I CIELI DI CLAUDIO DAMIANI

I CIELI DI CLAUDIO DAMIANI

 

Leggo da tanti anni i versi di Claudio Damiani, che ha da poco pubblicato, in omaggio a Beppe Salvia, giovane poeta precocemente scomparso più di trent’anni fa, Cieli celesti (Fazi Editore, pp. 163, 18 euro), e ogni volta sono sorpreso dalla loro tenera freschezza, e autosufficienza, come quella, evangelica, dei gigli nei campi. Resta in testa un’armonia del creato che gli arcigni maestri del recente passato ci avevano fatto dimenticare, come se fosse perduta. Si può scrivere una poesia sui gatti che ti guardano mangiare e ti capiscono nel profondo più dei filosofi che ti vorrebbero interpretare? Sì, è possibile. Come anche scriverne un’altra sugli alberi che non possono parlare ma sanno tante cose che noi neppure immaginiamo. E un’altra ancora sul «chiacchiericcio concitato» degli uccelli che d’autunno si radunano e si preparano per partire. Il Soratte oraziano, nel suo riferimento assoluto quasi fuori dal tempo, è sempre lì, di fronte a Damiani, a montare la guardia, severo: un tempo aveva sessanta cime, ora soltanto sei. «E prima ancora?» chiede l’autore rivolgendosi direttamente al vecchio massiccio. Come quasi sempre gli capita, si risponde da solo: «Be’, prima ancora non eri neanche un monte, / eri terra piatta che si faceva su un fondo / marino giorno dopo giorno». Questo poeta, nato nel 1957 a San Giovanni Rotondo, ma cresciuto sin da piccolo a Roma, nelle cui campagne sabine, dense di richiami classici, vive e si alimenta, ha un timbro di voce inconfondibile e distintivo che scaturisce dalla pura accettazione dell’esistenza, senza negare la consapevolezza acuta della sua finitudine: «Che bello che questo tempo, come ogni tempo, finirà, / che bello che non siamo eterni…» aveva affermato in una precedente opera. E in quest’ultima continua a battere sullo stesso chiodo: «Ma se tutto è in relazione con tutto / e noi senza le parti remote / dell’universo non potremmo essere, / se ogni cosa esiste in relazione alle altre, / e non da sola, / allora anche il tempo presente / è in relazione al passato e al futuro / e non potrebbe esistere senza di loro / e quindi il passato e il futuro / esistono, in qualche modo, anche ora, / e tutti i morti e tutti i non nati / esistono ancora, esistono già ora». A contare sono soprattutto il timbro espressivo, così caratteristico e riconoscibile come la voce di un cantante famoso; la musica di un mondo interiore che, pur essendo concentrato su se stesso, non chiude ma apre le porte; il ritmo colloquiale che affonda le proprie radici nella tradizione moderna meno compromessa con la superbia a volte arrogante del dettato ermetico. In apparenza Claudio Damiani sembra un elegiaco. Ma non è così. Egli esprime il sentimento profondo di una fragilità che riguarda tutti gli esseri umani: «Noi pochi stiamo in prima linea / e della battaglia non capiamo niente». Ammissione di cecità che, oltre a fargli onore, lo ha da sempre affrancato da qualsiasi ipoteca simbolista. Io lo considero il più religioso fra i poeti contemporanei italiani con una grande capacità di ascolto della nostra più bella passione vitale, da Petrarca a Pascoli. Nelle sue liriche, dense di letizia, la pronuncia diventa sofisticata nonostante la trama resti semplice e frontale. Tale strumento di consapevolezza illumina la percezione del mondo e la sua verità, spingendo il poeta a toccare cose, persone e oggetti che sembravano essere diventate innominabili. Tornano spesso il padre, Elbano, i figli, la moglie, i gatti, i cani, gli alberi, e i monti, per l’appunto, specialmente loro, che sono sempre puliti, anche se non si lavano mai.

Eraldo Affinati

RomaSette.it 

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