Sergio
CORAZZINI

Sergio Corazzini nasce nel 1886 a Roma, dove muore precocemente di tisi nel 1907. Pubblica nel 1902 le prime poesie in dialetto romanesco e in lingua italiana, sulle riviste “Marforio”, “Capitan Fracassa”, “Rugantino”. Divenuto un punto di riferimento del mondo letterario romano, trascorre le serate nei caffè, in compagnia di intellettuali come Fausto Maria Martini, Corrado Govoni, Alberto Tarchiani, Luciano Folgore. Fonda con gli amici la rivista “Cronache latine”, destinata a breve vita. Escono presso la Tipografia cooperativa operaia romana le sue esili raccolte di versi: Dolcezze (1904), L’amaro calice (1905), Le aureole (1905), Piccolo libro inutile (1906), Elegia.Frammento (1906), Libro per la sera della domenica (1906). Postume: Liriche (Ricciardi, 1909 e 1959 con prefazione di Sergio Solmi), Poesie edite e inedite (Einaudi, a cura di Stefano Jacomuzzi), Poesie (Rizzoli, 1992, introduzione e commento di Idolina Landolfi).

https://it.wikipedia.org/wiki/Sergio_Corazzini

http://www.treccani.it/enciclopedia/sergio-corazzini_%28Dizionario-Biografico%29/

POESIE

Il mio cuore
Il mio cuore è una rossa
macchia di sangue dove
io bagno senza possa
la penna, a dolci prove

eternamente mossa.
E la penna si muove
e la carta s’arrossa
sempre a passioni nove.

Giorno verrà: lo so
che questo sangue ardente
a un tratto mancherà,

che la mia penna avrà
uno schianto stridente…
… e allora morirò.

Giardini
O piccoli giardini addormentati
in un sonno di pace e di dolcezze,
o piccoli custodi rassegnati
di sussurri, di baci e di carezze;

o ritrovi di sogni immacolati,
di desideri puri e di tristezze
infinite, o giardini ove gli alati
cantori sanno di notturne ebbrezze,

o quanto v’amo! I sogni che rinserra
il mio core, fioriscono, o giardini,
lungo i viali, ne le vostre aiuole.

Io v’amo, io v’amo, o fecondati al sole
di primavera in languidi mattini,
o giardini, sorrisi de la terra!

Invito
Anima pura come un’alba pura,
anima triste per i suoi destini,
anima prigioniera nei confini
come una bara nella sepoltura,

anima, dolce buona creatura,
rassegnata nei tristi occhi divini,
non più rifioriranno i tuoi giardini
in questa vana primavera oscura.

Luce degli occhi, cuore del mio cuore,
tenerezza, sorella nel dolore
rondine affranta nel mio stesso cielo,

giglio fiorito a pena su lo stelo
e morto, vieni, ho spasimato anch’io,
vieni, sorella, il tuo martirio è il mio.

Rime del cuore morto
O piccolo cuor mio, tu fosti immenso
come il cuore di Cristo, ora sei morto;
t’accoglie non so più qual triste orto
odorato di mammole e d’incenso.

Uomini, io venni al mondo per amare
e tutti ho amato! Ho pianto tutti i pianti
vostri e ho cantato tutti i vostri canti!
Io fui lo specchio immenso come il mare.

Ma l’amor onde il cuor morto si gela,
fu vano e ignoto sempre, ignoto e vano!
Come un’antenna fu il mio cuore umano,
antenna che non seppe mai la vela.

Fu come un sole immenso, senza cielo
e senza terra e senza mare, acceso
solo per sé, solo per sé sospeso
nello spazio. Bruciava e parve gelo.

Fu come una pupilla aperta e pure
velata da una palpebra latente;
fu come un’ostia enorme, incandescente,
alta nei cieli fra due dita pure,

ostia che si spezzò prima d’avere
tocche le labbra del sacrificante,
ostia le cui piccole parti infrante
non trovarono un cuore ove giacere.

Soliloqui di un pazzo
Sbarrò nell’ombra i grigi occhi perduti:
l’alba coglieva con le dita bianche
le ultime stelle per i cieli muti.

Egli pensò che il cuor tremi alle soglie
dell’anima così, come le stelle
treman la notte, alle divine porte
fin che la pietosa alba le coglie.
«Hai visto tu passare le barelle,
o pazzo insonne, con le stelle morte?»

Chiarità di una lama, o tu che fendi
l’ombra maligna: io t’offro il mio cervello
oscuro e tristo per disegni orrendi.

Io non ho pace, l’anima è un pantano;
nell’anima stagnarono i ricordi,
subitamente; oh quante volte, pietre
vi hanno scagliato con secura mano!
Dopo, il silenzio per i tonfi sordi
sé avvolse in bende assai più gravi e tetre.

Un ragno tesse la sua tela folta
per il mio teschio e nella tela stanno,
morte stecchite, le idee d’una volta.

Mai più, mai più! su le terrene cose
l’occhio non sosta, l’occhio si dispera,
come un’ala ferita ai cieli tende.
Io voglio la tristezza delle rose
morte all’inizio della primavera
per farne una corona alle mie bende.

Il mio cortile con un po’ di cielo,
con poche stelle, a me sembra uno strano
fiore: corolla azzurra e grigio stelo.

Il mio cortile è triste molto, come
il suono di una placida campana
sotto un cielo di nuvole e di pioggia.
Una bianca tristezza senza nome
veste i muri, e nell’alto, una lontana
luce, su li orli, un oro dolce sfoggia.

Tu che mi ascolti non aver pietà,
non lacrimare delle mie sventure
come quel Cristo nell’oscurità.

Ah, quel Cristo, lo vedi? egli moriva
così, come ora, desolatamente,
quando venni alla cella che mi chiude.
Avea negli occhi una gran fiamma viva,
la fronte dolce e pur sanguinolente
e piaghe orrende per le membra ignude.

Non morì mai, non morrà più: mi guarda
nel buio e trema quando il lume trema
come i fanciulli se la sera è tarda.

A poco a poco si dissangueranno
le sue ferite per la doglia atroce
infin che un tarlo, – quando? – lentamente
roda i chiodi terribili che sanno
l’ossa dell’uomo e il legno della croce
e spezzi invano quel suo cuore ardente.

Chi mi parla dell’anima? Un impuro
ladro, forse, o un abate incipriato?
L’anima è morta ed io ne son sicuro.

Come una fonte semplice e tranquilla
donò la gioia alle riarse gole
degli umani e non seppe, ahimè! tenere
per la sua sete giovane una stilla!
Morì così, come un ignoto sole
spento su le fiorite primavere.

Chi batte alla mia porta? sei tu, cara?
Vieni con l’alba alla mia cella triste?
L’inchiodi forse questa grigia bara?

Mi ricordo di te, sola; eri bionda,
esile come un sogno giovinetto,
pallida come un astro mattutino;
te sola, nell’oscurità profonda
del mio cuore, t’accorgi per diletto;
te sola, con il mio tetro destino.

Chi tenta l’ombra che stagnò nei trivi
in cui le donne come idee mal certe
più volte si volgean tentando i vivi?

Chi veste d’auree stole anche le immonde
case che il fango d’un amplesso cinge?
Chi l’oro ai figli della terra adduce?
Ah, sei tu, sole, che le più profonde
pupille ferme nell’eterna sfinge
avvivi, anima orgiaca della luce?!

Sonetto della neve
Nulla più triste di quell’orto era,
nulla più tetro di quel cielo morto
che disfaceva per il nudo orto
l’anima sua bianchissima e leggera.

Maternamente coronò la sera
l’offerta pura e il muto cuore assorto
in ricevere il tenero conforto
quasi nova fiorisse primavera.

Ma poi che l’alba insidiò co’ ‘l lieve
gesto la notte e, per l’usata via,
sorrisa venne di sua luce chiara,

parve celato come in una bara
l’orto sopito di melanconia
nella tetra dolcezza della neve.

La finestra aperta sul mare
a Francesco Serafini
Non rammento. Io la vidi
aperta sul mare,
come un occhio a guardare,
coronata di nidi.
Ma non so né dove, né quando,
mi apparve; tenebrosa
come il cuore di un usuraio,
canora come l’anima
di un fanciullo. Era
la finestra di una torre in mezzo al mare, desolata
terribile nel crepuscolo,
spaventosa nella notte,
triste cancellatura
nella chiarità dell’alba.

Le antichissime sale morivano
di noia: solamente l’eco delle gavotte,
ballate in tempi lontani
da piccole folli signore incipriate,
le confortava un poco.

Qualche gufo co’ i tristi
occhi, dall’alto nido
scricchiolante incantava
l’ombra vergine di stelle.
E non c’era più nessuno
da tanti anni, nella torre,
come nel mio cuore.

Sotto la polvere ancora,
un odore appassito, indefinito,
esalavano le cose,
come se le ultime rose
dell’ultima lontana primavera
fossero tutte morte
in quella torre triste, in una sera triste.

E lacrimava per i soffitti
pallidi, il cielo, talvolta
sopra lo sfacelo delle cose.
Lacrimava dolcemente
quietamente per ore
e ore, come un piccolo fanciullo malato.
Dopo, per la finestra
veniva il sole, e il mare,
sotto, cantava.

Cantava l’azzurro amante,
cingendo la torre tristissima
di tenerezze improvvise,
e il canto del titano
aveva dolcezze, sconforti,
malinconie, tristezze
profonde, nostalgie
terribili… Ed egli le offriva i suoi morti,
tutte le navi infrante,
naufragate lontano.

Una sera per la malinconia
di un cielo che invano
chiamava da ore e ore
le stelle, volarono via
con il cuore
pieno di tremore
le ultime rondini e a poco
a poco nel mare
caddero i nidi: un giorno
non vi fu più nulla intorno
alla finestra. Allora
qualche cosa tremò
si spezzò
nella torre e, quasi
in un inginocchiarsi lento
di rassegnazione
davanti al grigio altare
dell’aurora,
la torre
si donò al mare.

Desolazione del povero
poeta sentimentale
I
Perché tu mi dici: poeta?
Io non sono un poeta.
Io non sono che un piccolo fanciullo che piange.
Vedi: non ho che le lagrime da offrire al Silenzio.
Perché tu mi dici: poeta?

II
Le mie tristezze sono povere tristezze comuni.
Le mie gioie furono semplici,
semplici così, che se io dovessi confessarle a te arrossirei.

Oggi io penso a morire.

III
Io voglio morire, solamente, perché sono stanco;
solamente perché i grandi angioli
su le vetrate delle cattedrali
mi fanno tremare d’amore e di angoscia;
solamente perché, io sono, oramai,
rassegnato come uno specchio,
come un povero specchio melanconico.
Vedi che io non sono un poeta:
sono un fanciullo triste che ha voglia di morire.

IV
Oh, non maravigliarti della mia tristezza!
E non domandarmi;
io non saprei dirti che parole così vane,
Dio mio, così vane,
che mi verrebbe di piangere come se fossi per morire.
Le mie lagrime avrebbero l’aria
di sgranare un rosario di tristezza
davanti alla mia anima sette volte dolente,
ma io non sarei un poeta;
sarei, semplicemente, un dolce e pensoso fanciullo
cui avvenisse di pregare, così, come canta e come dorme.

V
Io mi comunico del silenzio, cotidianamente, come di Gesù.
E i sacerdoti del silenzio sono i romori,
poi che senza di essi io non avrei cercato e trovato il Dio.

VI
Questa notte ho dormito con le mani in croce.
Mi sembrò di essere un piccolo e dolce fanciullo
dimenticato da tutti gli umani,
povera tenera preda del primo venuto;
e desiderai di essere venduto,
di essere battuto
di essere costretto a digiunare
per potermi mettere a piangere tutto solo,
disperatamente triste,
in un angolo oscuro.

VII
Io amo la vita semplice delle cose.
Quante passioni vidi sfogliarsi, a poco a poco,
per ogni cosa che se ne andava!
Ma tu non mi comprendi e sorridi.
E pensi che io sia malato.

VIII
Oh, io sono, veramente malato!
E muoio, un poco, ogni giorno.
Vedi: come le cose.
Non sono, dunque, un poeta:
io so che per esser detto: poeta, conviene
viver ben altra vita!
Io non so, Dio mio, che morire.
Amen.

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