VOCI DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO saggio di Paolo Ruffilli

VOCI DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO 1 saggio di Paolo Ruffilli

Betocchi, Caproni, Cattafi, De Libero, Erba, Giuliani, Guidacci, Rebora, Sereni, Sinisgalli,

CARLO BETOCCHI

Carlo Betocchi è sicuramente uno dei poeti significativi del nostro Novecento. Per poeti come Caproni, Pasolini, Zanzotto, rappresenta un punto di riferimento ben più che orientativo, dopo la strada aperta con coraggio da Ungaretti e nella direzione di una riappropriazione della poesia come fatto autenticamente creativo, nel secondo dopoguerra. E, da questo punto di vista, le testimonianze critiche sull’opera di Betocchi di Caproni, Pasolini e Zanzotto sono illuminanti, anche nella chiave di esperienza esistenziale oltre che sul piano del documento letterario. Il grande corpo della poesia di Betocchi ha radici profonde. La sua esperienza parte da lontano, al principio del secolo. Quando cominciò a scrivere i crepuscolari Gozzano e Corazzino erano già affermati e si affacciavano i più giovani  Palazzeschi e Moretti. Ma, se il crepuscolarismo è stato il punto di partenza per Betocchi, bisogna dire che ha finito col contare poco o niente, nel prosieguo della sua vicenda poetica. Come, del resto, l’ermetismo poco o niente ha contato, nonostante la sua lunga permanenza a Firenze. È stato detto che la poesia di Betocchi, “semplice, naturale, libera”, attraverso le diverse esperienze che hanno caratterizzato la letteratura italiana ed europea, è passata indenne. Non si è rifatta davvero a nessuna scuola e non ha trovato congeniale nessun autore, mantenendosi fedele a se stessa e, contemporaneamente, precisandosi e facendosi sempre più essenziale, fino alla produzione degli anni Sessanta-Ottanta. Si pensi alle ultime tre raccolte, Un passo un altro passo (1967), Prime e ultimissime (1974), Poesie del sabato (1980): libri che non costituiscono involuzione, ma decisamente acquisto, sia sul piano strettamente espressivo che in quello più ampiamente poetico. A identificare la poesia di Betocchi, è un impressionismo lieve e misurato, toccato per la tangente dalla vena mobilissima della riflessione e dunque irrobustito dalla sottolineatura del pensiero. Un impressionismo di paesaggi e di stagioni, di oggetti e di figure, ma anche sempre di idee, che può far pensare in pittura a Moranti, De Pisis, Carrà (“Fraterno tetto, cruda città, clamore / e strazio quotidiano. O schiaffeggiante / vita, vita e tormento alla mia anziana / età”).A segnare la vicenda di Betocchi è, negli anni settanta, la malattia grave e lunga della moglie Emilia e si può dire che divenga, come ferita aperta nella carne dell’autore, il marchio stesso della sua poesia. Nel segno, dunque, del dramma e del dolore apparentemente senza conforto. Eppure, le virtù terapeutiche della poesia trovano l’insperata soluzione della leggerezza. Quella leggerezza che Betocchi aveva teorizzato nel 1960, in alcune pagine memorabili dedicate alle grandi risorse e potenzialità della rima. In rima continua il poeta a raccontare la sua storia di vecchiaia, ai limiti estremi della vita terrena: “Così come ormai sono / quasi niente divento, / se non qualche dolore / qualche delirio spento… di quisquilia in quisquilia / sono un uomo che muore”. E alla musica affida il suo messaggio, con tenero distacco: “Più rapido, più breve. Cuore di pietra, / ventre di squalo, la vita”.

GIORGIO CAPRONI

Già nella raccolta Il franco cacciatore (1982), la poesia di Giorgio Caproni ha definito un proprio riferimento privilegiato al teatro operistico. E, in quel libro, c’è addirittura dichiarato nel titolo stesso l’antecedente, o comunque vi è evidenziata la correlazione, rispetto al capolavoro omonimo del musicista tedesco Carl Maria von Weber dato a Berlino nel 1821. Ma con altrettanta evidenza, nel successivo Il Conte di Kevenhüller (1986) e poi in Allegretto con brio (1988), la partitura operistica attesta la sua portata, sia pure nel segno del Die Kunst der Fuge di Bach, nella dimensione del pensiero più che in quella del suono. Del resto il riferimento lontano è, in Caproni, di ascendenza illuministica. Da sempre nella sua esperienza di lettore e di scrittore, e già dal tempo di Cronistoria (1943) e Il seme del piangere (1959), sia pure lì in modo più defilato e senza esplicite citazioni, ancora in parte contenuto dentro un vincolo elegiaco che gli impedisce l’ironia che si va preparando per il futuro. Per Caproni, conta molto un certo settecento: il secolo di Diderot e degli Enciclopedisti, di Montesquieu e di Kant, il secolo dell’illuminismo razionalista. Oltre, naturalmente, al Settecento dell’opera buffa, di Mozart e dei libretti di Da Ponte (non dimenticando che Caproni ha una competenza e una pratica musicali da dilettante di gran classe). Da qui occorre partire per una ricomposizione critica di quella “operetta a brani, finita ed infinita”, come chiama lo stesso Caproni la sua poesia da un certo momento in poi.  E proprio in relazione alla costruzione segmentata che la contraddistingue: “tassello dopo tassello”. In quella stessa condizione e atmosfera settecentesca. Di più, in quella stessa successione “frivola” e leggerissima: prima il “libretto”, poi la “musica”, poi gli ammirevoli accidenti e imprevisti della messa in scena (ammesso che si possa davvero distinguerli e scandirli in una simile separazione e successione, che è più dell’analisi teorica che della pratica dell’esperienza). La secca nitidezza di Caproni, senza dubbio, rimanda agli straordinari libretti di Da Ponte. Nell’ottica, si intende, di quella maggiore carica di pensiero, di quella energia intellettuale, cui si faceva cenno più sopra parlando di illuminismo. E soprattutto si impone, in tale riferimento, la scelta totalmente dominata, da parte di Caproni, dell’incisività quasi insolente della battuta. Insomma, la capacità della sua poesia di farsi scena, e non più soltanto immagine. Che è l’effetto che, più di ogni altra cosa, fa parlare di un riferimento di questa poesia al teatro operistico. La versificazione dei libretti, si sa, ama la cadenza breve (e non solo per le esigenze di chi deve cantarli e per le necessità dell’ugola che, per quanto lunga, conta sulla misura contenuta). E ama il ritmo dispari (quinari, settenari, novenari), quasi a fondamentale compensazione delle simmetrie armoniche. C’è una tradizione esemplare ad attestarlo e, per quello che più a noi sta a cuore in relazione a Caproni, ci sono appunto i libretti dapontiani a lui così cari. Per Caproni, per il Caproni in particolare del Franco cacciatore, del Conte di Kevenhüller e di Allegretto con brio, vale infatti una versificazione breve, fatta di strofette composte prevalentemente da novenari. Con un effetto sincopato, ottenuto per frazionamento dei versetti, con l’uso dell’enjambement e il ricorso frequente a virgole e trattini. Tutto è messo in opera da Caproni, ecco quello che è importante sottolineare, per ottenere quell’arabesco traforato tipico del libretto, specie poi di quello settecentesco. Fatto di pieni e di vuoti in egual misura e tale che, appunto, il vuoto non è affatto meno decisivo a definire la situazione, i suoi contorni, l’atmosfera. Ancora e sempre, fondamentale è lo strumento. La lingua di Caproni: splendente per il nitore formale, l’immediatezza definitoria, la precisione realistica. Ma talmente sottile, appunto, che per la legge dell’inversamente proporzionale è in grado di innescare il processo della divagazione, della proliferazione delle immagini, dell’incantamento, nel lettore. Facendo, insieme, da scatola sonora e da sostanza di rappresentazione. Proprio come in certi teatrini settecenteschi, nei quali la recitazione aveva la caratteristica di prodursi e di contenersi. E proprio come nei testi dei libretti dapontiani, dove la parola è in ragione di se stessa e, contemporaneamente, in ragione della sua stessa natura musicale.

BARTOLO CATTAFI

Pur con vaghe ascendenze ermetiche, di modi e di toni, Bartolo Cattafi è, nel panorama della poesia italiana del Novecento, un isolato e un eccentrico. L’unico suo vero antecedente, per consonanza di sentire del resto, è Montale. Il Montale della negatività di matrice leopardiana, ancorata ad una polpa di natura esistenziale. Nella poesia di Cattafi esistono almeno tre situazioni aggreganti: 1) l’elemento di paesaggio, 2) il catalogo dei tre regni della natura, 3) e gli oggetti fantastici. Situazioni che non sono  necessariamente indipendenti e isolate, ma congiunte e intersecatisi, sviluppate generalmente in soluzioni definitorie. Il paesaggio tipico di tutta la produzione di Cattafi, pur nelle poche varianti di regioni nordiche e della Milano dove l’autore ha lavorato, è quello mediterraneo della terra bruciata dal sole, degli ulivi, delle case a calce, delle bianche nuvole di passaggio, del mare. Il paesaggio siciliano della sua Barcellona, in provincia di Messina. Un paesaggio descritto e interpretato, che si identifica con una situazione esistenziale insieme arida e ricchissima. Il catalogo dei tre regni, minerale, vegetale ed animale, con il fascino linguistico del codice specifico, offre la possibilità praticamente inesauribile di rappresentare gli “oggetti/interlocutori”. In varianti minime, tendendo di volta in volta alla vetrinetta delle conchiglie fossili o alla tavoletta degli spilli o al bestiario misterioso o alle immagini da gigantografia, nell’improbabile e perplessa definizione di sé e dell’altro da sé. Gli oggetti fantastici sono i “mostri” (nel senso del portento e dell’avvertimento divino del vocabolo latino), frutto dell’immaginazione o del sogno o della stessa lucidità visionaria, occasione per salti di prospettiva e di angolazione, nel viaggio spesse volte tentato, con sprezzo e slancio vitale, verso il buio e l’inconoscibile. Il paesaggio, i documenti dei tre regni naturali, gli oggetti fantastici, sono calati, in tutta l’esperienza poetica di Cattafi, in quella condizione fondamentale di “diffidenza esistenziale” che nasce dall’antinomia tra istinto alla vita e paura di rimanerne deluso. Gli accenti negativi scandiscono la lucidità riguardo all’insignificanza cui la vita appare votata e, insieme, certificano amore e ansia di tutto. La poesia di Cattafi è un diario di immagini, un album di istantanee, di fotogrammi ritoccati, in cui il procedimento è quello dell’accumulo nominale, in didascalie che hanno, oltre il loro risvolto descrittivo, i caratteri delle illuminazioni oniriche.

LIBERO DE LIBERO

Autore di tre libri di racconti, di due romanzi, di scritti d’arte, di prose bizzarre ed eleganti, Libero De Libero è stato oggetto della maggior valutazione da parte della critica come poeta, fin dalle prime prove (Alberto Savinio lo definisce: “Un Rimbaud nostro e che il demone ha lasciato in pace. Ma uguale a lui per la dolcezza di nostalgie, per alte meditazioni, per lunghezza di sguardo”, nel 1936). Valutando nell’insieme le raccolte Testa (1938), Eclisse (1940), Il libro del forestiero (1945), Banchetto (1949), Ascolta la Ciociaria (1953), Di brace in brace (1971, Premio Viareggio), Scempio e lusinga (1973), Circostanze (1976), si può dire che la sua poesia, pur essendosi ancorata in minima parte all’ermetismo e pur essendosi sostanziata di un certo linguaggio dell’ermetismo, parte da più lontano. Non tanto nel senso che viveva degli umori che caratterizzavano l’atmosfera culturale in cui la stessa poetica così detta ermetica si formò, quanto piuttosto nel senso che si fondava e si fonda su un nucleo per così dire astorico, originale, rimasto come sua peculiarità. È vero infatti che il modo d’essere che fu della poesia ermetica si sposa, in De Libero, con un retroscena di “naturalità” primigenia, legata alla terra d’origine, Fondi, e alla sua  potente conformazione geologica, alle montagne di roccia scabra che la circondano, anche se la pietra “megalitica” diventa in De Libero la Venere di Milo o l’Apollo di Prassitele. Rispetto a questo nucleo originale, che resta poi l’unica e vera dimensione in cui il poeta si è identificato, tutto l’armamentario ermetico, per una volontaria raffinata presa di distanze, serviva da supporto, da lente di rimpicciolimento (e non di ingrandimento), da filtro di decantazione. Il fatto è che questa poesia nasce da un nucleo primigenio sostanzialmente incontaminato: quell’amore per la cantabilità della lingua, che impone toni, livelli, timbri della più limpida vocazione. Una vocazione che non esclude affatto il ricalco letterario sia della tradizione popolare che di quella colta. C’è, dei poeti cantastorie della sua terra, il contrasto di luci e di ombre fonde, di gentilezza e di realismo forte; e, dei modelli più alti, il frutto di una cultura che consente il criterio mediato, adottato per ottenere certi esiti di messa in evidenza. In area di piena contemporaneità, comunque, e nel segno di una autonomia originale. In De Libero, un’ironia sottile, quasi rarefatta, sorregge alcuni componimenti, dove poesia è dichiarazione in semi negativo di una limpidezza del reale dall’uomo quasi sempre elusa; oppure un afflato, che non avrei paura a definire “mistico”, anima quelli in cui il senso della vita (nell’accezione di quella “naturalità” di cui si diceva) è in grado di tradursi in evidenza di illuminazione da più sottili schermi. La vita è nella vita, ci dice il poeta, come capacità di dichiararsi da parte degli esseri che respirano con una forza che è una forza formidabile, capace di sopravanzare tutto. Perfino l’abisso di vuoto sul quale la vita riposa. Una vita che è in grado di abbarbicarsi proprio sull’orlo dell’abisso e lì attecchire, mettere radici e produrre lo slancio in avanti. Stilisticamente, il linguaggio è rapportato alla misura alta: sceglie le strutture sintattiche più fini, si compone del lessico più centellinato, si accorda sui ritmi più melodici, in chiave fortemente lirica. E sono, poi, tutti indizi del fascino della poesia pura che non ha mai abbandonato De Libero. L’idea di poesia pura che De Libero aveva era conseguenza coerente di una poetica della parola quale potevano aver testimoniato un Mallarmé o un Valéry, in una condizione ancora simbolista. Una poesia che continua a tracciare i segni di quel tanto di più profondo e misterioso che si cela al di sotto del mondo fenomenico (offrendo, ancora in semi negativo, solo l’apparenza del maggiormente conoscibile). Surreale lo definiva Gianfranco Contini. A differenza di altri suoi compagni di strada, De Libero non cede comunque a quel ridimensionamento, a quell’abbassamento di tono, a quell’inversione di tendenza rispetto all’ermetismo, messi in moto dai disastri della guerra e spinti verso il neorealismo o a più o meno aperte dichiarazioni di impegno. L’impegno, per De Libero, è coerentemente l’autenticità della propria vocazione e del retroterra culturale da cui proviene, compresa la tradizione popolare di cui si diceva, da lui definita in più di un’occasione limpida, rastremata, raffinata. Nei margini tematici e stilistici che ho indicato si colloca anche l’ultima raccolta Circostanze, che comprende nelle tre sezioni “Chi va là?”, “Passaporto” e “Girotondo”, i versi scritti negli anni 1971-1975. E questo vale anche per le poesie successive uscite in rivista o pubblicate postume nell’antologia comparsa negli Oscar. Tuttavia, a ben guardare, non è che la poesia di De Libero sia rimasta immobile sulle posizioni già acquisite. Si sono operati degli spostamenti che, sia pur minimi, hanno determinato soluzioni in parte diverse. Innanzi tutto, c’è il parziale svelamento, dal cifrario ambiguo che la caratterizzava, di una zona tanto importante della poesia di De Libero che è quella dell’amore efebico. Nel senso, intendo, che ciò che di vago e indefinito avvolgeva figure e situazioni si è precisato nei contorni, staccandosi da fondali e pareti. Ma non è l’unica novità, legata questa ai tempi che portavano a una maggiore tolleranza e dunque a un’apertura rispetto alla passione, anche se l’accensione del desiderio in De Libero è sempre placata nella contemplazione, cioè in una limpidezza classicheggiante. Quello che si muove, nelle prove ultime di De Libero, è il livello stilistico, in cui si può misurare, da una parte, una minore rarefazione lessicale (il grado alto è rimasto soprattutto all’aggettivazione) e, dall’altra, una semplificazione del circuito sintattico (con la tendenza generalizzata al periodo unico). E gli esiti sono sequenze documentarie, con la predilezione per il catalogo, l’accumulo, la successione immobilizzata privata dell’azione del verbo: effetti personalissimi, originali e molto coinvolgenti. In ogni caso, lo ripeto, bisogna sottolineare che ancora una volta De Libero non ha tradito la sua ispirazione, anche a rischio di un’ossessione stilistica che è pur sempre, d’altra parte, garanzia di un’esperienza originale e inimitabile. De Libero è consapevole fino in fondo, particolare non secondario, in quello che fa. La situazione poetica che ha continuato a far pullulare fino alla fine dai suoi versi è quella di una intempestività alla quale il poeta ha voluto legare la sua avventura di scrittore, indipendentemente da qualsiasi sviluppo o involuzione vedesse e riconoscesse intorno a sé. Niente scelte di comodo e di opportunità, nessuna forzatura per ottenere approvazione, nessuna adesione alle mode e ai maestri à la page. L’intempestività, ripeteva De Libero, è la garanzia dell’autenticità.

LUCIANO ERBA

Luciano Erba appartiene a quella “linea lombarda” che Anceschi nell’omonima antologia del 1952  identificava nell’esperienza letteraria legata al mondo della borghesia lombarda e della civiltà industriale, in cui sono calati i poeti del così detto “Lake District” Como-Varese-Luino. Si tratta di un humus culturale profondamente segnata da una vena realistica e pratica, variamente articolata e risolta in termini ironico-fantastici tali da tradurre, in poesia, la messa a fuoco oggettiva in allusione e in ragguaglio marginale e distratto. Dentro la “linea lombarda” di cui occupa il versante a destra (“conservatore illuminato” lo definisce Raboni, “petit bourgeois” si definisce da solo), Erba si individua, in una sostanziale continuazione della tradizione poetica della generazione precedente, come l’esponente letterariamente più raffinato e più vicino alla concezione montaliana dello scrittore “dilettante di gran classe”.  Del tutto estraneo a qualsiasi militanza e raramente incline alla scrittura, egli dà con il suo humour sottile e intermittente consistenza materiale al vuoto e all’assenza, traduce l’ineffabilità in stile oggettivo: nello scenario prevalentemente di una Milano che si rispecchia nelle immagini al confronto tra il presente e il passato, i suoi personaggi, la cui vita appare dileguarsi nel nulla, in dissolvenza dinanzi ai nostri occhi lasciano comunque traccia di sé in nomi (la Grande Jeanne, la Nene, Mercedes, la Lenormant…), oggetti (la trapunta, un binario, una pentola smaltata di blu, una bottiglia…), capi di vestiario (una cravatta, la mantellina, un nastro, la camicetta, un sari verde, il cappello, un guanto viola…). E sempre di più, nel prosieguo della sua esperienza, i piccoli dettagli affioranti dalle nebbie dell’esistenza costituiscono il reticolo sorprendente e salvifico che trattiene per qualche attimo almeno la presenza della vita individuale alla deriva nel gran mare dell’essere, in un riverbero metafisico inedito. Da Il male minore, del 1960, dopo un silenzio di più di quindici anni, alla raccolta Il prato più verde, del 1977, ai successivi libri Il nastro di Moebius (1980), L’Ippopotamo (1989), L’Ipotesi circense (1995), Nella terra di mezzo (2000), Un po’ di repubblica (2005), L’altra metà (2004) Remi in barca (2006), la poesia di Erba è una rassegna ironica dei dati autobiografici, del loro guazzabuglio: un quaderno distratto degli appunti, delle notazioni marginali, degli umori e dei malumori occasionali, dei frammenti di ricordo, degli stati rimossi e delle sensazioni. Il libro mastro che, meglio di un diario minuto delle opere e dei giorni, rende al lettore il senso di una vita “senza bussola” che ci trascina a mete oscure e non desiderate, fuori da ogni possibile piano di organizzazione e di sistemazione, nell’incertezza più assoluta (“rispunta il dubbio antico / se questa vita non sia evento del caso / e il nostro solo un povero monologo / di domande e risposte fatte in casa”). Nella poesia di Erba, che è sempre regolata su un ordine metrico rigoroso anche se dissimulato, l’andamento discorsivo, lasciato al suo continuum, si impenna a tratti in elevazioni di tono: il ritmo giambico si capovolge ai cardini del discorso, coincidendo con la condizione di deriva della memoria e mutando in dattilico nei richiami improvvisamente riflessivi e fulminanti. I tratti linguistici sono lasciati ad una libera giustapposizione, in cui potrebbero essere rimescolati in una serie di posizioni come le tessere di un mosaico, sottratti anche in generale, e soprattutto nelle poesie più recenti, alla funzione organizzativa dei segni di interpunzione.

ALFREDO GIULIANI

Nella vicenda letteraria italiana, sono i Novissimi che si sforzano di decentrare l’io poetico (l’io tronfio e delirante di vecchia memoria), at­traverso l’esercizio di un’intelligenza non mistificatoria. Un’intelligenza lucida, che non rinuncia affatto a perseguire la letteratura, ma pretende di farlo in un modo intellettualmente accettabile; riportando sulla scena della letteratura un’esigenza etica che si era usurata e consumata nel do­poguerra e parlando addirittura di necessità del fare poesia, nella volontà di rifondare una civiltà letteraria come quella italiana, impastata di ma­lintesi e di cattiva coscienza. Che poi questo ambizioso progetto sia riu­scito a tutti, è un altro conto; ma, certo, si è trattato di un progetto di grande rilievo e di notevolissimo livello. E l’anima intelligente ne è stata, senza dubbio, Alfredo Giuliani. Proprio perché, in lui, intelligenza e talento si bilanciano in quella composizione di forze che, come diceva Barthes, è in grado di dare forma letteraria all’idea. E’ un fatto che non si può non sottolineare, parlando della “scrittura” di Giuliani: una scrit­tura sempre letteraria, anche quando ha le forme di un saggio o di una recensione. Campo di una letteratura che nasce dalla letteratura stessa, viaggio attraverso i percorsi della parola. I saggi di Giuliani, Le droghe dì Marsiglia e Autunno del Novecento, sono specchio delle poetiche e poetica essi stessi. All’insegna di quel vincolo di necessità della lettera­tura di cui si diceva. C’è, nella scrittura di Giuliani, sempre “un dialogo ritmico tra le parole”; parole che pensano se stesse e che si attraggono e si respingono. E questa straordinaria virtù, naturalmente, appare come evidenziata nella sua poesia. Per la potenzialità stessa della poesia; perché, come riconosce nella sua consapevolezza critica lo stesso Giuliani, “la poesia sa di poter concentrare in sé, virtualmente, una significanza profonda e anche una possibilità di gioco con i colori e con il corpo delle parole”. La ricerca verbale, nello spazio particolare della poesia, si svolge tanto in senso verticale, nella frammentizzazione analitica della parola, quanto in senso orizzontale, nell’estensione del tratto linguistico. Due sensi di marcia secondo i quali Giuliani ha proceduto, in questi anni, contemporaneamente. Tra le ultimissime raccolte Poetrix Bazar è la prova massima e ricapitolativa, in un certo senso la summa dell’opera poetica di Giuliani, e non inganni il limitato numero delle poesie lì raccolte, perché si tratta in realtà della miniaturizzazione di un vasto e lungo lavoro condotto dall’autore sul verso. Anche nei testi più recenti, Giuliani appare uniformarsi a quel fortissimo senso della forma o dell’efficacia formale della poesia che è uno degli assi portanti della sua formazione estetica o, se si preferisce, della sua poetica. Giuliani, tra i più tenaci e rigorosi sperimentatori di circuiti inediti del discorso poetico è tra i più profondi indagatori della scrittura poetica e testimonia nei versi di Poetrix Bazaar un ulteriore passo in avanti, nella definizione puntuale della “sostanza impossibile” attraverso la quale il poeta si determina come soggetto parlante/scrivente. Il godimento della lingua che struttura la lingua stessa, nello specifico del “maneggiamento poetico” delle parole, è uno dei riferimenti dell’esperienza di Giuliani e, forse, la cifra stessa della sua scrittura poetica. Tanto nella direttrice de­lineata in verticale, secondo l’altalenante successione di consapevolez­za-inconsapevolezza, attività-passività, del soggetto parlante/parlato; tanto nella direttrice delineata in orizzontale, sulla scia dilagante della scrit­tura agente/agita. “Una poesia è vitale”, ha scritto Giuliani, “quando ci spinge oltre i propri inevitabili limiti, quando cioè le cose che hanno ispirato le sue parole ci inducono il senso di altre cose e di altre parole, provocando il nostro intervento; si deve poter profittare di una poesia come di un in­contro un po’ fuori dell’ordinario”. Ecco, la stratificazione della poesia; ecco, i fondali profondi della poesia; ecco, la successione dei piani, la linea a spirale. Raramente, c’è una piena corrispondenza tra gli assunti teorici e le prove effettuali come accade per Giuliani. I risultati sulla pagina, diva­ricati nell’architettura dello spartito musicale, sono sicuramente tra i più significativi della poesia di questi anni. Costituiscono un punto di rife­rimento per i più giovani, una somma di esperienze decisive da cui i più giovani hanno imparato molto. Nei suoi libri di poesia, a dispiegarsi sulle pagine sono partiture musicali (e non solo, per esempio, quelle della prima sezione della raccolta Poetrix Bazaar), secondo una variazione costante che dal tono angosciato slitta a quello divertente-divertito, alternando quadri compositi fino al polittico e singole tavole minime fino alla tabella, e mescolando dramma e farsa, tragico e comico, da “Pensando a Emily” allo scherzo delle sorelle agonine, per arrivare allo sciabordante scioglilingua finale “Caro mercato di paese antico”. Ma, si sa, per Giuliani l’anarchia del nonsenso è stimolo creativo, e ha continuato ad esserlo. “L’insensatezza”, ha scritto, “è un mero contenuto del nostro mondo: qualcuno se ne servirà per manife­stare la propria insensibilità o un comodo cinismo; per altri sarà l’unica possibile e sofferta soluzione stilistica. Il non-senso è divenuto un mate­riale iconico, come le madonne e gli angeli delle antiche Annunciazioni”. In particolare, testi come le stesse Partiture, oltre a testimoniare l’inarrestabile slittamento del lin­guaggio al grado dell’insensatezza, sono le forme che pure dichiarano quella sorta di rifondazione della poesia di cui Giuliani si fa portavoce. Prima di tutto come “mimesi critica della schizofrenia universale, rispecchiamento e contestazione di uno stato sociale e immaginativo di­sgregato”. Ma anche, e direi soprattutto, come reinvenzione di un’identi­tà formale della poesia. Nella specie di una ricomposta “scatola sonora”, capace di nuovo di legare in un’orchestrazione le sue armonie e disarmo­nie; in una musica dodecafonica, frutto di una sapiente regia metrica e tonale. E non si può certo trascurare il patrimonio specificamente me­trico della poesia di Giuliani: nella ripresa di forme tradizionali (come la canzonetta o il madrigale) dentro la struttura polifonica di un nuovo libretto d’opera che ha messo a frutto l’energia ritmica della tradizione e l’armonia ar­dita delle avanguardie. Volendo poi parlare dei pezzi forti dell’ultima produzione, sono a rispecchiamento quasi di contrasto Il badante di Eraclito (nel segno della complessità architettonica) e Poesie per il mio cane (nel segno della semplicità più lineare), si può dire che testimoniano oltre alla grande umanità di Giuliani la sua formidabile attrazione per la musica. Il suo orecchio di musicista fa preferire all’autore una musica di suoni nuovi, di ritmi che individuano anche le dissonanze, la possibilità di piegare gli strumenti a suoni imprevisti e a forzare la gamma. Uno dei problemi della musica contemporanea è stato l’esaurimento delle combinazioni. Si potrebbe dire la stessa cosa della poesia.

MARGHERITA GUIDACCI

Il canto dell’inquieto vivere trova non comuni accenti di sofferenza e di passione in tutta l’opera di Margherita Guidacci e, in particolare, in libri come Paglia e polvere o Neurosuite o L’altare di Isenheim. La dimensione dell’ignoto si configura, nell’immagine, come passo che si avvicina dietro le spalle, e ha la cornice di un cielo deserto e di una terra che ha ripudiato la misura del tempo (nell’evidenza esemplare della successione di testi di “Terra senza orologi”). La verifica di una decomposizione dell’uomo, oltre a trarre gli indizi dai dati della cronaca quotidiana, si evidenzia nell’accentuazione (fino all’ansia, dai risvolti perfino patologici) della speranza che giunga infine il messaggero ad annunziare la soluzione, a portare la formula che ci salvi. Condizione solo in parte recuperata da una componente religiosa in oscillazione continua tra fede e delusione. La consapevolezza, non più l’intuizione, per Margherita Guidacci, ci ha messo negli occhi la verità. E, intanto, la morte ci tende agguati in ogni piega del giorno. Così la condizione è quella del terrore che invano ci si sforza, magari attraverso la magia della parola, di esorcizzare. Finisce che spesso la paura ci ricade addosso più violenta. Il pessimismo dell’intelligenza ci spinge ad aggrapparci alla “pietra”, rifiutando le lusinghe della forma, le precarie misure di quelle apparenze che pure ci affascinano e ci offrono illusorio piacere. È anche questo parte del tormento che attraversa i versi della Guidacci. Ma c’è un tempo per tutti, la giovinezza, a cui si concede universale perdono e a cui si fa credito di indulgenza protratta per dolci inganni e follie. Il lampo della memoria ne richiama gli istanti più esemplari da opporre, nonostante tutto, al muro di silenzio che ci minaccia. Eppure l’impossibile ci corteggia con i suoi soffi inafferrabili, con i suoi lampi dal buio, che lasciano sperare una misteriosa comune salvezza dall’ultima sponda. Una virata verso la gioia appare disegnarsi negli ultimi anni dell’autrice, culminata nel libro che fin dal titolo ne indica simbolicamente il positivo nella dualità: Il buio e lo splendore. Il parlato, nel suo immediato fluire (tuttavia raffrenante il continuum), nei versi della Guidacci trova i modi e gli andamenti (gli stilemi) di quella meditata misura formale (una sorta di medierà poetica) che esaurisce intuitivamente l’esigenza del comunicare.

CLEMENTE REBORA

È stato Gianfranco Contini a definire Clemente Rebora “una tra le personalità più importanti dell’espressionismo europeo”. Ma prima che gli effettivi meriti di questo poeta marginale fossero apertamente riconosciuti, ne è passato di tempo. E, in fondo, solo negli ultimissimi anni gli studi critici sull’opera complessa e stratificata del più grande poeta cattolico del Novecento hanno fatto seri passi in profondità. Quando nel 1913 la “Voce” di Prezzolini, come al solito all’avanguardia nelle lettere italiane del tempo, pubblicò i Frammenti lirici di Rebora, la critica non ne comprese né il valore né lo specifico poetico, per la novità sorprendente dei contenuti e soprattutto per la scabra concentrazione del linguaggio. La novità stilistica, del resto, era clamorosa rispetto alla tradizione accademica italiana: il vocabolario pungente e il registro di immagini e metafore arditissimo venivano a porsi come frattura rispetto agli antecedenti anche più anticonformisti. C’era, nella poesia di Rebora, una libertà assoluta: il senso di una potenzialità vertiginosa, a cui l’autore si disponeva dal retroterra di una convinzione illuministica, di conciliare l’inconciliabile. Qualcosa che, a ben vedere, è sempre rimasta come spinta innescante, nel lavoro poetico di Rebora; anche dopo la conversione al cattolicesimo (conversione per modo di dire, vista l’appartenenza già alla confessione) e l’ordinazione sacerdotale. In quella dimensione volontaristica in cui Rebora si pone, all’insegna della fede, in cui male e bene devono trovare per forza soluzione, per superare la bruta animalità dell’uomo. Nello spazio di questo volontarismo, si segna la stessa cifra stilistica di Rebora. È stato osservato, da più parti, come la scelta eccentrica del lessico e la stessa aritmicità della strofa si leghino allo sforzo di esprimere concetti inusitati rispetto alla tradizione poetica italiana. E, tutto questo, nell’anelito alla comunione totale con un dio di giustizia e misericordia, che da un certo momento in poi diventa l’interna ossessione del poeta (oltre che, naturalmente, dell’uomo). Nel voto di “patire e morire oscuramente, scomparendo polverizzato nell’amore divino” (che è una scelta di vita), diventa però arduo perseguire un discorso poetico in sé compiuto (che è pur sempre una necessità di letteratura). Ecco allora che, inevitabilmente, la penna di Rebora si perde un po’ dietro alla prece e alla litania; le quali, si dovrà pur riconoscerlo, hanno una parte sempre più preponderante nella sua produzione. Con uno scadimento (si parla, naturalmente, da un punto di vista solo letterario) troppo evidente per cancellarlo di fronte al gran polverone della tentata recente sopravvalutazione di questo poeta, la cui più interessante produzione resta circoscritta rigorosamente dentro gli anni Venti, dentro cioè la fase sua di più laica inquietudine. La fede, proprio come l’amore, è un tema arduo da affrontare in poesia; accade che non conosca o, per meglio, dire non regga le mezze misure. Naufraga spesso nel luogo comune, nella ripetizione, nel trito e nel ciarpame. E, se non trova respiro capace di elevarla, l’effetto è controproducente: la ripetuta esclamazione, la supplica, l’invocazione, l’esorcismo, non fanno che ribattere la stessa nota stonata. Il bisogno scaramantico ha ben poco a spartire con la letteratura. E tanta parte della poesia di Rebora, del Rebora sacerdote e cantore della fede, è di tal fatta. Non ha slancio verticale, da grande mistica, che è tutta un’altra cosa. Per quanto abbia poi un suo sapore, amarognolo e cupo, perfino sconvolgente.

VITTORIO SERENI

L’ultimo libro di poesia di Vittorio Sereni è uscito nel 1981, si intitolava Stella variabile. Dopo neppure due anni, l’autore è scomparso, avendo scritto poche altre cose in versi, recuperate nel volume dell’intera sua produzione poetica. Stella variabile apparve dopo quindici anni dalla precedente raccolta, Gli strumenti umani del 1965, quarto libro di versi, con Diario d’Algeria (1944) e Frontiera (1941), in cinquant’anni e più di lavoro poetico. Sereni non è un poeta prolifico: un senso dei reali limiti della poesia lo ha sempre tenuto in disparte, riservato e discreto, lontano da qualsiasi forma di militanza e di impegno e da qualsiasi clamore. Restio a cavalcare la pretesa “funzione” del poeta o ad assumerne comunque la parte, ha sempre scritto in un rapporto di necessità inderogabile rispetto alla vita. Il che vuol dire che ha composto solamente i pochi testi che non gli era possibile non comporre. Ed è la considerazione fondamentale per penetrare la sua poesia. È proprio in questo genere di poeti, contenuti fino allo stremo, che si sciolgono i nodi insolubili e si scoprono le svolte risolutive. Non ce ne sono mai più di due o tre per secolo. Uno di quelli del nostro Novecento è sicuramente Sereni. Quello che, senza pretendere di dare nessuna indicazione, ha mostrato (specie poi alle giovani generazioni) come si potesse e dovesse scrivere poesia, senza abdicare a se stessi e senza cadere nel ridicolo di una investitura (di vate o di iconoclasta). Lontano dagli eccessi dell’ermetismo e dell’avanguardia, e lontano dalle semplificazioni e dalla cattiva coscienza del neorealismo: ecco la posizione netta e decisiva di Sereni. E, in lui, già nel 1941 si affaccia l’esigenza di una maggiore adesione alla realtà quotidiana, da narrare quasi in toni diaristici. Come di lì a poco accadrà in modo più radicale nel Diario d’Algeria, dove la cronaca della prigionia tende a porsi come allegoria esistenziale, e come poi si riproporrà, attraverso il lavoro di molti anni, nella raccolta Gli strumenti umani, dove le vicende private appaiono costantemente proiettate sullo sfondo delle grandi trasformazioni culturali e sociali dell’Europa. La critica non ha reso ancora giustizia completa alla poesia di Sereni. Non nel senso che siano mancati i consensi. Ma il consenso, spesso, cancella o rende incerto il riconoscimento del giusto. Ed è accaduto in fondo che Sereni, nelle classificazioni di comodo, sia rimasto consegnato a una parte perfino ufficiale di poeta “civile”. Cioè, in qualche modo, si è esorcizzato il vincolo della sua fedeltà assoluta “al tempo e alle circostanze vissute”, facendo di un criterio di conoscenza l’oggetto della poesia. Con tutti i malintesi che si possono immaginare. Così pure è accaduto che si sia visto in Sereni, per altra via, il portavoce di una sconfitta radicale, per quanto attenuata all’apparenza da una veste elegante e sottile. Uno strano cliché, a ben guardare, quello che pretende di coniugare gli uffici “civili” con i dati della “delusa partecipazione”. Sono termini  questi che vanno accantonati in una valutazione calzante della poesia di Sereni, perché le circostanze in campo sono altre. A partire dal fatto più importante, e più frainteso o ignorato: la speranza come motore della poesia di Sereni. La speranza, si sa, sopravvive anche in area laica e in particolare, là dove tace l’apologia del progresso, si configura in forme oblique e filamentose che vanno ben più in profondità dei salti di fede. Non come leopardiana immaginazione di “quello che poteva esser stato”, nel caso di Sereni. Ma come adesione a una realtà in essere, riflessa nel mentre è vissuta e in questo riflettere adeguata mentalmente a tutte le ipotesi: il “progetto sempre in divenire sempre in fieri di cui essere parte”. È una speranza insomma, per così dire, dell’immanenza quella che attraversa la poesia di Sereni. Senza sublimazioni e senza trasfigurazioni, ma anche senza veri cedimenti alle presunte ossessioni della “fine dell’estate”, del “prossimo inverno”, dell’ “imminente silenzio”, che alcuni hanno ritenuto di individuare. La radiografia trasversale della “vita fluttuante e mutevole” si esprime in forme oblique, ma non elegiache, come spesso è stato ripetuto. Non c’è malinconia, come non c’è crepuscolarismo, in Sereni, e la situazione è ferma, perfino spigolosa. Il discorso, nella sua linearità, è continuamente slittante di grado, in un aggiustamento successivo, e l’abbassamento di tono risponde alla legge dell’inversamente proporzionale.

LEONARDO SINISGALLI

Dall’analogismo della prima maturità, in cui il suo ermetismo si realizzò nell’esperienza particolarissima (e anche, per certi aspetti volontariamente anomala, nella scelta di riferimenti algebrici e geometrici) di un controllato canto di evocazione, Leonardo Sinisgalli è approdato al repertorio delle pure immagini, dall’eleganza misurata e come spoglia d’ogni superfluo di eloquenza. Nell’ultimissima produzione, nell’esemplare Mosche in bottiglia e fino a Dimenticatoio, limpidissime immagini fissano sulla pagina, per brevi e chiari segni sempre più rastremati, i frammenti di una realtà minima che è tutta la realtà, prova e conferma di un destino oscuro. L’immobile rarefazione degli oggetti, nella perfetta trama dell’ordito, è allusione all’angoscia stessa di fronte al “bello” della vita che appare scoperto nella sua condizione di prigioniero dell’avvolgente nulla. Ed ecco che anche la perfezione dei numeri, delle forme geometriche, delle scienze matematiche tanto care a Sinisgalli, svela la sua natura di esorcismo disperato, nell’apparenza dell’equilibrio, nei confronti del nulla e della morte. Da Il passero e il lebbroso soprattutto, si attesta in Sinisgalli un “parlato” tratto al vaglio della più concisa enunciazione, dal lessico corrente ma affinato, che si chiude in Mosche in bottiglia e in Dimenticatoio nel ritmo breve del moderno epigramma. Da sempre la poesia epigrammatica si è caratterizzata nel senso della sintesi definitoria e nell’uso di assolutizzare il momento, il frammento, la particella, il minimum. Non per niente l’origine dell’epigramma è funebre: le brevi iscrizioni metriche di dedica e di esorcismo, destinate a rendere i vivi certi e tranquilli del poco trascorso rispetto al tutto ignoto. E, in Dimenticatoio, ci sono anche alcune epigrafi funebri. Anche quando motivi agresti, conviviali, amorosi, andarono via via imponendosi nell’epigramma, restò determinante la chiave definitoria, svolta addirittura in termini sentenziosi, magari dentro un’ispirazione di vena ironica, che è una ricorrenza regolare nell’ispirazione di Sinisgalli. Per cui la sua poesia epigrammatica ferma e fissa a linee nette i particolari di un insieme del quale sfuggono la sistemazione e la consistenza. Ne appare consapevole lo stesso Sinisgalli là dove, nella calibratissima avvertenza premessa a Dimenticatoio (data quasi a giustificativo), parla degli approdi ultimi della sua poesia “di epigrammi”.  A continuazione e sviluppo del mondo poetico di Mosche in bottiglia, in Dimenticatoio sembra che si sia assolutizzato il “viaggio nella stanza”, come punto di approdo, ultima spiaggia, rifugio dalle opere e dai giorni, ricovero di sé in ciò che più lentamente trascorre, ma anche come postazione più avanzata, osservatorio del mondo sul mondo, luogo del taglio e della penetrazione, laboratorio estremo della conoscenza. Il poeta sta chiuso nella stanza a fare il catalogo dei reperti raccolti nei lunghi anni di vita, a studiarli con amore e pazienza, ad analizzarli al microscopio. Il fatto è che, più li osserva e si sforza di organizzarli in un quadro di insieme, più gli scivolano tra le dita spegnendosi e riaccendendosi come lucciole in volo. Si può dire che in Dimenticatoio, rispetto alla precedente produzione poetica di Sinisgalli, la realtà abbia perso consistenza e il nulla si scopra sempre più agli occhi dell’autore. Quel che resta sono tracce, tranches de vie, come residui della combustione: ombre, apparenze che svelano presenze assenze, per lo meno calcoli o congetture di un reale che oltre la sua sistemazione quasi ordinata in un codice linguistico, sembra svanire, nientificarsi, in un’alternanza di positivo e negativo in cui le differenze appaiono vacillare. Scrive lo stesso Sinisgalli, nell’avvertenza di cui si diceva, che nella sua poesia “dalla fine degli anni cinquanta è cominciato il cedimento della materia espressiva, che si è disarticolata, ha perduto coesione e fermezza”. L’autore pensa soprattutto a uno slittamento progressivo, che vede perduto gradualmente il senso della misura e della posizione, cioè il rispetto della simmetria e dell’uniformità dentro l’opera, a favore di una misura meno assoluta, la connessione. Si tratta dunque nella consapevolezza autocritica di Sinisgalli, della corrispondenza di una misura compositiva più approssimativa a un grado di conoscenza più confuso della realtà. È un percorso che hanno compiuto molti poeti, addirittura un’intera generazione con Montale in testa, dalla “poesia” al “discorso poetico”, con modalità e sfumature diverse ma per la medesima necessità esistenziale di rapportarsi al complicarsi sempre più confuso della vita.

ANDREA ZANZOTTO

Ha detto bene Stefano Agosti nell’inquadrare la natura particolarissima della poesia di Andrea Zanzotto, che bisogna valutare in tutta la sua accentuazione il concetto di “esperienza verbale”. Nel senso che, nella vicenda del poeta di Pieve di Soligo, il linguaggio non solo si pone al centro dell’esperienza del mondo, ma diventa addirittura costitutivo del mondo. Certo occorre subito precisare che, affrontando lo straniamento tipico della realtà esistenziale contemporanea, Zanzotto si consegna alla nevrosi del linguaggio e, a decidere della sua poesia, è la parola “nel vuoto”, la parola che “sfonda” e guida il componimento risalendo da profondità oscure, dall’inconscio di freudiana memoria. In questo senso, della ricchezza esorbitante di un mondo interiore impossibilitato alla chiarezza e alla normalità, si può dire che la poesia di Zanzotto non abbia riscontri paragonabili, almeno in Italia, solitaria e inaccessibile, quasi una sorta di Nautilus in viaggio negli abissi della psiche. La vicenda poetica di Zanzotto, movendo da quella condizione pura esistenziale della stagione post ermetica (Dietro il paesaggio è del 1951), è andata poi configurandosi nel tempo come volontà e bisogno di superare una situazione letteraria di stasi.  La sua poesia, facendosi veicolo sempre più consapevole e “scientifico” di conoscenza, ha adottato lo spazio del retroscena. L’intelligenza, scegliendo il linguaggio come strumento operativo, ha lasciato scivolare in secondo piano l’aspetto della comunicazione e ha concentrato la sua forza nella rivelazione attraverso la “pronuncia” della parola. Una parola che aggancia e trascina dal retroscena brandelli, filamenti, frange, di una realtà insieme mentale e fisica, sommersa, galleggiante appena oltre la crosta del nostro corpo, dei nostri visceri. È la posizione di Zanzotto, a partire dalla raccolta La Beltà, del 1968. E, secondo Agosti, è il punto più profondo toccato da Zanzotto nel suo percorso poetico. Un punto conclusivo, perché il poeta vi ha raggiunto “verità” divenute un’acquisizione solida e ferma per le successive operazioni. Il poeta Zanzotto di lì in poi si fa interprete di un’analisi biochimica sul linguaggio, condotta con l’intenzione di sondare il campo umano del reale ben oltre le apparenze, manifeste o no, secondo misure che però, nonostante tutto, restano esistenziali e partecipative. Non si potrà, nella poesia di Zanzotto, mai sottovalutare la portata dell’intelligenza, sia pure nella considerazione che molto in ogni caso sfugge alla consapevolezza Ma la cultura stratificata e la navigata conoscenza degli strumenti sono elementi fondamentali, nella vicenda. In generale per tutti i poeti, che sono razza sempre ipercolta, e a maggior ragione nel caso particolare. Basta andare a guardare il repertorio critico che Zanzotto è venuto, via via, materializzando nel suo cammino. Il “monumento” della sua scrittura critica ha evidenza nei volumi dei saggi come Fantasie di avvicinamento (1991) o Aure e disincanti del Novecento letterario (1994). La poesia di Zanzotto sembra, ogni volta, ripartire da zero, improntata ad una inesausta tensione emotiva e mentale. E la ragione è che affonda le proprie radici in un retroterra culturale stratificatissimo, entro il quale convivono in singolare e feconda simbiosi gli eventi laceranti della storia e quelli, non meno drammatici, del personale percorso conoscitivo. Operando da una posizione eccentrica ed isolata, che è sempre per la poesia occasione fondamentale di autenticità, Zanzotto è approdato ai risultati significativi e originali delle sue prove.

 

1 commento su “VOCI DELLA POESIA ITALIANA DEL NOVECENTO saggio di Paolo Ruffilli”

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