ESSERI UMANI DI ALESSANDRO FO
In omaggio discreto e alessandrino a una tradizione antica, la nuova, preziosa raccolta di Alessandro Fo, Esseri umani (L’Arcolaio), racchiude il suo nucleo di senso nella forma della Ringkomposition, un anello forgiato all’insegna di un alto ideale di umanità. Si apre nel ricordo degli esseri umani per eccellenza, le vittime della Shoah, con la visita al campo di Dachau di Fuori Monaco, mentre si chiude con il tributo a Primo Levi della lunga poesia che dà nome all’intera raccolta appunto: dai versi di apertura di Se questo è un uomo provengono la struttura di fondo, con il modulo anaforico dell’indignazione «Voi che», e la citazione diretta «considerate se questo è un uomo», qui in epigrafe. Poesie molto diverse tra loro – apparentemente d’occasione la prima, insolito e potente esempio di poesia civile quella finale –, le due composizioni sono accomunate da una cifra stilistica vicina alla prosa, e a una prosa ‘scabra ed essenziale’ rispetto all’usus dell’autore: una scelta giustificata dall’urgenza grave dei tempi che stiamo vivendo, in cui le cetre dei poeti possono faticare a ritrovare la consueta via del canto. Il legame tra i due testi, scaturito dalla tragedia più colpevole del secolo scorso, si sostanzia di una simmetria speculare tra gli spettatori di Fuori Monaco, «turisti» del male di un tempo, e gli innumerevoli «Voi», protagonisti attivi della tragedia attuale. L’urto con la mostruosità del male, evitato a Dachau dal «ricordo annacquato, / disciplinato, sottomodulato», e solo mimato in chiave minore, vagamente allusiva, dal disprezzo dell’altro che caratterizza la corsa finale a salire sull’autobus, esplode nei versi di Esseri umani che ritraggono i molti volti della ferinità contemporanea, come in una visionaria zattera della Medusa. Tra i due componimenti se ne incastonano altri nove (sette, se si considera che tre formano in realtà un unico nucleo poetico, Tre poesie per Edda Laghi Corrieri), a comporre una piccola galleria di esseri umani, variamente segnati dall’oblio del mondo, e per questo – si tende a credere – intenzionalmente riscattati a permanenza dalla memoria poetica. Nel solco di una grande tradizione che ha attraversato nell’Ottocento la nostra prosa per approdare nel Novecento anche alla poesia, i dimenticati della storia assurgono a protagonisti di questa raccolta, e significativamente già nel titolo, emblema della loro dignità di persone. Rispetto alla prima e all’ultima, si tratta di poesie di registro e misura stilistica meno eccedenti la cifra dell’autore, ma che pure risultano perfettamente coerenti con il passo riflessivo e di denuncia scelto in apertura e in chiusura. Poeta-filologo come quasi nessun altro nel panorama della poesia contemporanea, Alessandro Fo intesse tutta la silloge di preziosismi e di richiami che collegano i vari testi fra di loro, in un modello di piccolo liber che la sua lunga frequentazione (simbiosi?) con Catullo gli deve rendere naturale. Così, al nesso allitterante «minime mansioni» che chiude la seconda delle Tre poesie per Edda Laghi Corrieri fa eco il titolo Minimi incontri della composizione seguente; la protagonista di Opere e omissioni, Felicina, e quella anonima di Doni si corrispondono per la sottrazione di valore applicata alla loro vita dall’occhio del mondo che la seconda denuncia («Io, che da viva, non servivo a niente»); la tragica Kay Kent e la leggera Lettera da Firenze, accomunate dalla stessa occasione che le ha generate (una raccolta di poesie per Marilyn Monroe), sono incastonate in successione tra le due precedenti; infine, la poesia che offre garbatamente una via di ‘salvezza’ in questa galleria di ‘sommersi’, Come salvarsi agevolmente la vita in caso di grave crisi, è collocata esattamente al mezzo, se le Tre poesie vengono contate per tre, e sembra porgere al lettore la chiave – in forma di ricetta suggerita da un’amica – per sfuggire alla temuta inconsistenza della vita, il rifugio tra gli scaffali di una libreria parigina di vivace tradizione, eletta spiritosamente a casa-vacanza. La costruzione attenta della raccolta è però come la raffinata boiserie di una Camera delle Meraviglie in cui ogni oggetto incanta di per sé. Fra le note che risuonano da sempre nella polifonia dell’autore si segnalano l’omaggio delicato alla bellezza giovanile e alla fragilità della vecchiezza, la prima, perché il cuore dei poeti, è noto, resta sempre giovane e per sempre esposto a farsi ferire dallo splendore (Minimi incontri), la seconda perché fa parte sin dalle prime raccolte dell’humanitas di Alessandro Fo e dunque non poteva che continuare a germogliare. L’uno e l’altro aspetto si arricchiscono però di una più matura tonalità: quella che scaturisce dalla consapevolezza accresciuta dell’intima precarietà di ogni condizione, da quella più fortunata a quella già liminalmente insostenibile, e che ne giustifica l’inclusione in questa silloge. L’«abbagliante candore» di «Annamaria / in abito da sposa» ricorda da vicino i tratti di quelle epifanie che compongono la sezione Figure d’angeli della raccolta Mancanze, ma il perdurare di questo lampo di bellezza anche nell’inesorabile avanzare del male è tutto nuovo e riporta alla memoria il ritratto della madre di Cecilia del Manzoni; sull’altro versante, quello del crepuscolo, gli squarci sulla vita nella casa di riposo offrono un magistrale esempio di traduzione nelle forme della sintassi poetica (anafore di «Non», parallelismi, gioco di sospensioni) delle rarefazioni nella lucidità e nella limpidezza dei discorsi, la dolce amaritudine del declino. E questo non è che uno degli esempi che permettono di gustare il complesso lavoro sulla lingua poetica costantemente messo in atto dall’autore. Per chi conosce la parabola poetica ed esistenziale di Alessandro Fo, questa silloge rappresenta dunque un tassello nuovo, frutto di un progressivo allargarsi della conoscenza degli esseri umani, sorretto dalla determinazione dell’autore a liberarsi di ogni recinto e di ogni barriera.