IL GIARDINO DI FRANCESCA BRANDES
Quando la poesia verifica la possibilità dell’empatia e la rende presente, ha già realizzato uno dei desideri del lettore: quello di sentirsi accompagnato per mano dentro la parola, che diventa “luogo sensibile”. Nella nuova raccolta di Francesca Ruth Brandes, Storie dal giardino (La Vita Felice), la sensibilità è viva in tutte le sue accezioni e soprattutto nell’”atto a comprendersi dall’anima” emozioni e sensazioni: ciò risiede già nel titolo e nel moto a luogo che si trova lì; il “giardino”, raccoglie e ingloba vicende e trame, tutte le narrazioni e una memoria che vi trova sede. “Giardino” tutt’altro che “spazio chiuso”: non c’è alcun recinto nella poesia che oggi leggeremo qui, o se c’è è la «realtà» che dà inizio al procedere poetico, dato da una fiducia consistente nel “vero” quanto in ciò che si incontrerà come «magico». La voce della poeta veicola il venir fuori, l’uscire dalla terra, dall’albero, dalle foglie, dal cielo e così via della parola, che muove personaggi e visioni; gli elementi naturali tengono insieme tutto, lo stringono, fanno corona. Un “dire” che abbia a che fare con questo (ri)conosce soprattutto i limiti dell’umano in relazione all’universo, a un disegno più grande che non si può spiegare; e forse si può assumere nella poetessa la capacità di cogliere ciò che trascende la comprensione dell’uomo ma da una prospettiva che parte dal naturale o con esso deve sempre fare i conti. Il naturale come punto focale ed eterno ritorno di questi testi. Francesca Brandes ci introduce quasi la prospettiva di un giardiniere-autore, come lo intendeva Joan Mirò nel suo volume Lavoro come un giardiniere (Edizioni del Cavallino di Venezia 1964, traduzione italiana di Milena Milani): “Lavoro come un giardiniere o come un vignaiolo. Le cose maturano lentamente. Il mio vocabolario di forme, ad esempio, non l’ho scoperto in un sol colpo. Si è formato quasi mio malgrado. Le cose seguono il loro corso naturale. Crescono, maturano. Bisogna fare innesti. Bisogna irrigare, come si fa con l’insalata. Maturano nel mio spirito”. È da quel “maturare nello spirito” che la poesia di Francesca Brandes sgorga; da un percorso cavo durante il quale si impara (e il poeta impara per primo) a riconoscere il fare artistico nel tempo della natura, che detta il ritmo. Facile a dirsi: quante poetiche hanno compreso che da lì tutto nasce e tutto finisce? Ma nella contemporaneità questo riguardare lì in tempi di ecologismo ed ecocriticism, e farlo in modo lirico, è un atto sempre rivoluzionario che abbraccia appunto un sapere primordiale e lo riporta a un fare sincronico e armonico antichissimo, com’è la poesia. Alcuni straordinari testi della raccolta attuale erano apparsi, nel 2015, nel nostro blog grazie a un regalo dell’autrice. In quella selezione c’erano già tutte le cifre di una poesia che orienta il legame con la terra, che a esso concede corpo, luce ed estensione; c’è già anche il nesso natura-musica manifesto, antico com’è − ancora − nella poesia: «Poi magica/ di un sortilegio affine/ alla musica/ è la foglia.//». Esiste la magia del vero naturale così come (r)esiste quella dell’altezza-tensione musicale. La poeta «arborea», come in d’Annunzio, è allo stesso tempo robusta, radicata alla vita, alla terra e alla parola, e conosce la propria verticalità che vige nei versi ma in una direzione di slancio. Una poesia accogliente, che non dice solo il sé ma apre all’altro da sé e insegna la via del singolo che si fa di tutti: «Io che amo come amano i cani/ senza compromessi/ sto avvinghiata qui/ albero alla terra/ in una storia nuova./ Solo i pesci vivi, mi dici,/ nuotano controcorrente.//» (p. 16). L’amore dei cani, senza vincolo, è liberatorio e libero come l’andare, il prendere una direzione difficile, estranea, non comune. E poi, in linea con quanto detto: «Credo nell’illuminazione/ di quella stretta/ credo nella libertà di esserci/ così come credo/ di scorrere nel fiume./ Tutte le cose le decide il lampo.//» (p. 21). Una poesia del comunicabile che grazie alla natura estrinseca la propria interna potenza semantica; la forma è già propria e non abbisogna di aggiunte ulteriori.