PREGHIERE IMPERFETTE DI NADIA SCAPPINI
Percorrere l’opera in versi e in prosa di Nadia Scappini, di cui esce ora Preghiere imperfette (Moretti&Vitali), è come avventurarsi tra i vialetti, gli alberi, i fiori, i muschi e le pietre di un giardino luminoso e vibrante d’ombre, accogliente e percorso da soffi, fruscii, tremori provenienti da chissà dove, intrisi di un intenso profumo spirituale, palpitanti di un’eco viva della sacralità radiosa e dolorosa del mondo. Procedendo, per così dire, in punta di piedi fra i territori della poesia (le raccolte La luna nuda, Il ruvido mistero, Un’ora perfetta e Come dire dell’amore, senza dimenticare il monologo in versi La bilancia del cielo), quelli della narrazione (i romanzi Le ciliegie sotto il tavolo e Sonia e il poeta, i racconti di Topografie interiori) e quelli della scrittura saggistica (le riflessioni su preghiera e poesia di e tuttavia Ti cerco, le escursioni tra cibo e convivialità di Limone ruffiano), Nadia è andata via via componendo un mondo lirico ricco di onde chiare e segrete, di tinte lucenti e ovattate, di cadenze raccolte o espansive. Benché profondamente radicato nel “qui”, nel gusto del concreto, nella fragranza delle esperienze sensibili, questo mondo è segnato senza tregua dalle tracce di tutto ciò che sfugge alla presa: i sogni, i crinali dell’immaginario, i desideri, i timori, le nostalgie, la sete d’assoluto, lo spirito dell’impossibile o dell’altrove. Spesso ondeggiante su soglie sottilissime, in bilico tra fughe verso orizzonti utopici e ritorni nel dominio quieto della vita domestica, attraversata da crepe, fratture, lacerazioni e volta pazientemente a ricucirle, la voce di Nadia Scappini è il regno della tessitura, della polifonia e del contrappunto, dei ritmi in battere e in levare, della fragilità e del coraggio, della pena e dell’amore, delle ferite e della grazia. Sebbene la nostra vita si sia ridotta a una teoria di frantumi inservibili o a un coacervo di gesti sbiaditi, di parole disperse, di segni caotici, Nadia testimonia ciò che resiste al disfacimento della modernità, allo sbandamento degli uomini ormai privi di fede nella natura divina del mondo perché “accecati d’orgoglio”: nei suoi testi respira all’unisono con quei piccoli paesi “dove tutto è dato con fatica e goduto con la sapienza di chi sa che può essere tolto”, si rispecchia nella fedeltà al passato delle “madri di montagna”, sa ritrovare la “bellezza fertile” della sua infanzia, sa percepire “il gorgoglìo delle erbe” o il ronzio “interiore” di un’ape in volo, e in essi il “profilo d’un bene che si ricrea / continuamente”. La forza primaria dell’opera della Scappini è la coscienza “etica” del lavoro necessario a far vivere il linguaggio: nessuna parola abbandonata a sé stessa può aderire davvero alle cose, può raccogliere e far fiorire i semi, i segreti, le linfe della realtà. Soprattutto le parole della poesia richiedono un lavoro attento e tenace di potatura: come il vignaiolo coi suoi tralci, il poeta deve tagliare via l’inutile, l’eccessivo, il ridondante: deve sfrondare i troppi aggettivi, deve eliminare il già detto, la “paglia secca” e i grappoli raggrinziti delle idee superflue o delle immagini mentali. La poesia nasce dal rigore, dalla pazienza artigiana e dalla capacità di ascoltare, osservare, soppesare con spirito flessibile ogni forma, ogni evento, ogni creatura: “ogni vibrare / di foglie, d’insetti, di uccelli” come “ogni passar di vento, anche leggero”: ogni fremito delle piante come ogni spasimo, ogni battito, ogni sospiro della terra e del cielo, del corpo e dell’anima, del visibile e dell’invisibile. Ascoltando e osservando, Nadia dimentica sé stessa, svuota il nido dei pensieri per aprirsi alla gioia semplice dell’esserci, alla naturalezza del mistero: liberata da ogni atto della volontà la sua voce diventa pura accoglienza, abbraccio al mondo, condivisione dello stupore di esistere. In quei momenti ciò che sa offrirci è una specie di nutrimento sacro, una parola ricca, come il “brodo di natale”, del gusto impareggiabile dei doni immeritati, del sapore lieve e inebriante delle cose colme di grazia.Tutta la poesia di Nadia Scappini tende alla preghiera: ondeggia e s’increspa inseguendo la verità che si annida tra le pieghe degli incontri, si flette verso l’umiltà della terra e scatta per imprimere alle parole un movimento ascensionale, per gettarle verso il cielo dello spirito, verso il non-luogo delle rivelazioni. Questa tensione si schiude a momenti epifanici, a isole di luce o a “fessure” d’alto nitore ma non può mai bloccarsi in qualcosa di compiuto, di chiuso, di perfetto in senso platonico. L’etimologia di “preghiera”, ci ricorda la stessa Scappini, rimanda a precarius: la preghiera non è mai il campo delle certezze ma la messa in gioco totale della nostra fragilità. Tanto più precario, appeso al filo friabile dei nostri limiti, è l’atto del pregare quando a tentarlo è un poeta, perché, come aveva già affermato, nel primo Novecento, l’abate Henri Bremond nel suo celebre saggio Prière et poésie, la poesia può avvicinarsi alla condizione della preghiera in una specie di curva asintotica ma non può mai raggiungerla se non in modo relativo o parziale. Queste cruciali intuizioni nutrono da cima a fondo la presente, intensissima raccolta Preghiere imperfette. Diviso in tre parti – del nostro andare, del tempo e l’oro dei giorni –, il testo ci parla ancora, anzitutto, della sete d’assoluto che innerva la vita dell’autrice giunta alla vecchiaia: per quanto il tempo a lei rimasto sia sempre più simile a un territorio sovrastato dal senso dell’incompiuto, dall’impressione di aver smarrito qualcosa – chissà cosa –, il desiderio di dialogare con l’invisibile o di “curvare le parole / verso un altrove” resiste alla fatica dei giorni, al peso di dover attraversare la realtà tra angosce, paure, vertigini e “misure sbagliate”. Proprio ora, di fronte allo “strano, doloroso confinamento” a cui ci obbligano inedite malattie, di fronte alle perversioni di cui pullula la società umana, è il momento di “tessere tele incantando / l’invidia le vacue astrazioni i cammini / rigonfi di glorie improvvise”, è il momento di tentare nuove preghiere a Dio – poco importa se con parole intrise di “inadempienze”, “distanze” e “intemperanze” – affinché non ci lasci disperare. Un compito arduo (non lontano da quello che Dietrich Bonhoeffer seppe riconoscere nelle lettere dal carcere come il compito essenziale di ogni cristiano negli anni più sinistri del Novecento) è quello che Nadia pone davanti a sé come l’obiettivo di fondo delle sue preghiere imperfette, dei suoi versi appassionati e tremanti: tentare di estrarre luce dal buio; opporre all’assurdo della storia (all’“avido potere”, al “disumano delirare che distrae” i popoli da ogni verità) una serie di segni vitali, di vessilli intrepidi di speranza, di gesti rischiosi di bellezza; testimoniare, partendo dal qui e ora (dalle paludi di menzogna e di male entro cui gli uomini annaspano), che la poesia del divino e dell’umano – del divino nell’umano e viceversa – è ancora possibile se ci volgiamo a Dio con coraggio (“fammi da qui, da questo punto oggi / tanto oscuro, proprio da qui aprire un nuovo canto”). Se le nostre preghiere sono spesso, ormai, solo parole che “cercano ossigeno guizzando come fiamme / tra i cumuli di sterpaglie”, solo brividi o forme dell’indicibile, occorre “un perimetro di silenzio”, occorre che ci spogliamo di tutti i desideri e le ansie perché nel nostro bisogno di pregare rinasca “quel trasalire che accende e infiamma la pietà”, quella disponibilità a offrirci nudi all’altrove che potrebbe condurci ancora, tra i sogni e il sangue, a “sfiorare la beatitudine” dei santi, a ritrovare l’annuncio della salvezza anche soltanto nella luce di un’alba o in una campanula fiorita da uno smottamento del terreno. Tornare sempre, di nuovo, a osservare i bagliori intermittenti e ad accogliere i battiti segreti del mondo, spiando in essi le tracce della grazia, non è comunque possibile, ci dice la seconda sezione di Preghiere imperfette, senza aprire l’anima alla totalità del nostro essere nel tempo, senza nutrire l’attenzione per il presente di frequenti ritorni al passato. Come una tavolozza illuminata, insieme, dalla meraviglia cangiante dei maestri impressionisti e dalle folgoranti epifanie di Proust di fronte al flusso acquatico del tempo, la scrittura di Nadia si schiude ora a una serie di memorie infantili o adulte ondeggianti tra figure, tinte, silhouettes campestri di radiosa magia: cieli stellati da lei contemplati da piccola d’estate lasciandosi inebriare dal profumo delle stoppie o dal “calore che saliva dai mattoni dell’aia non ancora raffreddati”; una grande acacia che era bello abbracciare quando nessuno la vedeva, accordando il proprio respiro al suo; robinie e olmi, oleandri e sambuchi, tigli e basilico, pomodori e pesche… L’anima assetata di vita si aggira tra simili immagini aspirandone la forza seminale, il pathos erotico, la “linfa ubriaca”: nella delicatezza degli alberi, dei fiori e dei frutti c’è “un nonsoché” di perentorio, “un sussurro senza condizioni”: al fuoco di questa pura, miracolosa energia anche i gesti della vita domestica (“le faccende quotidiane gli intrecci di parole / necessarie, anche banali”) sembrano rigenerarsi in una luce diversa, mentre la “casa” (archetipo primo del nostro bisogno di un fondamento) rifiorisce nei versi di Nadia come “una voce remota” ma sempre viva, come “un torrente a lungo contenuto che scava / ricerca rivuole la sua strada prima che la nebbia copra / le cose”. Se la sezione iniziale di Preghiere imperfette si riversa nella seconda con un movimento fluente, in modo altrettanto spontaneo la seconda si schiude alla terza, l’oro dei giorni – dedicata da Nadia a Tullio, l’uomo della sua vita –, perché il “nodo” cruciale di ogni rapporto vivo col tempo e con le radici dell’anima è l’amore. Muovendosi con la leggerezza di una farfalla incantata e con l’ardore rapinoso di una sciamana dei segreti del cuore, di una conoscitrice dei doppi, tripli, quadrupli fondi – delle carezze e delle voragini, degli intrecci e delle sconnessioni, delle frane e delle impennate – presenti in ogni autentica storia di coppia, qui la Scappini esplora il proprio matrimonio ricavandone una specie di romanzo nel romanzo o una serie di toccate e fughe per archi, una sequenza di sonate da camera. In Come dire dell’amore (da cui l’oro dei giorni riprende alcune liriche con qualche variante) l’autrice aveva già suggerito ai suoi lettori quanto sia difficile parlare dell’amore in un’epoca in cui i linguaggi vacillano fra “il poco detto” e “il molto udito”, cioè tra l’insignificanza e la logorrea. In una delle liriche iniziali di Preghiere imperfette, però, Nadia ci dice che, se sappiamo ascoltarle, palparle e pronunciarle con la cura che richiedono tutte le cose e le creature preziose, le parole sanno rivelarci sempre nuove ricchezze: “cantano contano pesano le parole / bucano la superficie dei giorni / sono pietre aironi sono creature // fanno sognare fanno soffrire / (…) sono / riverberi attese preghiere / silenzi arresi speranze paure / sono lamento spasimo affanno // sanno fare la ruota al sole incantare la luna / benedire ogni seme che ingravida la terra (…)”. Consapevole della forza delle parole come un violinista può esserlo delle chances, non solo fisiche ma spirituali, del suo strumento, la Scappini affronta di nuovo il tema infinito dell’amore squadernandolo nel recto e nel verso, mostrandone sia la natura simile a quella dei sogni sia il corpo striato dalle memorie come da dolci e strazianti ferite, evocandone la trama di momenti perduti e le radici resistenti come forme dell’eterno. L’amore tra due coniugi fedeli alla naturalezza e schiettezza dei sentimenti, sempre legati alla meraviglia e al pudore dei loro primi incontri ma capaci di accettare la necessità di lasciar fluire e mutare negli anni il loro rapporto, non immuni da momenti d’incomprensione e da pensieri amari ma sempre in grado di ritrovare, attraverso l’esercizio della pazienza e del perdono reciproco, il “senso rinnovato” del loro stare insieme, e in esso angoli di “felicità nascosta”, è qualcosa di prossimo all’inesprimibile e di profondo, d’immenso come il mare. Pochissime altre volte nella moderna poesia italiana l’amore coniugale vissuto fino all’ultima consumazione ha generato liriche così vibranti di una commozione trepida e asciutta, prive di ogni retorica sentimentale ma palpitanti del senso delle rivelazioni decisive: penso agli Xenia di Montale, alle Chroniques maritales di Attilio Bertolucci e soprattutto a Vecchia moglie di Virgilio Giotti. (Non dimentico nemmeno Rinascere da vecchi di Gianfranco Lauretano, uno tra i nostri poeti recenti più delicati e umani.) Nella struggente poesia di Giotti la vecchia moglie, “un poco sveglia” nel letto accanto al marito, sente il respiro di lui nella notte come una protezione contro la solitudine, il buio e la morte, e a questa protezione, per quanto effimera, si affida senza paura; a sua volta Nadia ci mostra quei momenti in cui “la carezza lunga dell’amore” tra gli anziani sposi diventa, a letto, un cercarsi dei piedi o assume la forma di una complicità, di una gratitudine reciproca nei “guanciali che si sfiorano”. Non importa che a volte la paura invada lei durante la notte, perché sarà dolce per entrambi ritrovarsi “nella gloria del mattino”… Come tutte le vere storie d’amore, anche questa ha in sé il seme del sacro. Spesso questi versi s’inarcano “nelle righe fitte / di una preghiera accorata” o celebrano nella scommessa dell’amore un “desiderio” radicale di preghiera. Pregare è necessario “per contrastare chi assassina i sogni”, per difendere l’amore dalle brutture della realtà, dall’avanzare dell’inverno o dal “mugolìo” della mente di fronte alle ombre. Certo sono solo preghiere imperfette quelle che Nadia e Tullio, come tutti noi, possono e potranno mormorare, ma condividerle vorrà dire per loro poter scoprire e riscoprire fino in fondo, fino al termine della notte e oltre, “la sostanza di ciò che è stato ed è”.
Prefazione