima, scandiscono la sensazione di perdita di un obiettivo interiore, di forma vitale. E’ questa forse la poesia più pessimista del libro. Per concludere questa prospettiva occorre rilevare che tra le righe si affaccia anche – senza peraltro essere mai nominata direttamente – la ‘finis vitae’ ossia la morte, chiamata, nella poesia cha apre la sezione Sortite eroiche, la “nera Signora” (p. 75) mentre a p. 77 si allude ad essa con il termine ‘viaggio obbligato’, che sarà – scrive il poeta con lucida ironia – ‘brevissimo ed eterno’. In questa condizione Seghetta Andreoli accomuna non solo sé ma tutti, come dimostra il frequente ricorso alla prima persona plurale, quel ‘noi’ che ritroviamo in altre pagine della raccolta (‘con fatica trasciniamo la vita’, p. 71) e anche alla forma impersonale del verbo (“Ci si ritrova dunque in quello stato / di aver capito poco della vita / quando non ci rimane che inseguirla”, p. 70 ) Il poeta sente l’incombere della morte su tutti noi, vive con amarezza il ‘tramonto’ (altra parola chiave sia in senso paesaggistico che figurato), annota le sue debolezze fisiche, come la vista (“Dicono che sia lacerato / il vitreo oculare. Dicono che / non ci sia proprio niente da fare”, p. 60) e l’insorgere delle rughe (“Scava rughe profonde la vecchiaia / cime di monti e di mondi lontani / canyon salati, fiumi prosciugati… // sotto la pelle e dietro le pupille / circola ancora tiepida la linfa, / sale dalle radici sa di vita” p. 51). Ma, come dimostra la chiusa del testo precedente, ecco la svolta inattesa: di fronte a tutto questo l’autore non si arrende: come giustamente scrive Francesco Ricci nella Prefazione, “la poesia di Evaristo Seghetta non è una poesia della fine ma prima della fine”. Di fronte all’avanzare degli anni, allo straniamento per i cambi epocali sempre più rapidi vissuti dalla generazione degli anni ’50, all’incombere di un vuoto etico-sociale, il poeta erge una sua difesa, forse illusoria e debole, ma aggrappata a quell’ancora di salvezza che è e rimane per lui la Natura, “spietata e perfetta”, la bellezza di un’opera d’arte (“un dipinto di un profilo olandese”, p.18), il pensiero di un filosofo (“tale Baruch Spinoza, p. 66), i ricordi dell’adolescenza (“la bambina che vendeva pansé”, “le biglie di vetro”, la voce della radio ascoltata con la madre (p. 81), gli affetti familiari, ma, sopra ogni altra cosa – e qui ci trova del tutto concordi – la poesia, “il fragile stelo della poesia“ (p. 27), il dialogo interiore dell’anima con la sua coscienza e che si trasforma in versi. È questo che salva, questo che conforta e tiene aperto il varco della mente, del cuore e della creatività poetica, offrendo uno “specchio nuovo, il ritorno alla purezza” (p.14), perché solo nella capacità di guardare oltre, di cogliere l’essenziale e tramutarlo in versi ritmati il poeta riesce ad “andare oltre il confine breve dell’esistenza”, a vincere tutti i disinganni e “la strettoia della limitatezza” (p.27). È questo infine che fa delineare, pur nell’alternarsi dei momenti interiori, una forma di “stato di grazia”, un fragile equilibrio tra rassegnazione e disperata speranza, carichi di una fede irriducibile nella “vera bellezza”. ‘Stato di grazia’ era in un primo momento proprio il titolo pensato per questa raccolta, che tuttavia è permeata dalla ricerca di un superamento del pessimismo di fondo. Tra le varie sezioni in cui si compone la silloge emerge per originalità quella dal titolo “Selvatici e puri”: qui Evaristo proietta la sua visione della realtà sugli animali (il gatto sornione, la tartaruga, il “ramarro goffo”, il “rospo filosofo”, l’uccellino preda delle grinfie del felino) in un breve ma efficace bestiario di vaga tozziana memoria, in cui le bestie sono, nello scenario vitale, una volta vittime e un’altra volta carnefici, secondo l’inevitabile legge di natura. Il libro si chiude la sezione Web, riflessione sulla nuova comunicazione virtuale e intermittente dei social (“questo nostro nuovo / modo di legare in frammenti di / dialoghi, di opinioni residuali / e di commenti di diversi accenti / purtroppo dal cuore molto distanti “p. 105). Un navigare spaesante davanti ad uno schermo che confonde e appanna i nostri sensi, abituati alla carezza reale e trascinati invece nell’illusione collettiva che nella “scatola piatta” ci sia una vera vita. Ecco i versi finali del libro “Si preme sul pulsante d’accensione / e il sole non tramonta più”. Un’amara resa finale all’invadenza informatica o un altro ironico sgambetto? Infine un imprescindibile cenno sulla cifra stilistica personalissima che Seghetta ha raggiunto, scarnificando i versi, limitando al massimo la punteggiatura, adottando una sintassi minima, ma sempre sorretta metricamente e ritmicamente dall’accentuarsi, rispetto ai libri precedenti, del ricorso alle rime, sia interne che in fine verso (ne ho sottolineate moltissime e varie sono già emerse), alle anafore e altre figure retoriche originalmente plasmate. L’uso insistito dell’enjambement lo allontana dal rischio – così frequente in tanta poesia odierna e a volte affiorante nelle sue raccolte precedenti – dello scadere in prosa. Chiudo con la poesia a p. 40. Quattro versi, rime ABBA. Che ben sintetizza il percorso tematico e il lucido tono espressivo della silloge: “Spira un’aria da resa dei conti / Di epilogo immaginato e temuto / Cade nel vuoto il grido d’aiuto / Sorpresi ora di non essere pronti.”