IL TEMPO DI PATRIZIA FAZZI

IL TEMPO DI PATRIZIA FAZZI

Il legame imprescindibile con le raccolte precedenti fa del libro Il tempo che trasforma di Patrizia Fazzi (Prometheus, Prefazione di P. Ruffilli) la storica prosecuzione della tematica sviluppata nel corso della sua vita, avente per elementi salienti la ricerca del bello, dell’armonico, del musicale, del pittorico, insomma di tutto ciò che artisticamente e umanamente è fondamentale. Poesia in versi liberi, trasparente, esplicita, di immediata assimilazione e comprensione, ritmica, musicale, sintatticamente perfetta. Stile originale, quello dell’autrice, che non può essere relegato ad un esercizio di maniera, stile vivo e vitale, conciliante e recalcitrante, che non scende a compromessi e va diritto alla meta, all’obiettivo prefissato. Lo fa attraverso la ricchezza di conoscenza frutto di un cursus formativo e professionale basato sulle solide fondamenta fornite dagli studi classici, integrati e ampliati da quelli relativi alla letteratura contemporanea italiana e straniera, in una costante comparazione con le varie discipline artistiche. Semplicemente: una vita dedicata alla cultura. Non meno spazio viene riservato al dolore, all’affanno, al male di vivere, che compenetrano le pagine scorrevolissime componendo un mix emblematico della complessità dell’animo umano.  Emerge chiaramente l’abilità dell’autrice riguardo alla struttura della raccolta, modulata in sezioni o capitoli dall’esplicito riferimento allo spartito musicale: ‘Preludio’ (Fino all’anima); ‘Prima danza’ (Là dove il cuore); ‘Seconda danza’ (Il respiro del mondo); ‘Terza danza’ (Alla soglia del bello); ‘Balletto finale’ (Il tempo che trasforma). E così la poetessa, consapevole del costante tormento derivante da questa vis inesauribile che è la poesia, esce per le vie dove incontra amici, conoscenti, studenti e con essi parla, ascolta, soprattutto osserva e trae conclusioni oggettive: “…Si snoda la vita tra le vie urbane / tra gente che saluti, / a cui dai la tua mano / ma non ti guarda negli occhi, / solo vede, sente, parla, / tu rispondi, ma non sei più tu davvero, / è un’altra che hai costruito addosso / e quella interna intanto urla soffocata: / è una viscera di pianto musicale, / un’armonia che nessuno vuol sentire. // E tu sorridi, saluti, anche ringrazi / per le parole che non dicono di te, / che non diranno mai, ma tu leggi lo stesso / nella fessura dello sguardo che t’invidia, / ti spoglia e ti condanna al rogo / perché hai disvelato il trucco, / rotto gli sghembi schemi / ti sei messa di traverso al mondo antico…”(La vita che si snoda, p. 32). E infine riflette sulla sua condizione particolare, di scissione interiore che è da sempre in atto nel duplice modo di percepire la realtà, essere comune, essere poetico:  “Vivere dissociata / scissa / tra il tuo mondo di parole / che esondano saettando nel buio / e portano la luce” e “il mondo degli altri / che si agita / si muove / si ripete / ti guarda come un marziano // ed esser poeta è una colpa,  / un marchio, / lettera scarlatta / aureola da cui ripararsi, // vivere scissa / urlando piano i tuoi versi / musicati” (Scissa pag.34). Esplicito e ben riuscito lo sforzo della poetessa di raggruppare tematicamente gli argomenti trattati con il risultato di una coerente analisi introspettiva. All’interno dei testi viene palesata la vocazione poetica nell’affrontare i temi basilari della condizione umana, relativamente ai quesiti esistenziali fondamentali, come il perché della vita e soprattutto di questa nostra vita sottoposta al vaglio attento e non facile a compromessi: “Sentire il respiro delle cose, / il muoversi ritmato del polmone / che nell’universo batte, / il fluire ininterrotto di cellule / in cambiamento sul filo del tempo / che ricongiunge la statua greca / al grattacielo, l’ominide al mouse / e trasforma il seme in fiore, / in bianco il grigio dei capelli, / questo ti chiedo, vita, // vita che pulsi sempre e procedi / alba dopo alba a risvegliarsi, / vita che non sappiamo vivere  / -a volte neppure riconoscere / nel suo brillare quieto – / e cerchiamo ori che non valgono, / ciechi nella luce, vediamo solo / quando tutto s’abbuia / o la clessidra cala / gli ultimi granelli…” (Il respiro delle cose pag.63). Un’ incessante osservazione del “fenomeno” nell’accezione kantiana nelle sue molteplici sfaccettature e che costituisce l’ossatura di ciò che ci circonda dall’esterno e di quanto ci pervade internamente: “C’è un senso anche in questo / frugarsi dentro a cercare parole / che dicano il rimpianto / tra disperse illusioni e trame sconvolte. // C’è una gioia che sale / goccia a goccia stillata / anche in questo varcare la linea / di un giorno lontano / con la pelle che scoppia e si accende / di tenerezze rinviate e segrete…” (C’è un senso pag.51). Osservatrice profonda Patrizia Fazzi: e questa sua qualità viene confermata dalla fisiognomica dello sguardo, quello della bella foto in Quarta di copertina, che denota la severità e l’acutezza con cui essa ricerca minuziosamente il bello fino a tentare la via della perfezione formale della sua opera. Anche le categorie dello spazio e del tempo, che delimitano e incorniciano l’esistenza, vengono accettate nella rassegnazione della limitatezza umana: “Viviamo in un tempo sospeso, / assopiti e storditi, / in dilatate distanze, / in un silenzio di gesti… // …messi di fronte all’assurdo / del nostro sentirsi immortali, / scopriamo il nostro essere / fragili fogli staccati dal calendario” (Un tempo sospeso pag.71). C’è un tendere all’espansione nei testi che, pur mantenendo un equilibrio armonico, scalpitano alla ricerca di un valore assoluto sul piano estetico e la pittura, come le arti in genere, sono interpretate per mezzo di versi che ci accompagnano in una galleria lirica sviluppata nella ‘Terza danza’, sia nelle poesie dedicate alla musica (Alla soglia del bello, p. 81, La dolcezza e l’armonia pag.83, Dolce è perdersi, p.85), sia in quelle dedicate alle sculture di Aceves (E’ ruggine che brilla pag. 94) o ad altri artisti antichi e contemporanei, da Piero della Francesca (I levrieri, p.89) a Walter Valentini (La notte e la sfera, p. 97), fino al mistero della natura (Nautilus fossile, p.88) e della architettura (Il castello di Poppi, p.86).  Si giunge quindi all’ultima parte, ovvero al Balletto finale del Tempo che trasforma. E’ qui che l’ineludibile scorrere del tempo, che pervade tutta la raccolta, si riassume nel pensiero poetico, con le sue riflessioni, le domande poste a cui non è possibile rispondere. Il tempo scorre e tutto travolge, il Panta rei è devastante e vorremmo fronteggiarlo astenendoci almeno per un attimo, per una notte “in un amplesso nell’oblio del sonno” come affermato nella lirica Si affaccia all’alba (pag.109), a mio avviso la più bella della raccolta. In quest’ultima sezione, l’autrice ricorre alla saggezza antica e di fronte ad un così grande mistero, orazianamente, non si può che affrontare il quesito con la necessaria rassegnazione circa l’impossibilità di oltrepassare i confini della natura umana. “Sentire lo sgocciolare del tempo, / appiattirsi gli scalini dei mesi, / chiedersi invano il numero / dei giorni rimasti,  / (‘Scire nefas’, dicebat Orazio) / e capire che il nostro viaggio / non è più un salire / ma scendere / la scala vitale… // … Che cosa rimane del poco / ma conquistato ‘sapere’? / una goccia brillante d’oceano / o un miraggio? / Dissolvenza che resta, forse, /nel cuore di altri, parole scolpite…” (La scala vitale , p.116). Allora viviamo il tempo che ci viene offerto, che ci trasforma, ma con una non celata speranza che un futuro c’è e ci conterrà. Pertanto, come per Orazio (“omnis non moriar”), la poesia vera non morirà, ma oltrepasserà la soglia di Libitina.

Evaristo Seghetta

 

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