LA GRAMMATICA DEI SENTIMENTI IN RAFFAELA FAZIO

 

LA GRAMMATICA DEI SENTIMENTI IN RAFFAELA FAZIO

La grammatica dei sentimenti si struttura a partire dalla relazione primaria madre-figlio, il più antico e fondante dei legami umani. Quello che nasce essenzialmente come un legame fisico e simbiotico, di contenimento prima e di stretta prossimità dopo la nascita, si evolve alla comparsa nel bambino dell’uso del linguaggio: “Ma esperta mi scopro del lutto più dolce/quando perde la voce/la prima peluria del fiore/e di colpo diventa parola/turgore crescente di frutto.” Ecco allora che Raffaela Fazio, due volte madre e arrivata alla soglia dei cinquant’anni, ha deciso di raccogliere le poesie scritte per i figli in una silloge a memento della stagione dell’infanzia, prima che sfugga: Un’ossatura per il volo (Raffaelli Editore). Saranno dunque le parole, la parola poetica della madre che si fa espressione di una verità enucleata subito, nella prima poesia della raccolta: “non c’è altra conoscenza/che l’amore”, a farsi veicolo di relazione e, nella sua capacità di racchiudere e trasportare il significato e la sintesi di un’esperienza di vita, a farsi “ossatura per il volo” che porterà i figli fuori dall’orbita materna. Perché i figli sono (e qui si sente la lezione di Gibran: “Tu sei l’arco che lancia i figli verso il/domani”) le frecce lanciate verso il futuro: “Io sono legna e tu sei freccia. / Tu l’ago e io la stoffa. /Tu sei il colore che si proietta. / Io sono il suono che cerca un anfratto.” Figli come anelli di una catena destinata a perpetuarsi, a partire da un patrimonio comune: “Ma la forma buffa/dei polpastrelli/è in noi la stessa. / Ricorda amore: quando è domani/ ricrea la vita. / E portami un poco. /Un poco portami /sulle tue dita.” Così l’autrice alla figlia Juliette, in un implicito dialogo a tre che prevede l’alternanza fra quest’ultima e il fratellino David. E se molto bene è descritto, nei versi per Juliette, il “corpo a corpo che caratterizza il rapporto madre-figlia nella sua originaria indifferenziazione” (Recalcati), ad esempio in Come te o in una memorabile poesia che restituisce tutto l’incanto di una totale devozione reciproca: “Nel buio vicina /come in una stiva /ti scopro sveglia / mia clandestina. / Non m’interpelli /solo parlotti piano / mentre mi tocchi /naso guance capelli / quasi impastassi in sordina / un drago di farina” (dove il drago, incarnazione della potenza materna, è una figura friabile plasmata da mani infantili), nelle poesie per David sono presenti icone (“piccolo forziere incustodito”, “ponte levatoio”) a riprova della consapevolezza che “nel legame madre-figlio l’eredità avviene sempre sullo sfondo di un’assenza,  di una discontinuità, di una differenza già costituita” (sempre Recalcati, che in Le mani della madre ha analizzato e raccontato la maternità nell’epoca contemporanea). Poesie improntate a una grande consapevolezza, dunque, nel loro indagare la maternità come punto fermo della vita, esperienza cardine che, se da un lato consegna inevitabilmente ad un sentimento di insufficienza, dall’altro è fonte di saldezza e coraggio. Anche quando si rivolgono a entrambi i figli, nel sentimento di un medicamentoso compimento esistenziale (“Questa notte /allineata al mio destino /in mezzo a voi ho dormito. /Non ho sentito il mio fiato / ma un’alta marea ha rapito /il dolere del fare / la paura di un buio non mio. /In più lenta rotazione /mi ha visitata chiara la Fortuna / là dentro il vostro odore, / Sole e Luna”) e nella serena premonizione di un inevitabile distacco. Il tempo è il protagonista principale di queste liriche, nel suo trascorrere che si mangia il compimento dei giorni e i nostri conseguimenti, trascinandoli verso l’oblio… Ma la poesia, se da un lato fissa in piccoli apologhi, spesso con un andamento a filastrocca, momenti del quotidiano familiare (dove traspare la tentazione di fermare il tempo buono delle corrispondenze affettive fra cuccioli e madre): “A terra l’uno, l’altra in piedi/a guardia e ladro/ lo sparo, la ferita. / Ma quanto è leggera con noi /questa Madre di infiniti /figli / se altrove non è gioco ma vita”, dall’altro si fa espressione del senso di ineluttabilità per ciò che vivendo passa e si realizza: “E invece ogni momento /va steso, non sottratto /al suo destino: /va dato al tempo /quando il tempo /è ancora fresco. /Così /sul fondo che ti spetta /anch’io devo lasciare /che tu cresca”. Una salda tenerezza impronta questi testi, e tradisce la volontà di lasciare un’impronta nell’animo dei piccoli destinatari. Ma “La vicenda materna si caratterizza per il limite che la madre progressivamente oppone al suo totale possesso del figlio e che traduce il dominio in responsabilità”, come ha scritto Silvia Vegetti Finzi in un altro memorabile libro sulla maternità, Il bambino della notte; non per nulla si parla in questo senso di “Etica della maternità”: “l’amore materno non è sragione e prevede l’indipendenza del figlio come condizione della realizzazione di entrambi (…) La lontananza poi non si trasforma in abbandono perché non sospende il coinvolgimento responsabile della madre, la sua disponibilità all’accoglimento”. Tutta la complessità del ruolo materno è racchiusa in questo piccolo e prezioso florilegio, che testimonia il presente e farsi-in-atto della relazione e prefigura la modalità che assumerà in futuro: “(…) Ora non so /se ci sono oppure no /dietro l’oblò /della vostra astronave /o nell’ultima rete /dei pensieri delle nove. /Di sicuro /io ci sarò /ma voi sarete altrove /quando vi innamorerete.” Così come è chiara, fin dall’inizio, la separazione delle rispettive identità, fin dalla poesia di apertura che condensa, con poche, icastiche immagini, gli intenti della raccolta: “Non posso che esser questo /per intero: tunnel di vento /scavato e riscavato nel presente /franoso e puntellato, opera d’arte.” La maternità come forma più stretta di contiguità proiettata verso la separazione: “Sei vicina /come un paesaggio in corsa /verso la mia finestra (…) La solitudine /è questa intermittenza /che anche a te spetta. /E io non posso /che tenerti stretta /a distanza.” Luci e ombre della maternità attraversano la raccolta, tanto gli aspetti lieti e di leggerezza quanto quelli problematici; la vita è fatta anche di “Materia oscura”, che sia la paura per i cani in agguato dietro a un cancello durante una passeggiata in campagna (“Un giorno avrete /un altro muro di cinta /sentirete /che contro vi si avventa /il dubbio. / Sarà d’amore o di morte. / E anche allora /ne conoscerete il fondo /appieno /solo alla svolta. /Anche allora /cercherete una mano.”) o sia lo straniamento (“Vi vedo e voi vedete/questo viso /come una casa sfitta”) prodotto dalle incomunicabili difficoltà del mondo degli adulti (“Non tutto /ciò che si ama /si redime. /Non tutto va accolto”). Però, se è vero che l’irruzione di un figlio implica, per la madre, “una ricostruzione di sé, un confronto con la vita e con la morte. Il tempo biologico viene a intercalare il tempo biografico evidenziandone drammaticamente i limiti. Alla signoria di se stesse subentra un’esperienza di soggezione a ciò che individualmente ci trascende che muta il rapporto con la natura” (Vegetti Finzi), la parola definitiva tocca alla poesia: “oltre la morte /solo l’amore /è guardia di frontiera.”

Giovanna Rosadini

Prefazione

 

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