LA POESIA DI FERNANDA ROMAGNOLI di Paolo Lagazzi
Quale forma di cecità ha finora impedito ai lettori italiani di comunicare con le creazioni di una poetessa grandissima come Fernanda Romagnoli (La folle tentazione dell’eterno, Interno Poesia) nella stessa nudità di spirito, con lo stesso ardore, con la stessa dolorosa passione da essi riservata alle poetesse supreme della modernità, dalla Dickinson a Wisława Szymborska, da Marina Cvetaeva ad Anna Achmatova, da Elizabeth Bishop a Sylvia Plath ad Alejandra Pizarnik? Non sono ancora riuscito a trovare una risposta vera a questa domanda, per quanto continui a pensare che immensi sono stati i disastri che l’ideologia del modernismo ha prodotto sui gusti dei lettori spingendoli a cercare verità e bellezza nell’artificio, nell’oscuro, nel deforme dei progetti letterari a freddo, impedendo loro, troppo spesso, di entrare in sintonia con la vita delle parole percorse, scosse e plasmate dalla forza dell’anima. Qualcosa è stato fatto in questi ultimi trent’anni perché la poesia della Romagnoli uscisse da quella nebbia d’indifferenza che la circondava quando, grazie a Bertolucci, potei incontrarla per la prima volta: ricordo in particolare una riedizione ampia ma parziale dei suoi componimenti, Il tredicesimo invitato e altre poesie, realizzata da Donatella Bisutti nel 2003 per Scheiwiller, e un convegno di studi organizzato a Parigi nel 2016 (gli Atti, a cura di Giorgia Bongiorno, Laura Toppan e Ambra Zorat, sono apparsi nel n.161 di “nuova corrente”). Ma, come tutte le grandi opere che hanno tardato a lungo a essere riconosciute, anche questa è ancora in attesa di chi, liberandola per sempre dal sospetto di essere solo un caso letterario, la radichi nel sentire comune come un’opera classica, imprescindibile.
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Nata a Roma nel 1916 da una famiglia piccoloborghese, Fernanda Romagnoli si diplomò alle magistrali e in pianoforte all’Accademia di Santa Cecilia. Sposatasi con Vittorio Raganella, militare di carriera, visse sempre accanto a lui e alla loro unica figlia Caterina lavorando come maestra elementare. Gravemente malata per molti anni, morì nel 1986. Solo quattro libri apparsi fra il 1943 e il 1980 (Capriccio, Berretto rosso, Confiteor e Il tredicesimo invitato) raccolgono le poesie da lei pubblicate in vita. Altre poesie rimaste inedite o sparse tra riviste sono state raccolte, postume, nella breve silloge Mar Rosso (1997) e nell’edizione curata da Donatella Bisutti. Sebbene poeti come Attilio Bertolucci, Carlo Betocchi e Vittorio Sereni abbiano creduto in lei e si siano adoperati per promuoverne l’opera, Fernanda Romagnoli è sempre rimasta confinata nell’ombra o nell’oblìo. La folle tentazione dell’eterno, la più ampia scelta dei suoi versi finora apparsa in Italia (da poco edita da InternoPoesia, curata da me e dalla figlia della poetessa, Caterina Raganella, accompagnata da una nota filologica e da una bibliografia allestite da Laura Toppan e Ambra Zorat) vuole contrastare quest’ombra e questo oblìo.
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Una tra le scoperte supreme della poesia mondiale, da Dante a Iosif Brodskij, è il legame inestricabile tra la creazione poetica e il sentimento – non occasionale ma radicale, “metafisico” – dell’esilio. Questo sentimento ha, da Emily Dickinson in poi, una declinazione tutta propria nell’ambito della poesia moderna concepita da donne, una declinazione tanto evidente quanto sfuggente a tutte le formule e le categorie ideologiche. Anche l’opera di Fernanda Romagnoli ne è segnata fino al midollo. Come la sua amatissima Dickinson, Fernanda sa riconoscere la sfasatura, la distanza incolmabile dalla propria verità spirituale e umana non solo contemplando il cielo, il lontano, le albe o la luna ma in luoghi e fra oggetti minuti, minimi: di fronte a un “tetto di bandone / che s’aggrappa a un fantasma di pianta”, tra “i robot smaltati di cucina” oppure osservandosi allo specchio “in una scolorita veste rossa”. Tutto ciò che è piccolo e fragile muove l’attenzione, il dolore e la pietà della poetessa. L’esilio è qui, radicato nel corpo, nei gesti, nelle crepe che incrinano i momenti, i sogni d’amore o il nostro volto invecchiato. Eppure, se potesse scegliere come e dove morire, Fernanda (così ci confessa in una poesia forse scritta nell’ultima parte della sua vita) vorrebbe proprio un luogo segnato dallo stigma più squallido, più anonimo dell’esilio: uno di quei fossi di periferia in cui a volte sono scoperti cadaveri di prostitute o di altri reietti. Meglio, molto meglio quell’esilio piuttosto che le scatole di cemento che ci soffocano in città… meglio perdersi con “le scarpe tra le foglie” e il corpo “in custodia alle radici”…
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Forse, accettato sino in fondo, vissuto come una prova irrefutabile delle nostre colpe, un giorno l’esilio potrà rivelarsi come la forma suprema della nostra libertà? Nutrita da un doloroso, scottante sentimento cristiano, questa idea sacrificale è il perno paradossale attorno a cui ruota molta parte dell’opera della Romagnoli: penso anzitutto a Libertà, una delle grandi liriche del Tredicesimo invitato. Questi versi evocano nei tempi verbali della fiaba o del mito (il passato remoto, l’imperfetto) un sogno, o meglio una visione che ha il respiro di quelle di Blake: l’ascesa dell’anima di Fernanda al non-luogo dove terminano lo spazio e il tempo, a quell’“estuario” impensabile dove tutte le umane misure perdono ogni senso: “Non v’era qui altro metro che l’eterno. Non v’era riva fuor che lo splendore”. In questo splendore l’anima di lei, “arsa viva”, si crede per un pò sciolta da sé stessa, dalle ombre del passato, dalla memoria di ciò che è stata la sua vita. Perché, allora, si sente “appena appesantita / dalla parte del cuore”? Cosa continua a vibrare in lei se non l’eco straziante del suo esilio terreno perduto e di coloro che l’hanno condiviso con lei, dei loro occhi inermi, delle loro labbra e mani, della loro povera carne? In bilico tra il bisogno disperato di perdersi finalmente nel puro splendore divino e i tremanti ma tenaci riverberi della condizione umana, Fernanda capisce d’un tratto di non poter altro che rifiutare la purezza assoluta, di non poter altro che ridiscendere incontro alla struggente povertà della vita: “Io sono stanca d’essere tutta pura. / […] / E bianca come una monaca che abiura / mi svesto di te, libertà”. “Svestirsi” del sogno della libertà suprema se esso significa negazione della nuda verità del mondo, di quella povertà creaturale che è intima, sacra bellezza: disertare da ogni forma astratta di purezza, abiurare a ogni idea platonica della verità: in quale altro modo, si chiede spesso Fernanda fra le righe dei suoi testi, un’anima può aspirare a “un po’ di luce vera”, quella luce che si annida tra le ferite e le umiliazioni delle creature, quella luce che è il dono umile e sublime di Cristo?
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Figure sacrificali, striature di sangue, soffi agonici intimamente legati alla Passione di Cristo attraversano il mondo di Fernanda come scie, tracce, segni di un dolore misterioso ma forse necessario alla salvezza del mondo dalla morsa del vuoto, del nonsenso, della morte. […] In ogni alba è come se si ripetesse il sacrificio e la difficile vittoria di Cristo sulla morte: la notte dev’essere “assassinata” per poter risorgere circondata da “lunghissime bende” fluttuanti (Mandorli). Dal Vangelo di Luca all’Apocalisse, da Ildegarda a Tommaso d’Aquino una lunga tradizione scritturale e sapienziale, certo nota alla Romagnoli almeno nelle sue linee essenziali, ha legato in un intreccio simbolico inestricabile l’immagine dell’aurora alla figura del Cristo Sole vittorioso sulle tenebre del male. Per Fernanda la rinascita del sole è sempre una prova ardua per chi si immedesima nel suo mistero doloroso e gaudioso: “quando al sudario del cielo / l’oriente getta una rosa / riconsumando il supplizio / della resurrezione della carne”, lei si scopre inerme, sgomenta e bisognosa di condividere con qualcuno il suo stupore e la sua vertigine (“dammi la tua mano da stringere…”) perché proprio allora sente l’“assedio” di Dio, il suo impossibile richiamo dall’Altrove, il suo imporre al “povero corpo” mortale “la folle tentazione dell’eterno” (Quando). Investendo come un fuoco o un flusso abissale di sangue la sua umanità, questo richiamo la lascia tramortita, inchiodata ai suoi limiti, “confitta dal limo terrestre / come uno spino”. Ma nello “spino” non brilla forse, ancora, un bagliore della luce di Cristo?
La morte e resurrezione di Lui è un evento cosmico teso fra cielo e terra di cui pochissimi poeti hanno saputo esprimere l’immensità con la stessa potenza visionaria della Romagnoli. Un’altra poesia del Tredicesimo invitato dedicata all’alba (l’ora da lei prediletta) riecheggia sia quel passo del Vangelo di Giovanni in cui Gesù annuncia il proprio ritorno agli apostoli dicendo loro che, se adesso sono tristi, saranno lieti come la donna dopo il parto, sia quel brano, non meno mirabile, di Paolo che ci mostra l’universo in procinto di essere trasformato dalla Redenzione come attraverso “le doglie” di un parto, ma sa riplasmare fonti di tale altezza in una tessitura d’immagini tanto spasmodiche, palpitanti e convulse quanto originali, icastiche e sfolgoranti: “[…] Era là fuori / la notte in piena doglia; / si sforzava di uscire dalle grotte / di sé stessa. / Affannosa. Le esultava / l’ampio addome di brividi, il madore / ne intrideva le stelle. / Fu come / per una donna: trattenne / un lungo attimo il fiato. E il suo dolore / s’assommò, sangue ed anima, in un grido / – lassù – di rosa.”
Da: Fernanda Romagnoli, La folle tentazione dell’eterno, a cura di Paolo Lagazzi e Caterina Raganella, nota filologica di Laura Toppan e Ambra Zorat, Interno Poesia 2022. Per gentile concessione.