RUFFILLI: L’INCESSANTE RAPPORTO CON “LA RESISTENZA DELLE COSE” di Alberto Casadei
Con Le cose del mondo (Mondadori) Paolo Ruffilli arriva a un punto altissimo della sua parabola poetica, che in qualche misura è qui riassunta e sublimata. Non sarà quindi inutile ripercorrerne innanzitutto alcune tappe, prima di arrivare a esaminare quest’ultima raccolta. Ai suoi esordi, nei primi anni Settanta, la poesia di Ruffilli si disponeva lungo un asse che, pur partendo da eventi storici riconoscibili (per esempio i conflitti del periodo della guerra fredda), conduceva verso territori quasi ermetico-surrealistici (“scoppia / in stormi di anitre / la notte decapitata”: La quercia delle gazze, Forum 1972). Per vari anni questa cifra sembra l’unica adatta a difendere un’idea di poesia lontana dalle neoavanguardie eppure fortemente intrisa di sperimentalismo linguistico: già si distinguono i tratti che portano Ruffilli a trovare in un ritmo binario e fisiologico, sulla scorta di Benveniste e di Barthes, la catena continua di sistole e diastole che dà origine al suo dettato. È un ritmo a priori, così come prima di tutto mentale è il suo percorso di avvicinamento alla realtà: nel tempo, cambiano fortemente i nuclei di interesse, ma resta ferma la modalità conoscitiva. Una svolta importante è rappresentata da Piccola colazione (Garzanti 1987), che infatti raccoglie poesie di oltre un decennio (1974-1986). Qui gli interrogativi esistenziali non esplodono più in immagini ardite e urticanti, ma vengono trattenuti nel perimetro dell’intangibilità dovuta alla scissione parole/cose: è lo stupore sul niente che deve essere detto, è la contraddizione della lingua che dà parvenza e addirittura sessualità alle cose eppure non le avvicina. E intanto però la poesia deve registrare gli scacchi di un adolescente che cresce nella sua famiglia e con gli amici, di cui vengono riportati le voci, e crea alcuni suoi fantasmi forti, alcune ossessioni (“Ne ha uccisi tanti / col pensiero”), e soprattutto aspetta di uscire da una condizione bloccata (“fermo, sotto cristallo, nudo / cova l’attesa”) per avvicinarsi a una pienezza e a una purezza solo enunciate ma irrealizzabili nella vita concreta. Su questa strada proseguiranno Diario di Normandia (Amadeus 1990) e Camera oscura (Garzanti 1992), dove è ancora fondamentale la presenza di Barthes e in specie del suo punctum per ipotizzare che una fotografia riesca a rendere materia notabile la fugacità del vivere. Ruffilli ha ormai raggiunto una piena maturità, riconosciuta dai numerosi premi ottenuti (dall’American Poetry Prize al Montale al Dessì, seguiti da molti altri), e tuttavia non vuole rinchiudersi in una maniera facile. Passano così vari anni prima che, nel 2001, esca La gioia e il lutto (Marsilio), con un’importante prefazione di Pier Vincenzo Mengaldo. Qui si concretizza una vocazione teatrale, che fa di questo poemetto una meditazione sulla vita e sulla morte in forma di passio, di polifonica compassione di vari personaggi (una madre, un padre, amici o amanti) intorno a un giovane morente per Aids. Nei consueti ritmi binari e fortemente assonanzati si estrinsecano temi forti, come quello delle metamorfosi della forza vitale, “un bene penetrato / nell’imo del più fondo / attecchito nei vuoti / più remoti, / dove resta / contro ogni furto e errore / la vita abbarbicata”. La riflessione sulla morte giunge a toccare ambiti spirituali, di una religiosità orientale (Ruffilli è ottimo conoscitore e anche traduttore di testi confuciani o buddisti) che si potrebbe definire tout court senso del limite terreno e delle possibili speranze. Il successivo Le stanze del cielo (Marsilio 2008), claustrofobico per la tematica (la dipendenza dalle droghe, tra prigionia reale e psicologica), si apre comunque a una dimensione narrativa, dove “l’ossessione per la perdita della libertà” (così Alfredo Giuliani nella sua prefazione) conduce a un percorso dentro il male subito, che addirittura ci priva di qualsiasi coordinata vitale: “Solo chi sta / nel cuore dell’inferno / sa cosa sia / l’eternità presente, / dannato nell’oscurità / più fonda, / un guanto rovesciato / nel suo interno”. Nel corso del Duemila, Ruffilli, oltre a rinforzare la sua vocazione saggistica (Nievo, Goldoni, Leopardi…) e quella narrativa (dal volume, importante e rivelatore, Preparativi per la partenza, Marsilio 2003, sino a L’isola e il sogno, Fazi 2011), ha virato verso una lirica che da un lato s’incarica di connettere ancora più fortemente le parole e le condizioni della vita, a cominciare dall’amore, interpretato in senso fisico-mentale e decisamente antistilnovistico in Affari di cuore (Einaudi 2011); dall’altro si attrezza per una disamina puramente filosofico-spirituale, partendo da posologie e addirittura consigli per la salute per arrivare ad astrazioni degne di poeti cinesi e giapponesi, come nelle raccolte Natura morta e Variazioni sul tema (entrambe uscite per Aragno, 2012 e 2014). Negli Affari, tonalità degne di Catullo si sposano con altre che rimandano a John Donne (“Adesso dormo / tutto il giorno / e cerco di sognarti: / è il modo / che mi resta / per trovarti / dentro me stesso / e farti mia”). Nelle altre due, dove fra l’altro troviamo anche alcuni notevoli Appunti per un’ipotesi di poetica, la vocazione allo scavo dietro le apparenze intercetta persino la densità delle parole: “Ha filamenti lunghi / la parola, / radiche e barbe nere / che pescano / nell’utero del tempo / tra le melme / di quel limo viscerale / che ha dato / soffio e corpo musicale / alle cose sconosciute”. Il lato esistenziale e quello spirituale della lirica di Ruffilli si legano insomma in una dimensione nel contempo biologica e filosofica, e la pagina rivela la voce di un personaggio-poeta che, continuando a sentire la sua incompiutezza, è sempre pronto ad accettare il vuoto (nel senso positivo indicato dai bonzi) per arrivare ai confini del proprio io. Tutti questi presupposti si riconoscono nella compagine di Le cose del mondo, esito unitario di un lavoro quarantennale, complanare e intersecato con quello già esposto nelle raccolte edite. Come scrive Ruffilli in una nota preliminare, l’ambizione era quella di “perlustrare il concreto mondo in cui si è venuta muovendo la mia esperienza”: dunque un’indagine conoscitiva, condotta ancora attraverso versi in apparenza cantabili ma in effetti perentori, come le gocce che scavano la roccia con la loro semplice cadenza. La circolazione continua fra osservazione-meditazione-espressione verbale (e ritmico-musicale) diventa in questo libro il motore interno della poiesis, che è etimologicamente un fare e un farsi della parola-simbolo equivalente al simbolo-realtà: non esiste dunque uno stato assolutamente puro, la quintessenza del reale, mentre si creano, nelle ‘poesie’, le condizioni per avvicinarsi a stati precisi. Sono le condizioni dell’umano-nel-mondo, il dasein o forse semplicemente il nostro unico senso effettivo, l’esplorare, con tutte le nostre capacità. Il libro delinea quindi un’esplorazione per gradi di approfondimento alla maniera delle filosofie orientali care all’autore, e di certo prende avvio da una necessità: Nell’atto di partire, primo capitolo del libro, manifesta la consapevolezza del dover guardare all’infinità esterna all’io per collocare l’io stesso in questa indeterminatezza, e per trovare quindi giusto e buono il cercare oltre il sé nel tentativo di trovarsi. Di qui conseguono accertamenti vari, di tipo etico e pseudo-precettistici (Morale della favola, sezione che presenta a una figlia opinioni e aforismi sul vivere), oppure di tipo fantasmatico (La notte bianca, che si sofferma sui sentimenti umani e sulla loro natura). Ma dopo questa fase ascendente si arriva al lungo altopiano delle poesie forse più originali e ricche dell’intera produzione di Ruffilli, quelle che stanno nella sezione eponima e in quelle successive ma intimamente connesse, Atlante anatomico e Lingua di fuoco. È inutile proporre una mera descrizione di quanto contengono: si potrebbe parlare di testi ecfrastici, con il mondo e il corpo ridotti alle loro parti fotografate (azione carissima a Ruffilli) in ordine alfabetico, da Anello a Vulva, se vogliamo un tragitto da un’immagine che è diventata oggetto simbolico a una materialità che è anche ‘origine del mondo’, e quindi di tutti i suoi simboli. A questa indagine può seguire solo un oltrepassamento del linguaggio stesso, nel tentativo di arrivare a una sorta di parola unica, pentecostale, in forma di fuoco sacro e insieme di domande inesaudite: non a caso, al termine di tutto il percorso restano ancora nove brevi e frantumati Interrogativi. Per non restare alla superficie, proviamo a seguire uno dei tanti sentieri (o meglio sinapsi) che le poesie di Ruffilli offrono al lettore. Nel cercare Il nome della cosa (e andrebbe scritto un capitoletto specifico sulle allusioni ironiche in questa raccolta) si segue innanzitutto un ordine alfabetico che colloca, senza alcuna superiorità, più o meno al centro della sezione eponima un Libro. Cos’è un ‘libro’, dobbiamo chiederci, anche se crediamo ovviamente di saperlo? È “Memoria e magazzino”, certo, ma è pure “la sorgente, / nel cuore della vita, il laccio e / uncino, il continente che addita a ruota / il divieto e la licenza, amore e disamore, / gioia e rimpianto”. Dentro ogni libro stanno gli opposti polari, quelli che da sempre attraggono Ruffilli proprio per la loro inevitabilità: non a caso qui “gioia e rimpianto”, altrove proprio “gioia e lutto”, rimandano al poemetto-passio del 2001. Tuttavia in quell’oggetto, che si presenta come materiale e simbolico senza possibile distinzione, si dice che stia “l’essenza chiusa in scatola, il puro distillato, senza più / la scoria, disossato”. Sembrerebbe una smentita di quanto si diceva sopra, quasi che appunto la forma del Libro consentisse di superare ogni difformità e dualismo, ma sarebbe un’inferenza errata. Infatti, la parte conclusiva della poesia ci ricorda che dietro tutto questo c’è un “pilota / entrato nel sommergibile che è in corsa / per il mare dei piccoli caratteri / sottratti alla deriva dal filo della storia”: quasi un cammeo di grazia e levità alessandrine, che però ci ricorda che il poeta si deve immergere in un mare di segni per salvarli con le sue storie dal loro andare alla deriva, del tutto analogo a quello che l’io-biografico sperimenta nella realtà-reale. Insomma, nell’oggetto che da sempre ha rappresentato meglio il tentativo umano di ricondurre il mondo a un’unità, appunto il Libro-Cosmo, si riproduce la stessa condizione che si constata al di fuori della sua compatta struttura: in quest’ottica, si possono forse spiegare i versi enigmatici al centro del testo, “L’ostacolo abbattuto / e infranto, nel sé volato intanto / sul magico tappeto”, che sembrano dirci che il “sé” ha creduto di abbattere i suoi ostacoli, mentre ha cominciato magicamente a volare su un tappeto (come in una favola da Mille e una notte), e invece quella condizione si riattua nell’oggetto-simbolo che l’io-poeta faticosamente costruisce, persino se usa versi delicatamente ironici. Dunque, è continuo l’oscillare tra constatazione delle diversità e tensione a riconoscere un’unità; di sicuro, in queste poesie non si giunge a esiti perentori e a formule incontrovertibili. Infatti le polarizzazioni si ripropongono ripercorrendo, sempre in ordine alfabetico, i nomi attribuiti alle parti umane corporee che sono, come recita il testo proemiale della sezione Atlante anatomico, “gli stranieri opposti maschile e femminile”. Prendiamo in esame Cervello, la poesia dedicata all’organo che, secondo una lunga tradizione idealistica, dovrebbe sublimare la nostra materialità, dovrebbe cioè creare i simboli e anche i libri che ci riguardano. Ruffilli qui introduce, come in molte poesie di queste sezioni, parole ormai consunte sul ‘cervello’ e su cosa ci si può fare, estrapolandole da luoghi comuni: “Bruciarselo o farselo saltare / malato o non del tutto a posto / dato di volta, avendolo trovato / ormai nei piedi o alle calcagna / fritto o lambiccato, ridotto a quello / di formica, di grillo, di gallina, / di mosca, di fringuello o d’oca / e, poi, perfino senza o poco…” L’uso del basso-comico, che si coglie spesso in quest’area, consente di introdurre una sorta di ampio catalogo delle nozioni disponibili sul ‘cervello’: siamo al livello della satura montaliana, della enumerazione più o meno caotica di frasi fatte o di riferimenti nozionistici, magari riguardanti le ricerche fisiologiche e neurologiche sulla natura effettiva del cervello umano in rapporto a quello di altri animali. Ma lo scatto davvero poetico arriva dopo che sono state esaurite le parole-vuote, appunto i luoghi comuni: “è l’intestino in testa, è la matassa / grigia e stagna, la cesta del budello / la vera camera di combustione / che trae energia dal fuoco e fa / materia dell’idea creando l’opinione”. Qui infatti si prende come base una nozione scientifica ormai abbastanza diffusa, e cioè che fra cervello e intestino sussista ben più che un’analogia morfo-funzionale, e tuttavia, al contrario di quanto di solito si dice, non è il secondo ad assomigliare al primo, bensì il cervello stesso ad agire come una sorta di laboratorio chimico, che fa materia dell’idea, ossia rende dicibile, concreta, diffondibile e ‘opinabile’ la condizione interiore fantasmatica dell’io, la sua ‘idealità’, il suo essere qualcosa nella materia, dentro e però poi oltre essa. Anche in questo caso materialità e simbolicità si ritrovano indistricabilmente legate, quasi non potessero che convivere per manifestarsi entrambe, o almeno per far sì che possano essere osservate. Da ciò potrebbe derivare l’unico compito serio che pertiene alla poiesis: sottrarre all’indistinto e mettere in luce ogni aspetto del reale che viene nominato, con “parole che aprono la carne”, come recita l’intenso testo riepilogativo di questa sezione. Ma subito dopo, in esergo all’ultima, ossia Lingua di fuoco, ecco una sentenza di tipo squisitamente filosofico, “L’universo, a diversi gradi di verbalizzazione, / è costruzione simbolica del nome”, che sembra invece ricondurre a un principio nominalistico ogni forma di conoscenza; tuttavia essa introduce la variabile dei “diversi gradi”, che garantiscono la necessità di seguire numerosi percorsi di ricerca, appunto di grado in grado, dentro un universale che è material-simbolico in sé. Non a caso, la parola è ancora ibrida, esattamente quella manifestata in alcuni versi che abbiamo citato nella versione già edita e che vengono qui rimodulati e ricontestualizzati: “Ha filamenti lunghi la parola, / radiche chiare e barbe nere / che pescano nell’utero del tempo…”. Ma per concludere il percorso iniziato con Libro e Cervello, non si può non concentrare l’attenzione su un’altra poesia, Mente, che sembra indicare l’obiettivo finale del percorso, la contemplazione mistica. E però, ancora una volta, sarebbe semplicistico ridurre la posizione di Ruffilli a quella di un saggio orientale, pur avendo con essa forti somiglianze. Infatti qui si afferma che talvolta la mente si ritrova libera “da ciò / che muta” e non c’è “più niente che ti lega a niente / scivolato parola per parola nell’abbraccio / della lingua, impercettibile caduta / nella più assoluta tua contemplazione”. Tutto chiaro e nirvanico? Non proprio, perché il verso finale è ambiguo, visto che il “tua” può riferirsi semplicemente al fatto che la contemplazione è quella del poeta (ma sarebbe banale), oppure al fatto che è “di te”, ovvero è condotta, attraverso una piena immersione nella lingua e nel suo fuoco, sino a rendere finalmente in pieno ragione di quanto il Libro e il Cervello avevano intuito. Solo che questa contemplazione del tu-io-sé non è conclusiva bensì un ennesimo grado di verbalizzazione. Perciò poco oltre, in Categorie universali, si legge che “la mente fa ricorso all’ordine” per riuscire a riorganizzare “il vasto ibrido mare più indifferenziato, / dentro il plurale, di zero e singolare”. Neanche la Mente possiede una capacità indiscutibile di trasporre il “vasto ibrido mare” dell’essere, per citare e sconvolgere il Dante del primo canto del Paradiso: anch’essa si affida a un ordine imposto ma momentaneo, universale solo sul versante logico, purtroppo insufficiente a delineare i nostri frattali di esistenza. E non a caso le ultime parole di questo libro, che si è proposto come una rassegna forte e ri-vissuta dell’esperienza conoscitiva del poeta stesso, sono di nuovo all’insegna delle domande, graficamente e nominalmente degli Interrogativi, ovvero nove testi che ripropongono i dubbi ineliminabili, compreso quello radicale che si può intendere meglio tenendo a mente le tele di Lucio Fontana: “come riuscire infine / a ricomporre il taglio?”. Nella vita come la viviamo, ricomporre esattamente il taglio (la separazione, la percezione del vuoto nel pieno, l’apertura che è anche ferita, la gioia che si contrappone e però chiama il lutto…) non si può. Resta il gesto di nominare, sul quale si chiude l’intero libro di Ruffilli, il quale chiede all’idea di farsi presenza, alla ragione di farsi linguaggio, alla musica interiore di salire alla percettibilità di scaglie sonore… Soprattutto è ancora come sempre fatto di confronto e di scontro; è dualismo che aspira all’unità, ma in fondo non la vuole, se deve diventare stasi; e in ultima analisi configura una poiesis che accoglie e elabora e rigenera l’incessante rapporto con la “resistenza delle cose”.