Carmelo
PISTILLO
Carmelo Pistillo è nato a Termoli nel 1953 e vive a Milano. Ha esordito come poeta, presentato da Antonio Porta, su “Alfabeta” nel 1982. Queste le sue raccolte di poesia: La locanda della chiglia (Corpo 10, 1986, Premio Camaiore Proposte – Opera Prima), L’impalcatura (Corpo 10, 1992, nota critica di Tomaso Kemeny, Premio Speciale Guido Gozzano), Quaderno senza righe (Lieto Colle, 2008, contenente “Lettera a Carmelo” di Milo De Angelis), I ponti, i cerchi (La Vita Felice, 2011, prefazione di Gabriela Fantato e nota critica di Milo De Angelis), Le due versioni del cielo (La Vita Felice, 2013, postfazione di Michele Miniello), Poesia da camera – Kammerpoesie (Stampa2009, 2020, prefazione di Maurizio Cucchi). È inoltre autore, insieme ad Antonio Porta, dell’antologia Perché tu mi dici: poeta? (2015, prefazione di Maurizio Cucchi, Premio Letterario Camaiore: Menzione Speciale per la Poesia italiana), che raccoglie il loro “teatro di poesia” realizzato negli anni Ottanta, dedicato alla poesia italiana del Novecento e a quella europea dell’Ottocento. Fra le sue pubblicazioni teatrali, i drammi Mabuse (2009) e Passione Van Gogh (2014, postfazione di Virgilio Patarini, Premio Alessandro Fersen per il teatro). Del 2012 è il libro di racconti Ti dico che non ho sognato, del 2017 il romanzo Un uomo a piedi. Del 2020 il suo libro-documento dedicato a Una stagione all’inferno di Arthur Rimbaud.
POESIE
da LA LOCANDA DELLA CHIGLIA
(da CAFFÈ SUL PORTO)
La Locanda della Chiglia
Sottozero il nero china
innamora. Riprenditi i minuti
e lascia la Locanda della Chiglia,
c’è un flamenco ricurvo sulla madre
e dire che potrebbe riaversi. In fretta
riunisco il mio rosso animale e m’invento.
Stasera ricorda l’estate, indosso calze di lana,
di raso, di pizzo, sono papessa sgualdrina e voce
d’ortica. Ho calpestato una carogna di strada e sono
ringiovanito. Il pallore è per i dadi scorti sul letto
della danzatrice dalle caviglie d’oro che ancora assonnata
s’aggira maestosa ma se solo esitasse labbra di lupa ti sarebbe
gemella e verrebbe a rubarti l’altro seno per essere lei, la più
bella. Dunque ascolta il tic tac delle vene scaldate, la stesura de
parto che dovremmo sognare. Oh, se appena sapessi il collirio cercato
dagli occhi, non finiresti l’intaglio da sola, senza intrattenermi sul
segnalibro, l’arte del fuoco disegnata dalla paravento, la tua chiromanzia.
da L’IMPALCATURA
(da BASSORILIEVI)
I
Il cerchio d’amore
fumata che stringe
più cavo più mondo.
Se giura una donna
si leva più seno
più figlio.
da QUADERNO SENZA RIGHE
(da CITTÀ DIMENTICATE)
II
Lei è qui, dentro di me,
mi offre i sensi, torce
il suo orizzonte.
È in ginocchio e grida
vivi, ma io piango,
e non so quanto
il mio seme cerchi
luminescenze nella sua bocca
o quanto le sue trecce
siano già corda spezzata.
Tutto è stato così lento,
la mia testa fra le sue gambe,
le mie labbra sulle sue.
Siamo saliti e scesi
su ogni errore.
Come acrobati nell’elegia,
come acrobati nell’elegia.
(da BOLGHERI)
X
Com’è possibile la poesia
nello scorcio di un testamento,
la bellezza e la cattedrale
nell’istante della sua notte?
da I PONTI, I CERCHI
1
Il dolore era già
prima di noi,
sconosciuto alla voce,
alla parola.
Sulla cima era
povero il grido,
un alfabeto ingolato,
senza forma,
guardato dai falchi
assiepati per bere.
2
Non poter essere che così,
assidui nell’ombra,
con gli autunni caldi
nelle strade
riscoperte dal cielo.
Allora tutto deve
finire, fermarsi
in un sogno.
Solo i nomi dei morti
possono chiedere ancora
di tornare creature.
34
I poeti non sanno leggere,
accelerano. Li vedo correre,
inciampare e rialzarsi
senza respirare.
I poeti vanno a capo,
sono atleti del suono
spesso senza voce.
Basterebbe una riga,
una riga lunga soltanto
per unir l’universo,
ma il poeta non sa
che chi ascolta
è il rivale,
è l’autore dei suoni
che gli ruba la scena.
Per questo non si cura
del rumore dell’altro,
che con faccia da ladro
decisamente mangia pistacchi.
da LE DUE VERSIONI DEL CIELO
(da LITURGIA DEL FRATELLO)
I
Adesso che sei vinto per sempre
che lasci a me la tua versione del cielo,
cadendo al di là delle righe infelici,
anch’io esco dai libri e ti seguo
o forse non vedo più che ogni stella
è rivale di luce, tra le carte di un morto
ogni parola spiegata una curva sul buio.
Il mare e la tregua
Eri abbracciata all’estate, e ridevi.
Volevi nuotare, dimenticare la riva.
Più che un richiamo dell’oro al mattino,
l’orizzonte risucchiava la punta rovente
del tuo corpo, senz’ancora e vela.
Ne aveva riconosciuto l’agilità e la forza,
la matrice terragna e le labbra serrate.
Dietro, il canto dispiegava la frase,
la domenica e i baci.
Eri sola ma non volevi trascinarti
a notte. Col nome del tuo profilo
sull’acqua, in fondo allo scenario di schiuma,
e senza abbandonare la neve,
avevi visto muoversi una trasparenza ferita.
Ancora una bracciata, pensavi,
la città senza morte è laggiù,
e quella lacrima sarebbe tornata tua.
da POESIA DA CAMERA (Kammerpoesie)
(da FIORI NEL CAMERINO)
L’ultima diva
Sei rose soltanto,
solo metà destino tra gli scogli.
Ridendo, mi concedi
l’amore nell’acqua,
la tua bocca poi accoglie
il monologo del fiore.
Hai l’avidità dell’attrice,
e fai ombra al mio dolore.
Infine a Camogli fingi
l’estate; a Parigi
mi baci. E a teatro mi lasci.
“Ah, i segni! Ah, la Legge!”
I passi solenni.
L’amore mio resiste al sipario
anche dopo l’ultimo atto.
Ma tu non sei veramente
quel che sei e dici, non hai
un titolo davanti alla porta,
né un vero nome nelle radici.
Con la sigaretta in bocca
disegni più di un secolo col fumo
per staccarla – ingrata – dalla mia.
Non vuoi sentire la febbre salire
dal ventre, né l’ansia della madre
battere in testa e gridare: Dio mio,
ho un figlio!
Hai voglia e fretta di partire
per sgranare altri canti
nell’egemonia estetica
dei tuoi gesti sontuosi;
e modulando la voce
più roca del mondo,
tornare nel tempo immutabile
che più ti assomiglia.
Forse stai morendo
o non esisti davvero.
Solo sei rose secche
tra i sassi, appena
un pezzo di strada
per questo repertorio in fiamme
di cui sei autrice sul palco.
È lì che smonti la trama
e inizi a slegarti. E come
un fiume che scorre
lontano dal mare,
te ne vai dalla scena
mentre dico ti amo.
(da RITORNO A BOLGHERI)
Un salto di luce
Noi che guardiamo il mondo
rasentiamo tetti e fori
e binari di fortuna,
noi in cima e sotto
ogni cosa, quando tutto,
dopo essersi alzato in volo
nel buio più elevato,
ricade davanti al limite
di antichi alfabeti. Con i segni
di un’emozione musicale
rimbalza allora
un altro codice della vita.
Ma la luce aspra
che entra sotto le palpebre
nulla dice dell’eternità,
né sorveglia l’estate
e la nostra folgorante, e quasi
insondabile presenza.
Biografia della sconosciuta
per Mario Tobino
Ha l’anonimato del lenzuolo bianco
la biografia della sconosciuta.
Seduta al banco delle sue verità,
questa bionda cresciuta sui ponti
ricorda un’eroina stralunata.
Vorrebbe di nuovo fuggire
ma ignora se vendere l’anima
sporgendosi dal balcone, o
legare la matita alle mani
per scavare nella sua reclusione
come una santa che sale e scende
fra i dissesti del mondo.
Pure questo vuole dire e fare
ma non sa a quale povertà
offrire i suoi inesauribili
accenti, il suo golfo mistico.