LA POESIA DI PAOLO FABRIZIO IACUZZI
La cifra di Paolo Fabrizio Iacuzzi si è sempre segnalata in un sorprendente equilibrio, nella sua poesia, tra elementi della tradizione e tecniche linguistiche e metriche della contemporaneità. Cifra che una volta di più si riconferma nella sua ultima raccolta, Folla delle vene (Corsiero Editore). Le ascendenze liriche alte della poesia di Iacuzzi, condotte a originale sviluppo nel segno di un metaforismo di succo illuministico e a specchio di quel passaggio di distensione che si può verificare per esempio da Bigongiari a Caproni, hanno trovato compimento nel progetto di sposarle a un flusso dall’andamento discorsivo. E la poesia si fa parola, in un processo che ha avuto in Montale il riferimento privilegiato per la generazione di Iacuzzi. Il puro peso della comunicazione non inibisce affatto alla parola le virtù liriche, fantastiche, evocative e mitiche che sono proprie della “poesia”, piuttosto le accoglie e le subordina a un’intenzione diversa, di “discorso” vario e complesso, mai concluso e intermittente, magari molto meno assoluto ma per questo capace di infilarsi nelle intercapedini della vita (“Anche il mio verso sotto il peso delle traduzioni / ha finito per cedere. Ha creato spazi e fessure. // È crepata la parete da scalare. Ormai il verso è solo”). Con una piegatura spigliata e disinvolta, ma, in ogni caso, l’ironica coniugazione delle parti resta come sospesa in una sorta di contratto pudore (non aspirando affatto a funzione dissacrante), dentro il quale regna sovrana la tenera misura, che ne è la caratteristica portante. C’è, nella poesia di Paolo Fabrizio Iacuzzi, una tenerezza espressa come eleganza di strutture, delicatezza di modi e di toni, flessibilità melodica, leggerezza di immagini. Come attraverso un vetro, però, e dunque non in cedimenti sentimentali o formali, ma in una purezza cristallina, che ha già fissato un suo distacco dal sentimento delle cose. Le cose, già: appetibili ed evanescenti, rispetto alle quali in questo libro si ripete un verso, nella serie “Il tempo degli amici”, mosso sicuramente anche da una volontà scaramantica: “Non c’è più tempo amici per le cose”. Il senso dello scorrere e del dissolversi di oggetti e sentimenti risulta, comunque, come ribaltato e tutto, nella vicenda esemplare della vita, finisce col diventare agli occhi del poeta indizio del futuro stesso. Il passato continua nel presente e prelude, appunto, a un futuro intermittente (“Se vi rivedo qui è perché non vi ho perso di vista”). Ecco, allora, implicitamente la rivelazione che quello che viviamo o abbiamo vissuto è ansia di quello che sarà, speranza e illusione, ma in una condizione diversa da quello che si potrebbe pensare, di pacificazione e non di angoscia. Ed è la condizione mirabile, mi pare, della poesia di Paolo Fabrizio Iacuzzi.