LO SGUARDO DI NADIA SCAPPINI SULLA BELLEZZA

 

LO SGUARDO DI NADIA SCAPPINI SULLA BELLEZZA

Apparizione di aggettivo ardita e apprezzabile perché apparentemente incongrua, la parola «democratica» ti sorprende nella penultima riga della poesia che Nadia Scappini ha dedicato alla cala dei ginepri nel golfo di Orosei, posto molto bello della bella isola di Sardegna. L’epigrafe è del grand’esploratore di fede e terra, Teilhard De Chardin («Tutto quel che ascende converge»), ed è sciolta così in una composizione che evoca una preghiera claustrale all’aurora… “fino a scorgere / il barbaglio della rosa / che si fa via via attesa dentro / un fremito che bacia e che rincuora / e fa sentire rette la solitudine / le scarne parole a labbra giunte / l’orazione dell’orecchio che trattiene / appena il seme che ascende / e converge in virtù della bellezza / rara e democratica di ogni filo d’erba / della conchiglia che fa la sabbia rosa…” e poi ci sono l’ulivo argenteo e la buganvillea radiosa, e “il glicine slabbrato e sensuale sul muro sbiancato dal salso”. Rara e democratica, come il filo d’erba, è anche la poesia di Nadia Scappini che – romagnola di nascita, di famiglia veneta, trentina per insegnamento e per scrittura, autrice di un romanzo premiato, Le ciliegie sotto il tavolo (2012) – riceve la consacrazione nel piccolo paradiso dei poeti grazie ad un elegantissimo libretto di Nino Aragno editore, che ha un titolo felice, Un’ora perfetta, ed una felice e autorevolissima nota critica in fondo, di Giorgio Barberi Squarotti che così ce la descrive: “La poesia di Nadia Scappini muove dalla parola per giungere alla vita in una tensione luminosa dove riconoscere il senso delle esperienze… e la presenza dell’eterno che garantisce il valore di ogni grazie e della vecchiaia, della speranza e della grazia”. Dirlo meglio, non si può. Al cronista dell’effimera, perfetta imperfezione della novità del giorno, se appena si è disposti a fare una pausa nel flusso dei social, la scrittura di Nadia Scappini appare davvero luminosa, nel senso che sa farsi illuminare dalla bellezza («democratica»! per tutti!) del mondo e insieme illuminare anche le pieghe oscure, le rughe del dolore, le spine che inevitabilmente accompagnano le rose. Le pagine di Un’ora perfetta restituiscono il potere luminoso della parola anche grazie a tutta una serie di variazioni grafiche (i corsivi, gli spazi aumentati tra una parole l’altra, gli scarti di riga, le parentesi con il testo di corpo più lieve) che ci dicono la ricerca di una perfezione formale, che sappia accompagnare la tensione rigorosa ma sorridente che vuole enucleare, nel paesaggio del creato, i segni del bello-e-buono-che-non-passa, perché “tutto è grazia”. Piccoli segni, modeste tracce, perché “nessun fiore chiede di farsi notato/ l’umiltà radica qui / ci sta addosso l’inutile”. Nadia Scappini apre la sua silloge poetica (suddivisa in due parti, “nella piega obliqua di un sorriso”; “eppure esisto per un tuo sospiro”) con due citazioni, dell’immortale Lucrezio e della rivoluzionaria Etty Hillesum (“Dammi un piccolo verso al giorno, mio Dio…”) per dire che siamo tutti figli del cielo, e che dunque la bellezza passeggera della terra e di chi la abita può essere riscattata in un destino di eternità. La poetessa ci crede, con appassionata vigilanza: “Vorrei che i versi raccolti in questo libro risultassero vigili e assorti, riflessivi e lievi. Che rivelassero, quieti, un riflesso del mistero e della bellezza che viviamo ogni giorno inconsapevoli e distratti”. Tranquillizziamo Nadia Scappini: i suoi versi sono rivelatori, lievi ma intensi, esprimono davvero “il dono dell’incanto”, dove si legge: “e dire che pretendevo / un tempo – e come l’attendevo – la felicità / ora che ho smesso / essa mi incalza a sorpresa / così da estenuare (come a volte / il dolore) mi spalanca la fronte ab ortu segnata / mi cinge alle spalle mi pulsa mi batte / nel petto finché divento canto / salmodiando / la chiarità che ingravida il creato”. Se fosse questo, il segreto della felicità? Mai pretenderla, non attenderla? Farsene semmai sorprendere alle spalle? Come un regalo inatteso? Come un dono che non si può invocare, ma solo, in silenzio o sorridendo o cantando, accettare?

Paolo Ghezzi

L’Adige

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