LA FELICITÀ DI UNA SOLUZIONE IN RUFFILLI
Il titolo di Paolo Ruffilli Piccola colazione (Garzanti) mi fa venire in mente che la parola colazione ha una storia curiosa. Nei monasteri benedettini si usava leggere le Collationes Patrum di Cassiano prima della compieta e si cominciò a chiamare collatio, per contiguità temporale, il pasto leggero che le seguiva e le rendeva probabilmente più appetibili. L’origine di questo slittamento di significato, che i linguisti chiamano metonimia, l’avevo scoperta più di vent’anni fa, leggendo un libro di Stephen Ullmann dedicato alla semantica, e da allora non l’ho più dimenticata. Mi colpiva l’associazione tra frati e cibo, tra lettura e digestione, anche se, a ripensarci, è meno singolare di quanto mi apparisse. Ma c’era, in questa metamorfosi dell’uso, una sorta di infrazione linguistica, di trasgressione lessicale, di disponibilità ambigua, che accompagna come un destino la parola anche nel suo impiego moderno. Colazione è il primo pasto della mattina, ma può essere, ci informa il Lessico Universale Italiano, la leggera refezione serale di un giorno di digiuno; può diventare un pranzo misurato di mezzogiorno, ma non le viene negata l’eventualità di essere “lauta”. I linguisti sembrano accordare con riluttanza questa estensione del significato, amanti come sono, in genere, di una dieta puristica: ma l’uso e la gola trasformano le tentazioni in diritti e del resto, come diceva Pietro Verri, se il mondo dipendesse dai grammatici scriveremmo carrozza con due erre, ma andremmo a piedi. Nel titolo di questa Piccola colazione di Paolo Ruffilli la parola colazione si accompagna a un aggettivo, “piccola”, che dovrebbe, circoscrivendo il significato, eliminare l’ambiguità e che invece, secondo la strategia fintamente riduttiva dell’autore, non fa che aumentarla. In italiano piccola colazione appare come un calco immaginario di petit déjeuner: in fondo è una espressione che non esiste. Che poi taluni albergatori sostituiscano la prima colazione con la piccola rientra in quelle invenzioni che trovano nell’ignoranza il terreno più fertile e, diciamo pure, provvidenziale. Ci si rammarica che la tradizione abbia una memoria intermittente, quando non malferma: ma quale mostruosità diventerebbe se ricordasse tutto? Dunque piccola colazione è un prestito allusivo, una nuova infrazione dissimulata, una trasgressione accattivante e sorniona perfettamente in linea con i sei poemetti che formano la raccolta. Io credo nell’enigma trasparente dei titoli, quando, come nel caso di Ruffilli, siano il compimento di un lavoro di anni e suggellino la maturità espressiva di un’opera. E infatti questo mondo poetico è gremito di piccole infrazioni e trasgressioni, che rientrano apparentemente nella norma e invece minano il significato e i fondamenti. Le prime infrazioni sessuali di Malaria, che scoprono l’altro se stesso nello specchio, non sono tanto l’iniziazione, trepidante e goffa, all’autoerotismo – come se l’erotismo potesse fare a meno del prefisso – quanto le prime infrazioni linguistiche delle parolacce, sfida spericolata alla autorità (“Intanto, dappertutto/ Dio ti vede”). E le prime trasgressioni coniugali di Fu vera gloria?, compiute nel luogo più sicuro – in casa – portano, più che all’adulterio, a un diventare adulto, ovvero a crescere, secondo l’etimologia della parola. Non la crescita di cui si favoleggia nelle interviste – non si fa che crescere, che cosa faremo da grandi? – ma quella della propria controfigura, sempre più accorta e elusiva: “Riservato e un po’ introverso/ inappuntabile, a vederlo,/ ossequiente di ogni autorità./ Lui che risponde serio:/ “Ma si figuri, per carità”./ Elegante, sì, e gentile/ molto discreto sempre/ accolto ovunque con favore./ Sia pure ma… lontano/ fuori scena, lui si sente,/ neppure poi in agguato/ e più in difesa, quasi/ del tutto assente”. Per amore o per forza prefigura, già nel titolo, il tipo di alternative che la passione concede all’amante: e i dialoghetti che interrompono, con inserzioni di iperrealismo, la convenzione degli sfondi piccolo-borghesi ricompongono, più che lacerare, quel tessuto di menzogne con cui la sincerità cerca di esprimersi. L’assedio di Costantinopoli introduce le distorsioni ottiche di un cannocchiale alla rovescia, avvicinando la realtà solo per rimpicciolire, attraverso un confronto con la storia, le turbe collettive. E Prodotti notevoli introduce a quel mondo di litanie superstiziose che è diventata la scuola. Né manca, tra quinte fatiscenti e fondali di polvere, l’invocazione al padre, liturgia domestica che non si sa se propiziatoria o esecratoria: “Padre potente/ arbitrio comando/ signore che prende/ che regge le fila/ che muove e sostiene/ dominio e licenza./ Padre che è assente/ sole lontano/ ignoto mestiere/ enigma che incalza/ diverso e straniero/ limine termine fine./ Padre splendente/ pensato e sognato/ tenuto soltanto per mano/ guerriero tornato/ per poco disposto a restare/ giocare parlare una volta/ babbo papà”. Ma All’infuori del corpo, che impone alla persona amata riti rassicuranti, svela crepe più sinistre e temibili: “è la cancellazione/ progressiva delle/ presenze care e note,/ il conto che comincia/ a non tornare. Il/ margine sempre più/ sottile, man mano/ che si fanno falle/ e vuoti tra le file”. Per costruire questo romanzo di formazione autoironico questa commedia in sei atti Ruffilli ricorre a metri tra Metastasio e Gozzano, ad ariette di una musicalità incalzante e insieme dimessa, che scandiscono i punti nodali del processo di maturazione: il culmine, lo sappiamo, è la rassegnazione all’evidenza, Che in questo caso è “Necessità di presidiare/ un fianco, con la/ conseguenza di/ tenere senza essere/ disposti per intero/ ad aderire. E, poi,/ il peso scettico/ di fronte all’evidenza/ che ti assale, che/ comunque e sempre/ tutto sia destinato/ a finir male”. E i versi che chiudono la raccolta chiudono anche l’accesso a ogni alibi (altrove) consolatorio: “Eppure, intanto,/ arresi all’evidenza/ di andare navigando/ alla deriva”. Rapido, lieve, ironico Ruffilli ha una grazia compositiva che sa fondere in sequenze unitarie dialoghi, racconto, immagini. Eppure, grazie alla orchestrazione dei ritmi, alla variazione dei toni, ai cambiamenti di andatura, le sequenze rivelano una natura musicale, una trasparenza lirica. E proprio attraverso la convergenza delle scelte espressive Ruffilli offre al problema dei generi non una nuova incognita, ma la felicità di una soluzione.