INTERVISTA DI POETIPOST68 A MAURIZIO CUCCHI
Hai avuto delle madri e dei padri in poesia, o nel corso della tua formazione?
Intanto, come mi è già capitato di dire, un maestro deve essere tale non solo perché lo trovi sui libri ma perché puoi avere con lui un rapporto diretto, uno scambio continuo e concreto. Quando ero giovane, ho avuto la fortuna di incontrare alcuni poeti come Vittorio Sereni e Giovanni Raboni, Giovanni Giudici e Giancarlo Majorino, ma anche Nelo Risi e Andrea Zanzotto sui quali mi sono laureato. Sono stati dei maestri e dei punti di riferimento ai quali sono molto grato. Per la lettura dei loro testi e anche, come dicevo, per il confronto diretto che ho avuto con loro. L’esplorazione accanita dell’ampio e vario panorama che mi offrivano è stata per me decisiva. Credo che la figura di un maestro sia centrale e fondamentale. Chi crede di non avere nulla da imparare, nulla da apprendere, è sulla strada sbagliata. Questo non significa che chi abbia un maestro possa riuscire a essere come il maestro o avvicinarsi a lui. Tuttavia, il maestro, attraverso la sua opera e la sua presenza, può darti delle indicazioni decisive. Il primo che è ho conosciuto è Giovanni Raboni, che è stato senza dubbio uno dei miei riferimenti più importanti. Mentre scrivevo la tesi di laurea su Risi e Zanzotto, ho visto che il risvolto di Di certe cose era firmato da Raboni; allora, ho cercato di contattarlo per avere da lui qualche altra informazione, per ricevere il suo pensiero più articolato su questo libro secondo me molto importante. Da qui è nato il nostro rapporto, fatto anche di collaborazioni. Ma importantissimo per me era il legame che avevo con la sua poesia: Le case della Vetra ed Economia della paura furono per me una rivelazione fondamentale per l’articolazione del narrato poetico che portavano. Dopodiché, abbiamo continuato a confrontarci, trovandoci spesso e volentieri d’accordo, ma scambiandoci anche le rispettive opinioni. Vittorio Sereni era un poeta di una generazione precedente e, di conseguenza, un maestro che io vedevo con una certa deferenza. Però era anche un uomo di una grande onestà intellettuale, e di una semplicità umana che, devo dire, tutti i grandi che ho conosciuto hanno sempre avuto. Quelli che si danno delle arie sono i peggiori. Non ho mai conosciuto un grande che si desse delle arie. I più grandi poeti che ho conosciuto hanno sempre avuto un atteggiamento assolutamente normale: Sereni, Caproni, Luzi, Zanzotto, Bertolucci. E con Sereni mi sono trovato molto bene. Al di là del fatto che, quando uscì Gli strumenti umani, avevo avuto la possibilità di leggerlo in diretta. E, per me, fu una rivelazione straordinaria, anche perché faceva vedere quale cammino della modificazione poteva avere un grande autore come lui rispetto ai suoi punti di partenza. Questo è molto importante. Ci sono degli autori, anche bravissimi, che sono, più o meno, sempre fedelissimi al sé stesso delle proprie origini (Sandro Penna, Luciano Erba); altri, invece, che hanno compiuto, nel corso della loro storia, dei movimenti decisivi, come Giovanni Giudici, un altro dei miei maestri con il quale avevo un confronto pressoché quotidiano. Con Giudici, ci leggevamo le poesie al telefono, oppure andavo a trovarlo nel suo ufficio di via Camperio dove lavorava come copywriter per la Olivetti. E anche in quel caso, ci scambiavamo idee e poesie. Fu lui a propormi a Mondadori. Da qui, la mia piena gratitudine che, naturalmente, devo anche alla sua grande opera (La vita in versi, Autobiologia, Il male dei creditori) e alla sua persona. Quando ho letto su Paragone alcune poesie che poi uscirono ne Il male dei creditori, come Gli abiti e i corpi, compresi che avere a che fare con un poeta e una persona del genere era per me uno straordinario privilegio.
Esiste a tuo avviso un legame tra Poesia e Storia?
È inevitabile. Che ci piaccia o meno siamo tutti “prodotti” storici, determinati dal tempo che muta e nel quale viviamo. Il piano di rapporto con la Storia riguarda naturalmente anche il rapporto con la realtà contemporanea nella quale ci troviamo, quindi con ciò che accade nel mondo. Se così non fosse non avremmo Diario di Algeria, per fare un esempio. Ci sono dei momenti in cui la Storia è entrata in maniera molto forte in poesia, nella misura in cui c’è stata, anche pubblicamente, una richiesta di espressione, di partecipazione e di coinvolgimento positivo rispetto a quanto accadeva nel mondo. Ci sono vari esempi in cui questo si è verificato. Pensiamo a Quasimodo, alla differenza che esiste tra i suoi momenti iniziali e a quello che ha scritto dopo. Questo succede perché, in certi momenti, c’è una richiesta da parte della Storia, e della cultura o della società in generale, di partecipare a quanto accade, senza allontanarsi o fuggire in altri territori. Può accadere che il soggetto aderisca a questa richiesta con la sua esperienza personale, con il suo vissuto, dando testimonianza a tutto questo. Ma naturalmente, si può aderire in vario modo. Quando, di recente, ho scritto, su commissione, un libretto di poesia civile (per esprimere, in modo poetico, un’opinione su quanto accade nel mondo), ho trovato la cosa molto interessante. Se non si resta in un ambito di pseudo giornalismo in versi e ci si sforza di interpretare la realtà complessa nella quale stiamo vivendo con i propri strumenti, senza fare qualcosa di ideologico, propagandistico o giornalistico, ma conservando la propria autonomia estetica, si può pervenire a risultati positivi. Nella poesia italiana del secondo Novecento ci sono esempi illustri di come questo sia accaduto. In Di certe cose, per esempio, Nelo Risi descrive ciò che già c’è e vede anticipando, al tempo stesso, i climi del decennio successivo, perché il poeta importante molto spesso ha delle capacità di previsione. Lo stesso Erba, ne Il male minore, scrive “Ma nessuno che sappia / che l’ignoranza è il male minore / presso i fedeli dell’imperatore?”. Versi che sembrano scritti oggi nonostante Erba sia partito da una concezione e da una situazione storica completamente diversa. E quando Andrea Zanzotto dice, in Vocativo, “Pace per voi per me / buona gente senza più dialetto”, già si accorge, pur essendo negli anni Cinquanta, che sta per perdersi quella creazione del linguaggio e della lingua che è sempre partita non dai professori o dai poeti, ma dal basso e della gente comune. Questo mette a fuoco un altro aspetto centrale del rapporto tra Poesia e Storia, ovvero il problema del linguaggio che cambia. I mezzi che la realtà ci mette a disposizione sono diversi nei vari periodi, e di conseguenza dobbiamo rendercene conto. Se non abbiamo una sensibilità specifica per il materiale di cui ci serviamo nel nostro tempo, ovvero la lingua, forse dovremmo dedicarci a qualcos’altro… Il poeta deve necessariamente legarsi all’importanza della lingua, al senso della parola nella forma, e tutto questo cambia nel corso del tempo e della Storia. Negli anni Sessanta, quando sono nate le sperimentazioni, c’è stata una forma di sperimentazione, appunto, ma a tutto campo, perché si era dentro un periodo storico che tutto questo esigeva nettamente. E allora nascono il Gruppo 63 e i cinque poeti Novissimi. Al tempo stesso, però, c’erano anche i poeti che gravavano, pur nella loro autonomia, intorno a Sereni, come Majorino, Raboni, Giudici, i quali sono andati in un’altra direzione, cercando di mandare avanti il discorso della poesia secondo una propria concezione, senza una dipendenza ideologica da quanto veniva promosso. Ci sono dei periodi in cui tutto questo è più forte ed evidente, altri in cui tutto questo si vede meno. Ed è proprio allora che il soggetto artistico ed estetico scrivente deve sforzarsi di capire in che direzione andare e che lingua utilizzare. Oggi la nostra lingua è conciata orribilmente. Un tempo veniva creata dal basso, la gente era creatrice di linguaggio. Oggi ne è rimasta fruitrice, manifesta un atteggiamento passivo, si limita a riprodurre la cattiva lingua dei mezzi di comunicazione di massa. Quando ero giovane, Giovanni Raboni mi diceva che era necessario servirsi del “parlato”, in poesia. Oggi è un concetto che non si può più usare negli stessi termini perché abbiamo un “parlato” orribile: vocabolario limitatissimo, americanismi banalissimi, turpiloquio diffuso e desemantizzato. Il poeta ha il compito di restituire capacità creativa al soggetto attraverso la propria opera nel rispetto della lingua e della parola.
Quale idea hai del concetto di trasmissione e di tradizione? E in cosa consiste il tuo “scarto” rispetto ai modelli poetici e letterari a cui è legata la tua formazione?
Chi ama la poesia ama la poesia che è stata e ad essa si relaziona: tradizione recente o remota che sia. Deve connettersi con quanto è stato, ma in modo libero, per cercare continuità nel mutamento. La storia che va e la lingua che, appunto, si trasforma, come l’idea della forma, ci impongono di continuare secondo la nostra sensibilità, personale e culturale. Va poi compreso cosa intendiamo per “tradizione”. Per un autore la tradizione può riferirsi a delle opere che ha studiato a scuola, per un altro autore può avvicinarsi molto di più al presente. È chiaro che quando io ero giovane non potevo considerare persino Sereni “tradizione”, perché era attivo in quel momento. Tuttavia, è chiaro che riferendoci ad autori per noi esemplari ci si mette in relazione anche con quello che è stato il loro rapporto storico con la tradizione, quindi con ciò che ha preceduto la loro venuta al mondo. Pertanto, c’è un movimento continuo nel quale il soggetto deve sentire l’importanza della tradizione senza comunque fermarsi sul “già dato”. Mi spiego meglio. “Il già dato” è fondamentale, ma se si pensa che sia tutto allora non ci saremmo mai mossi, saremmo ancora ed essenzialmente sempre allo stesso punto. Questo non può accadere perché siamo nella Storia, e la Storia cambia, induce dei cambiamenti dentro di noi. Il rapporto con la tradizione è dunque fondamentale, purché si abbiano delle reazioni in proprio. Se mancano queste reazioni sul piano della lingua, dell’idea di mondo, sul piano di quello che si vuole fare a livello di percorso letterario, il soggetto risulterà passivo. E dalla passività non nasce alcuna possibilità creativa.
Quale funzione ha nella tua produzione la prosa (sia essa narrativa, critica e/o teoretica) e quale rapporto intesse con la poesia?
La prosa può essere o non essere poetica. In questo secondo caso è possibilità aperta e diversa rispetto al verso, facendosi strumento importante dopo l’abbandono della versificazione tradizionale. A me interessa soprattutto (ma non solo…) la scelta del prosimetro, che muove il testo in passaggi, per così dire, dal recitativo al canto. Ma c’è anche la prosa saggistica e narrativa e quest’ultima mi ha sempre attratto e mi ci sono dedicato in testi per definizione narrativi, in quei romanzi che ho sentito il bisogno di realizzare. Riguardo al rapporto con la poesia, intanto bisogna dire che la poesia pratica una strenua economia del linguaggio e deve avere necessariamente musica. Musica come suono organizzato esteticamente, ma con una dimensione anche matematica. Nel senso che non deve esserci neanche una sillaba debordante. Chi ha un buon orecchio si rende conto se quel “che” doveva essere escluso, se quella sillaba stona, dà fastidio. Se ne rende conto come uno che ha una partitura davanti, e se vede che c’è scritto 4/4 sa che non può diventare 6/8. Questo tipo di consapevolezza è fondamentale affinché la prosa poetica sia tale. A me è capitato di leggere dei testi spacciati per prosa poetica che in realtà erano prosa piatta. La prosa poetica ha un’antica storia. Di recente mi è capitato più volte di parlare di Gaspard de la nuit di Aloysius Bertrand, perché, nella prima parte dell’Ottocento, lui aveva capito che si poteva usare la prosa per farne della poesia. D’altra parte, lo stesso Leopardi, parafrasando, dice che non è essenziale il verso all’opzione poetica, dal momento che il verso è una modalità di introdurre in una certa forma il concetto di poesia in una pagina scritta. Il Bertrand di Gaspard ricorre anche a delle narrazioni non strettamente consequenziali, con dei vuoti che creano attriti e delle possibilità di energia interna che la poesia deve necessariamente dare. Bertrand faceva addirittura questi componimenti di tre, quattro righe raccomandando al suo tipografo di staccare questi frammenti come se si facesse la composizione di un testo poetico in strofe. Ne aveva dunque una percezione proprio a livello di componimento poetico. Lo stesso Baudelaire disse che voleva fare qualcosa come Gaspard. E se lo diceva Baudelaire… In Italia, la prosa poetica ha attecchito un po’ meno. Abbiamo Dino Campana che è stato un referente dichiarato e importante per Giampiero Neri, il quale, a sua volta, tra i poeti dal secondo Novecento a oggi, è stato uno dei più importanti a praticare la prosa poetica con un’eleganza, un senso della parola e una misura straordinari. Credo che oggi il prosimetro continui a essere molto importante perché ti consente di agire con i due registri che si possono utilizzare all’interno di una composizione poetica. E questo può creare, all’interno del testo, qualcosa di molto interessante, nel quale è piacevole o drammatico stare. Ed è un altro modo che consente di esprimere una sensibilità sulla forma, sull’importanza dello stile e del tipo di voce da emettere. Una sensibilità che, chi fa poesia, non può non avere.
Quale rapporto ritieni di avere con le nuove generazioni di poeti, e come percepisci le nuove forme di poesia? Puoi descriverci qual è il tuo sentimento del futuro collettivo?
Sempre mi sono interessato al nuovo che emergeva, per capire quale potesse essere nel tempo la nuova idea della poesia, soprattutto nella valutazione e nell’uso degli strumenti. Un tempo dicevo: quando sarò anziano vorrò avere un maestro ventenne… Non è accaduto, purtroppo… e forse era solo un mio paradosso… Quello che manca oggi è un confronto, un ragionamento su quale poesia si vuole fare. Quale linguaggio si vuole usare. Quale registro linguistico. Quale parola si vuole usare. Quale forma. Quale stile. Quale voce. Chiaramente ognuno ha le proprie tendenze, ma se queste tendenze non sono avvalorate anche da una riflessione relativa agli strumenti da usare, sul tipo di poesia cui si vorrebbe pervenire, difficilmente si potranno raggiungere dei risultati significativi. Quando ero giovane, per fare questo confronto, le teorizzazioni e le dichiarazioni di poetica erano addirittura prevalenti, diventavano quasi insopportabili. Ricordo che nel ’77 ci fu il convegno al Club Turati sulla poesia degli anni Settanta e ne emersero di tutti i tipi. Io ero atterrito da questa continua esposizione ed esibizione di possibilità teoriche… Tuttavia, oggi, come ho detto più volte, ne sento, paradossalmente, la mancanza. Ed è una situazione che mi turba un po’, perché fino a quando non si discute su quale tipo di poesia si vuole fare si resta in un limbo qualunquistico che sul piano della forma non può esistere. Un autore che usa degli strumenti per raggiungere un risultato estetico non può essere quello che dice che “questo vale quello”. Siamo di fronte a un qualunquismo molto diffuso, ed è negativo. Naturalmente chi ha le risorse sufficienti se la cava, ma molto probabilmente potrebbe andare ulteriormente avanti se ponesse in contatto diretto con chi ha qualità ed altre risorse da mettere a confronto con le proprie. E in questo senso, il confronto è necessario per acquisire una maggiore consapevolezza di sé, degli strumenti che si usano. E per capire, infine, che cosa si vuole fare della propria passione per la letteratura ed esserne un creatore.